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Giovedì, 13 Giugno 2019 18:28

I massi coppellati del ritorno alla vita

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Le risposte, affermative o meno, a certe intuizioni, arrivano spesso inaspettate, proprio quando non le si cerca. Altre volte, invece, si manifestano perché ardentemente volute e cercate.

La commenda giovannita di L’Argentière-La-Bessée, nell’Alta Provenza francese, è un sito di notevole interesse storico e culturale, ma anche una vera “capsula del tempo” in cui sono rimaste cristallizzate usanze antiche, mirabilmente conservate insieme alle sovrapposizioni dei secoli successivi.

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Esiste un progetto di recupero della piccola area, elaborato all’indomani delle campagne di scavo effettuate fra il 1996 e il 2005, ma la burocrazia, gli interessi e la scarsa attenzione, mascherati da croniche e provvidenziali “mancanze di fondi”, non ne hanno ancora - e chissà per quanto - consentita la realizzazione. Così le piccole grandi meraviglie di questo luogo misterioso languono, nell’attesa di tornare alla luce.

La visita degli interni della cappella-oratorio di Saint Jean è tutt’ora interdetta per motivi di sicurezza. Ma la curiosità e la perseveranza, unite ad un rocambolesco giro di telefonate, email e messaggi, ci ha infine schiuso quelle porte, rimaste a lungo chiuse.

L’oratorio in pietra dai riflessi dorati sorge su uno sperone roccioso che, secoli addietro, dominava la Durance, che vi scorreva sotto. Oggi l’alveo del fiume scorre molto più distante.

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La commenda risale almeno al 1208 e la nuova chiesa fu costruita dove già sorgeva un qualche altro edificio, forse una piccola cappella, le cui prime tracce risalirebbero al X-XI secolo.

Sulla parte alta della roccia e sul versante verso il fiume, con evidenti risvolti simbolici che richiamano la sacralità della Durance e delle sue acque, furono ricavate diverse tombe rupestri, più volte riutilizzate in epoche diverse.

In prossimità di due di queste sono ancora visibili piccole coppelle, interpretate come “segnali” della presenza di una tomba senza, tuttavia, che si possa stabilire se le fosse siano state ricavate vicino alle coppelle oppure il contrario.

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La presenza di sepolture di fanciulli, almeno 28, inseriti nelle fosse già esistenti o deposti nella nuda terra in prossimità del muro della cappella oppure ai piedi della roccia, inoltre, ha destato non poco stupore, facendo concludere che il luogo possa essere stato un santuario del “ritorno effimero alla vita” o répit.

La struttura più interessante è però la roccia stessa, in cui è stata intagliata, da tempo immemore, una scala che pare fermarsi in prossimità del muro esterno dell’abside. La gradinata è all’origine del curioso toponimo “Gradis Karuli” o “De Gradibus Karoli”, di ignota origine e che richiama non certo Carlo Magno, come si cerca di sostenere, quanto una divinità ancestrale locale, Carrus, personificazione della montagna e quindi della roccia stessa.

È stata interpretata dagli archeologi come un “percorso”, la rimanenza di una via pellegrina che, scavalcando lo sperone, si inoltrava poi nella cittadella fortificata. Anche il rinvenimento di una pavimentazione in ciottoli, che occupa quasi tutta l’area dell’edificio, sembra corroborare l’ipotesi e giustificare in tal modo la scelta del luogo per edificarvi la cappella.

Ma le risultanze degli scavi e la possibilità di vedere con i nostri occhi l’interno dell’edificio, hanno svelato molti altri dettagli, registrati e opportunamente non spiegati, che raccontano una storia ben diversa.

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La “scala”, infatti, prosegue al di sotto dell’abside, fermandosi in corrispondenza del punto in cui fu innalzato l’altare. L’edificazione non mirò a distruggere la “scala”, bensì a inglobarne con molta attenzione la parte terminale. Si chiarisce così la necessità di far intervenire le “maestranze lombarde”, la fraternità italiana dei “costruttori di cattedrali”, i Comacini, che provvidero all’opera, altrimenti non particolarmente difficoltosa. Nessun altro, all’infuori di quegli abili architetti, scultori, scalpellini, carpentieri, muratori, sarebbe stato in grado di realizzare una tanto mirabile sovrapposizione.

Grazie al loro intervento e alla scelta di riempire lo spazio absidale fino al nuovo piano di calpestio con strati di materiali diversi appositamente collocati, tutto si è perfettamente conservato. La “scala” procede con andamento leggermente curvo ed è composta di undici gradini, più uno spazio sommitale, per un totale di 12 piani sovrapposti, quantità che ha un valore simbolico, astroenergetico e numerologico non trascurabile e certamente voluto.

Appoggiandosi parzialmente al piano sommitale, i costruttori realizzarono una piattaforma rettangolare rialzata, ottenuta giustapponendo frammenti di un elegante sarcofago di chiara origine gallo-romana, su cui elevare l’altare. Ciò testimonia una frequentazione molto antica del luogo e la sua evidente sacralità.

