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Mercoledì, 08 Dicembre 2021 16:06

Le Mummie della Sacra

All’ingresso della Sacra di San Michele, poco prima dello Scalone dei Morti, fa bella mostra di sé la riproduzione fotografica di un vecchio acquerello, in cui sono ancora visibili le celebri “Mummie” che si affacciano ghignanti sopra lo scalone, “abbracciate” ad una grossa croce. Furono immortalate anche in alcune rare foto, allineate contro il muro e protette da una grata. Oggi riposano sotto i gradini, ma erano una presenza importante e venerata.

La più curiosa menzione relativa alle mummie è quella contenuta in uno dei volumi della fortunata collana Murray's Handbooks for Traveller, dell’editore londinese John Murray, dedicato al Nord Italia e pubblicato nel 1847: “Questa scala è sostenuta da un enorme pilastro centrale: qua e là le rocce contro le quali l'edificio è costruito, appena fuori, e porzioni di sepolcri sono vagamente visibili. In cima c'è un grande arco, pieno di cadaveri essiccati. Fino a poco tempo fa, questi cadaveri erano collocati seduti sui gradini della scala; e quando si saliva alla chiesa, si doveva passare tra le orribili file di queste sentinelle. […] Da dove venivano i cadaveri, o perché erano collocati lì, non si può sapere: rispettati, se non venerati, i contadini li vestivano e li adornavano di fiori, il che deve averli resi ancora più orribili”.

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Diverse sono le informazioni rimarchevoli che se ne deducono. Pare intanto che le mummie in origine non si trovassero negli archi che sovrastano lo Scalone, bensì sedute sui gradini ed era necessario muoversi tra di esse e aggirarle per poter salire fino al Portale dello Zodiaco.

Inoltre, erano vere e proprie reliquie, venerate dalla popolazione locale che provvedeva a “vestirle”, a mantenere in ordine i loro abiti e ad “adornarle di fiori”, un’usanza che senza dubbio proviene da un lontano passato.

La rimozione di questi corpi dai gradini poi, a quanto sembra, era recente. Ma un altro testo, edito nel 1822, Descrizione dei santuarii del Piemonte più distinti per l'antichità della loro venerazione e per la sontuosità dei loro edifizii opera adorna delle vedute pittoresche di ogni santuario dedicata alla s.r.m. di Carlo Felice re di Sardegna, volume primo, già registrava la presenza di cadaveri addossati ai muri e non seduti sui gradini: “Salendo le scale il passaggiero trovasi come atterrito alla vista di alcuni scheletri che, tratti dalle catacombe de’ monaci, furono colà rizzati lungo il muro, ed addobbati nelle più strane fogge; opera di qualche Pellegrino venuto negli ultimi tempi al Santuario”.

Anche questo autore, Modesto Vittorio Paroletti, indica chiaramente che la macabra esposizione di corpi “addobbati nelle più strane fogge” è una “opera recente”, ma non specifica in alcun modo qual’era la situazione precedente. Sostiene, però, che quei cadaveri erano stati esumati dal “sepolcro dei monaci”, la struttura ottagonale absidata ai piedi della Sacra, che viene indicata come tomba collettiva, nonostante a suo interno non siano state rinvenute sepolture. Il cimitero dei frati si trovava infatti intorno alla struttura che probabilmente fungeva da cappella funeraria.

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Risalendo tra i meandri del passato, un lavoro del 1699, scritto da Pier Giacinto Gallizia, Breve Racconto del tempio e badia di San Michele della Chiusa (in questo testo compare per la prima volta la leggenda della Bella Alda), a proposito dello Scalone si limita a descrivere “una gran scala che ha più di cento gradini, à lato di cui vedonsi parecchi sepolcri degli Abbati, e Monaci”.

L’inciso “e Monaci”, preceduto da una virgola, significa che si vedevano i monaci e i sepolcri degli abati, quindi le mummie c’erano e la loro presenza non era considerata così strana. Se fossero negli archi, sui gradini o presso entrambi non è dato saperlo.