È però la parte dello spazio sommitale in cui culmina la “scala”, leggermente decentrata rispetto alla chiesa (al centro c’é infatti l’altare), a riservare la sorpresa più grande. Qui infatti è stata ricavata una coppella di discrete dimensioni e profondità, rimaneggiata successivamente fino ad assumere una forma grossolanamente e approssimativamente rettangolare. Essa è ben più antica e diversa da quella, recente e ben squadrata, rinvenuta all’esterno della chiesa e che fu utilizzata per innalzare una croce rituale in legno, a contrassegnare il cimitero.

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I pochi studi e i quaderni di scavo si limitano, di nuovo, a registrarne la presenza evitando di indagarne lo scopo. C’é tuttavia un piccolo dettaglio che indica come proprio questo fosse il punto più importante e quello cui era rivolta ogni devozione.

In cima alla parte visibile della “scala”, sul muro esterno dell’abside, sono state infatti incise, chissà quanto tempo fa e da chissà quali mani, tre croci. Due sono più incerte e frettolose, ma la terza, quella più grande e più profonda, forse la più antica, è posizionata proprio nella direzione della coppella nascosta, anziché dell’altare, come ci si potrebbe aspettare.

Evidentemente qualcuno, dopo la costruzione dell’oratorio, ancora conosceva precisamente l’esistenza e la collocazione della coppella, che segna il punto più forte della roccia e ha voluto segnalarla, affinché non fosse dimenticata.

I “gradini di Karolus/Carrus” non erano quindi “una strada”, bensì un “percorso rituale”, verso la cima della roccia e l’intero sperone era un grande altare, una “pietra santa” - da cui il nome di uno dei due ospitali del luogo - presso cui celebrare l’ “eterno ritorno”, la buona morte, grazie alla quale essere proiettati in una nuova vita.

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La rugiada e la pioggia che si raccoglievano nella coppella, diventando acqua lustrale, erano il mezzo consacrato grazie al quale essere “liberati” dalle catene del destino mortale, sia per gli adulti che, a maggior ragione, per i bambini mai-nati. L’uso dell’acqua quale mezzo per far emettere il “soffio” vitale a quegli sventurati fanciulli è ben documentato, ad esempio a Saint Martin de Belleville, in Savoia, dove venivano immersi in una vasca. La presenza delle tombe di tre infanti - le più antiche - proprio in fondo alla “scala”, conferma che il répit si svolgesse qui anziché all’interno della chiesa. Se la loro scarsa quantità è dovuta all’efficacia del culto, si spiegano anche le altre 25 sepolture, più recenti e molto più numerose in una collocazione diversa: il rito forse non funzionava più perché la coppella non era più accessibile. Perciò, come accadde in moltissimi altri santuari del “ritorno effimero alla vita” l’ultima speranza, seppellendoli “sotto gronda”, veniva riposta nell’acqua piovana che, sacralizzata dal contatto con il tetto del luogo sacro, avrebbe forse potuto, in qualche modo, salvarli.

Così, inaspettatamente, si è sollevato un velo disteso dalla storia e dagli uomini, svelando fugacemente uno degli scopi per cui su certi massi venivano incise coppelle.

 


BIBLIOGRAFIA

Emile Thevenot, Divinités et Sanctuaires de la Gaulle, Fayard, Paris, 1968

P. Guillaume (abbé), Notice historique sur l’Argentière, in Bulletin de la Société d’études des Hautes-Alpes, 1883

J. Roman, Monographie du mandement de l’Argentière, Paris, Picard, 1883

S. Tzortzis e I. Séguy, Pratiques funéraires en lien avec les décès des nouveau nés. À propos d'un cas dauphinois durant l'Époque moderne: la chapelle Saint-Jean à l'Argentière-la-Bessée (Hautes-Alpes), in Socio-anthropologie, n° 22, 2008

G. Giordanengo, L'Église de L'Argentière, in Congrès archéologique de France, 130e session, 1972, Dauphiné, Paris, 1974

F. Casalini e F. Teruggi, Mai Vivi Mai Morti, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2015


 

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Francesco Teruggi

Scrittore e giornalista pubblicista. Direttore delle collane "Malachite" e "Topazio" presso Giuliano Ladolfi Editore. Autore del saggio divulgativo "Il Graal e La Dea" (2012), del travel book "Deen Thaang - Il viaggiatore" (2014), co-autore del saggio "Mai Vivi Mai Morti" (2015), autore del saggio "La Testa e la Spada. Studi sull'Ordine dei Cavalieri di San Giovanni" (2017), co-autore del saggio storico "Il Filo del Cielo" (2019) pubblicato in edizione italiana e in edizione francese. Presidente dell'Associazione Culturale TRIASUNT. Responsabile Culturale S.O.G.IT. Verbania (Opera di Soccorso dell'Ordine di San Giovanni in Italia).

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