Non c’é dubbio che questi corpi cadaverici provocassero forti emozioni in chi vi passava accanto. In Tradizioni italiane per la prima volta raccolte in ciascuna provincia dell'Italia e mandate alla luce per cura di rinomati scrittori italiani (1847), si racconta dello spavento di cui fu vittima un certo frate Bernardo, il quale sceso lungo lo Scalone per serrare il portone dopo il tramonto, rimase chiuso all’interno poiché il vento aveva bloccato i battenti del Portale dello Zodiaco. Mentre tentava disperatamente di attrarre l’attenzione dei confratelli, il malcapitato monaco cominciò a sentire e vedere un teschio che camminava sui gradini. Fu salvato dal padre superiore, accorso alle sue grida, il quale si fece coraggio e sollevò il teschio di scatto, facendo fuggire il topolino che vi nascondeva all’interno. Da questo aneddoto deriva il soprannome di “scala dei sorci” dato allo Scalone dei Morti.

Verso la fine del XIX secolo lo scrittore inglese Samuel Butler, nel testo Alps and Sactuaries of Piedmont and the Canton Ticino (1881) riprende le notizie del Murray's Handbooks for Traveller in Northern Italy aggiungendovi qualche nota di colore: “Con la porta della chiesa aperta, quale straordinario effetto si dovrebbe ottenere. Il manuale del Murray dice che gli scheletri, che si trovano ora sotto l’arcata, un tempo erano posti in posizione seduta sugli scalini e venivano incoronati di fiori dai contadini.

Immaginatevi quindi questi scheletri seduti fra fiori avvizziti e neve alla luce lunare o del crepuscolo mentre scende un ripieno d'organo (Handel, adagio dal quinto gran concerto)”.

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Inutile dire che, con l’esclusione di Butler, gli altri testi citati non riportano in alcun modo le fonti da cui hanno tratto le loro informazioni, le quali, pertanto, hanno un valore relativo e potrebbero essere “di prima mano” quanto ipotesi degli autori stessi intese per verità.

Forse è un dettaglio dei passaggi del Diario della Casa (Savoia) relativi alla definitiva rimozione delle mummie dallo Scalone dei Morti avvenuta nel 1936, ritrovati dalla Associazione Volontari Sacra di San Michele e pubblicati su Sacra Informa n.1 2013, che può illuminare, seppur flebilmente, il mistero di queste mummie.

17 marzo 1936:Visita ai lavori dell'Illustrissimo Architetto Vittorio Mestruino che si ferma dal mattino fino alle ore 15 facendosi portare il pranzo da un albergo di S. Pietro. E' con lui l'impresario Sig. Maffioli. Chiamato dal suddetto Architetto, mi comunicò la decisione di trasportare le cosiddette mummie o scheletri, posti nella nicchia a destra di chi sale dello scalone, e trasportarli nel sepolcro dei nostri Padri e Fratelli, che si trova sotto lo scalone”.

18 marzo 1936:Trasporto delle mummie (scheletri nella scala grande dei morti) nella tomba o camera mortuaria sotto lo scalone, già tomba dei PP. e Fratelli Rosminiani. Trasporto ordinato da S. E. Conte De Vecchi, Ministro della Educazione Nazionale. Nel mattino dalle ore 8 alle 10 e mezza due muratori prepararono un ponticello provvisorio per giungere al piano della larga nicchia, rimossero la griglia. Allora il P. Rettore, in cotta e stola nera, col chierico Giuseppe Pattarone, portarono Croce e aspersorio, salirono alle mummie, aspersile e recitate le preghiere rituali, cominciarono coi muratori a riempire di ossa, ossicini sparsi nella nicchia due casse e i muratori li trasportarono nella stanza mortuaria dei Rosminiani (i bocia o manuali scomparvero tutti, impauriti dalla vista dei cadaveri).

Sei cadaveri furono trasportati quasi intieri uniti i membri dalla pelle quasi incartapecorita: uno aveva le scarpe unite ai piedi, un altro scheletro era coperto da veste lunga con grembialino e mani giunte; quando tutte le ossa e scheletri furono trasportati in detta stanza mortuaria, uniti insieme, scese il P. Rettore in cotta e stola col detto chierico, asperse coll'acqua Santa, recitò le preci rituali e per le 10 e mezza la mesta funzione era finita. Requie e pace alle anime loro. Pax.

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L’abbigliamento di uno di quei corpi trovati pressoché interi è inequivocabile: la tunica lunga e soprattutto il grembiule sono il segno che il personaggio non era un uomo qualunque, bensì un vero e proprio “apprendista”. Il grembiule è infatti “il simbolo del corpo fisico, dello sviluppo materiale di cui lo spirito deve rivestirsi per prendere parte all’opera di Costruzione Universale” (Jules Boucher, La symbolique maçonnique, 1953), cioè del “vero lavoro” che porta l’uomo alla spiritualizzazione. E ciò si riferisce alla “massoneria” antica che, ben distante dalle caricature moderne senz’anima, era la Via Spirituale dei veri Costruttori di Cattedrali.

Esisteva un particolare tipo di grembiule, documentato almeno in Tibet e in Africa, ma probabilmente presente anche in occidente (ad esempio, ancora in epoca longobarda Paolo Diacono descrive l’uso particolare di teschi come coppe cerimoniali, testimoniando l’impiego delle ossa umane in certi ambiti rituali), che era realizzato con ossa umane intarsiate e il cui scopo era “associare i morti al lavoro spirituale che si intendeva compiere”.

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Non si trattava di vana superstizione bensì di un rapporto di continuità e di aiuto tra vivi e morti che non si limita ad un laconico “memento mori”: “ricordati che devi morire”. Così, forse, si può spiegare la venerazione della gente semplice per le mummie disposte lungo lo Scalone e sotto gli archi della Sacra: erano le spoglie mortali di coloro che “erano andati avanti”, tracciando la strada per chi avrebbe voluto seguirli in quella particolare via spirituale, al di là della semplice vita cenobitica. I fiori di cui venivano addobbati quei corpi, infatti, sono essi stessi rappresentazioni delle anime dei morti e in particolare sono archetipi dell’anima. Quasi certamente quindi non erano fiori presi a caso quelli con cui venivano incoronati e dal colore e dalla specie di questi fiori potremmo trarre, semmai ci fosse possibile risalirvi, molte altre indicazioni.

Resta il mistero sull’epoca in cui questi corpi naturalmente mummificati furono accomodati sui gradini, sui motivi per cui si scelsero queste insolite posizioni e sull’identità dei personaggi che accettarono di fare delle loro membra, dopo la morte, queste sacre reliquie.

 


Si ringrazia anticipatamente chiunque volesse segnalare eventuali altri testi, fonti, ecc. per approfondire questo breve studio


BIBLIOGRAFIA

Pier Giacinto Gallizia, Breve Racconto del tempio e badia di San Michele della Chiusa di San Michele, Giov. Batt. Zappata, Torino, 1699

Modesto Vittorio Paroletti, Descrizione dei santuarii del Piemonte più distinti per l'antichità della loro venerazione e per la sontuosità dei loro edifizii opera adorna delle vedute pittoresche di ogni santuario dedicata alla s. r. m. di Carlo Felice re di Sardegna, volume primo, F. Reycend e compagnia, Torino, 1822.

Aa. Vv., Murray's Handbooks for Traveller in Northern Italy, John Murray, London, 1847

Aa. Vv., Tradizioni italiane per la prima volta raccolte in ciascuna provincia dell'Italia e mandate alla luce per cura di rinomati scrittori italiani, Volumi 1-4, Angelo Brofferio, Torino, 1847

Samuel Butler, Alps and Sactuaries of Piedmont and the Canton Ticino, David Bogue, London, 1881

Jules Boucher, La symbolique maçonnique, Dervy, Parigi, 1953

Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dizionario dei Simboli, Bur, Milano, 2001

Aa. Vv., Deposizione delle Mummie (scalone dei Morti) sotto lo Scalone nel sepolcro dei padri rosminiani, Sacra Informa n.1 2013, Avo Sacra, Sacra di San Michele, 2013


 

Pubblicato in Italia

Il simbolo per eccellenza di Ravenna, che fu per tre volte capitale, è senz’altro l’Adorazione dei Magi, che compare in città almeno quattro volte: a Sant’Apollinare Nuovo la più celebre; a San Vitale sul sarcofago di Isacio (620-637 d. C.) e tra le vesti dell’imperatrice Teodora, nel mosaico a lei dedicato; a San Giovanni Battista su una capsella (reliquiario di marmo) dedicata ai Santi Quirico e Giulitta, della prima metà del V secolo (oggi è esposta al Museo Arcivescovile).

L’importanza di queste raffigurazioni per la cittadina ravennate è indubbia, ma non è fin in fondo chiaro perché essa fu scelta. Genericamente la si attribuisce alle simpatie monofisite dell’imperatrice Teodora, moglie di Giustiniano, sulla cui tunica i tre sacerdoti iranici compaiono e all’offerta dei “doni imperiali” compiuta all’indomani dell’elevazione di Ravenna a capitale dell’Impero Bizantino in occidente.

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Inoltre non è facile stabilire quale delle immagini conservatesi possa essere eventualmente l’originale a cui le altre, sicuramente, si ispirano, essendo tutte precisamente modellate su uno stesso canone già ben consolidato.

Il mistero insomma rimane.

Forse una soluzione esiste, ma richiede di inoltrarsi in ambiti delicati e non sempre apprezzati dalla storiografia ufficiale. La vera natura dei Magi è il fulcro dal quale procedere. La tradizione è nota, i suoi risvolti e le sue inesattezze meno, a partire dalla “stella” che i tre avrebbero seguito. Essa infatti non compare nei testi più antichi che raccontano dei sapienti venuti da oriente a venerare il Bambinello. Il primo fra essi, il Vangelo di Marco, mette in bocca ad uno dei magi l’aver avvistato un certo “aester” in oriente in seguito al quale sarebbero partiti alla volta di Gerusalemme.

Gli apocrifi Protovangelo di Giacomo e il Vangelo Pseudo Matteo che da esso deriva, attribuiscono più precisamente alla venuta dei Magi il loro aver “consultato le stelle”. Sarà Origene, più tardi a consolidare definitivamente la tradizione della stella identificandola con una cometa.

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Sembra che l’origine di questi Magi fosse iranica e che fossero esperti astrologi, ma notizie sulla loro reale esistenza non ce ne sono. Per uno di loro, Gaspare, è stata proposta, non senza qualche difficoltà, l’identificazione con il re indo-partico Gondophares il cui regno fiorì fra il 20 e il 46 d. C.

Nella tradizione copta etiope invece si ricorda Baldassarre, il re magio dalla pelle scura, identificandolo con l’imperatore Bazén, venerato come un santo presso il monastero di Debre Damo ad Axum.

Non c’è alcuna certezza neppure sul numero dei magi che visitarono il bambinello. Nei testi più antichi non vengono enumerati. La tradizione orientale indicava 12 magi, numero di natura astronomica e astrologica. Soltanto con quelli più tardi, la Caverna dei Tesori e la Storia della Vergine Maria, la loro quantità viene fissata a tre:

  • Baldassarre “Dio protegge la verità” portatore dell’incenso, abissino o di Nippur, 4°v

  • Gaspare “ispettore del tesoro”, portatore della mirra, persiano o di Meroa, 1°v

  • Melchiorre, “re della luce”, portatore dell’oro, ebraico o di Pa??, 7°v

E ancora, i tre adoratori sbalzati su una placca argentea del VIII sec. a. C. rinvenuta in Luristan, sacerdoti in adorazione del dio zoroastriano Zervan (Zurvan), il Tempo, sono stati riconosciuti come il possibile originale su cui furono modellati i Magi evangelici. Già Erodoto, del resto, riportava come il titolo di “magoi” fosse riservato proprio ai sacerdoti di Zarathustra.

Non possono certo sfuggire i continui riferimenti al cielo e alle simbologie zodiacali che emergono dal groviglio di tradizioni e leggende fiorite da sempre sulle figure di questi Re Magi. Che la chiave del mistero fosse nella stella, o meglio nelle stelle, forse l’aveva capito già Keplero, che nel XVII secolo aveva individuato un particolare fenomeno avvenuto nel 7 a. C. in grado di spiegare la cometa dei vangeli.

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In quell’anno si era verificata una rara, se non rarissima, tripla congiunzione planetaria: ben tre pianeti, Marte, Giove e Saturno, si erano trovati ad una distanza angolare nel cielo così ridotta (meno di 5° di arco) da diventare indistinguibili e sembrare, insieme, un’unica, luminosissima stella nel cielo, formata da due pianeti quasi sovrapposti e uno nelle vicinanze, per tre volte nello stesso anno. I tre momenti furono il 29 maggio, il 01 ottobre e il 05 dicembre. Tutti e tre si svolsero in corrispondenza della costellazione zodiacale dei Pesci, al limite con quella dell’Ariete, quindi approssimativamente a oriente, proprio da dove si dice provenissero i Magi.

Le rappresentazioni, assai diffuse, del “Viaggio dei Magi” o della “Adorazione dei Magi” con due dei Magi affiancati o addirittura sovrapposti ed uno leggermente più discosto, potrebbero essere proprio una codifica di tali fenomeni astronomici e astrologici. Ne sono ottimi esempi quelli conservati nella Chiesa di San Biagio a S. Vito dei Normanni, la chiesa rupestre di Santa Cecilia a Monopoli o il bassorilievo del Sarcofago Albani, proveniente dalla Catacomba di S. Sebastiano a Roma, in cui uno dei Magi “osserva” gli altri due che sono in identica posizione.

Questa rara congiunzione, inoltre, era accaduta proprio in concomitanza con l’inizio di una nuova epoca precessionale, quella dei Pesci. Ma, questione ancor più sensazionale, i tre pianeti congiunti erano anche i reggitori e sovrani, i “decani” appunto, delle tre suddivisioni dell’epoca precessionale che si era appena conclusa, quella dell’Ariete.

Così Marte, Giove e Saturno - che erano appunto i tre “re” - nel momento più propizio, provenendo da direzioni diverse si erano “incontrati” proprio sopra Betlemme. La storia astronomica e astrologica corrisponde dunque magnificamente con quella tradizionale, svelando quella che potrebbe essere la vera natura dei Magi, personificazioni dei “decani” planetari.

Seguendo questi indizi astronomici a Ravenna, ci si imbatte in alcune coincidenze interessanti. La sua prima grande chiesa, San Martino in Ciel d’Oro (poi chiamata Sant’Apollinare Nuovo), fu fondata nel 505 sotto Teodorico, che aveva conquistato la città, già capitale del regno degli Eruli, facendone il centro dell’impero Ostrogoto. Non dovrebbe sorprendere che proprio nell’anno in cui fu gettata la prima pietra dell’edificio e precisamente il 23 luglio, si verificò una congiunzione tra Marte e Saturno (in Leone a 11°52 e 11°45 rispettivamente): non è infatti un mistero che nelle sette cristiane di matrice monofisita, come quella ariana, cui l’Imperatore apparteneva, i Magi rivestissero un ruolo molto importante.

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Ma quando Giustiniano la riconquista e ne fa la città principale dell’Impero Bizantino in Occidente nel 539, i Magi ne diventano il vero e proprio simbolo, visibile quanto nascosto. La riaffermazione della religione cristiana a Ravenna passa per la costruzione della maestosa chiesa di San Vitale, i cui lavori iniziano tra il 526 e il 530 d. C. Il 9 febbraio del 527 si verifica di nuovo una congiunzione legata ai Magi, quella fra Marte e Giove (in Aquario, a 12°44 e 12°37 rispettivamente).

Mentre fervono i lavori, poi, si da inizio anche all’edificazione di Sant’Apollinare in Classe, la cui prima pietra viene posata fra il 532 e il 536 d. C. circa e di nuovo, proprio in questo periodo si verifica una congiunzione tra due dei tre pianeti “esterni” del Sistema Solare, Giove e Saturno, il 9 maggio del 531 d. C. (in Gemelli, a 21°46 e 21°00 rispettivamente).

Di fronte a coincidenze così particolari, non è difficile ipotizzare che i tre edifici siano stati progettati per essere ciascuno la rappresentazione di uno dei re Magi:

  • San Martino in Ciel d’Oro (S. Apollinare nuovo): Saturno (con Marte), Baldassarre, 1° decano

  • San Vitale, Marte (con Giove), Gaspare, 3° decano

  • Sant’Apollinare in Classe, Giove (con Saturno), Melchiorre, 2° decano

La soluzione finale dell’enigma si trova a San Vitale, presso l’altare maggiore dell’edificio. In alto sulla destra uno statuario Giustiniano occhieggia impassibile verso l’abside. Di fronte, in un mosaico quasi speculare, compare invece Teodora, con le sue ancelle. Sulla sua veste si intravvedono tra le pieghe i tre Re, ritratti con il peso spostato in avanti mentre offrono i loro doni.

Se si osserva bene, si può notare che anche Teodora mima con le braccia la medesima postura porgendo la “cesta” identica a quella dei magi che porta tra le mani.

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I tre sapienti, dunque, stanno tra le pieghe della veste dell’imperatrice così come, più in grande, si nascondono, visibilissimi eppure evanescenti “tra le pieghe” di Ravenna. Nonostante l’imperatrice sia indicata con il suo nome scritto in lettere scure, essa si presenta quindi anche come la personificazione della città. Ma le figure mistiche dei tre Magi, sottendono un significato che va ben oltre: Ravenna/Teodora racchiude i magi nella sua veste, come se ne fosse l’unione e si manifesta quindi come la nuova Stella destinata ad accendersi sul mondo. Ravenna bizantina “viene da oriente”, rispetto all’Italia, come i Magi rispetto a Betlemme.

Annuncia un nuovo “avvento”: ciò che, nelle intenzioni, doveva nascere era un nuovo Impero Romano, di matrice bizantina, il cui inizio corrisponde alla riconquista nel 533 di Ravenna, che diventa sede di governo in Italia.

Rimarrà un sogno. La guerra di Giustiniano contro i Goti durerà fino al 553, ma appena dopo l’Imperatore dovrà fronteggiare i Longobardi. La morte sopraggiunta nel 565 gli impedirà definitivamente di realizzare il sogno di un Impero Romano Universale.

Dell’aspirazione di Giustiniano di essere capo anche spirituale di questo Nuovo Impero, riunendo in sé entrambi i poteri, fu certamente “ambasciatrice” Teodora, le cui mire si spingevano ben oltre. Aveva “sposato” le idee monofisite mentre si trovava ad Alessandria, ben prima di conoscere Giustiniano e covava il desiderio di una restaurazione cristiana nel segno di tale dottrina. Arrivò perfino a ordire una congiura nel 537 per deporre il papa Silverio e far eleggere al suo posto il suo protetto Vigilio, diventato come lei monofisita. Il nuovo papa però si sarebbe presto rivelato un traditore e avrebbe innescato la lunga disputa detta Dei Tre Capitoli. L’imperatrice non portò a termine il suo disegno. Morì di malattia nel 548.

Di tutta la vicenda rimane, silenziosa testimone la Ravenna bizantina con i suoi tre luoghi mistici. Tra le mura di uno di essi si nasconde ben in vista l’ultimo indizio. Se si guarda per benino fra i piedi dei maestosi Magi di Sant’Apollinare Nuovo dai berretti rubicondi, si noterà – più di uno se ne è accorto – che spuntano alcune piantine in fiore. Sono due piante di Stramonio (Stramonium Datura), una di Giusquiamo nero (Hyoscyamus Niger, meglio conosciuto nell’antichità come Apollinarix) e una di Ladano (Ledum Palustre, Rosmarino selvatico). Sono tutte erbe psicoattive, inebrianti, capaci di provocare visioni. Figurano tra gli ingredienti fondamentali delle “pozioni” che si bevevano durante le celebrazioni dei Misteri eleusini, orfici, bacchici, dionisiaci, ma anche del leggendario “unguento delle streghe”. E sono tradizionalmente legate, rispettivamente, proprio a Saturno, Giove e Marte.


RAVENNA E I TRE DECANI è disponibile anche su Academia.edu in formato PDF


BIBLIOGRAFIA

C. Zaehner, Zurvain A zoroastrian Dilemma, Oxford 1955

A. Rucker, Zwei nestorianische Hymnen über Magier, in «Oriens Christianus» N. S. 10-11 (1920-1921)

J. Bidez e F. Cumont, Les Mages hellénisés. Zoroastre, Ostanès et Hystaspe d’après la tradition grecque, II (Les Textes), Paris 1938 (repr. 1973)

Alfredo Cattabiani, Florario: miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, Milano, 1996

Marcello Mignozzi, Il Viaggio dei Magi: origine e fortuna di un motivo iconografico, Agiografia e Iconografia nelle aree della civiltà rupestre – Atti del V Convegno Internazionale sulla civiltà rupestre, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto, 2013


 

Pubblicato in Personaggi
Mercoledì, 03 Marzo 2021 00:51

L'ultima dimora degli enfants du répit

Quando un bambino mai-nato “tornava alla vita” per il tempo di un respiro in un santuario del répit e poteva ricevere l’agognato Battesimo, poteva finalmente essere sepolto “in terra consacrata”. Ma il dubbio verso questa antichissima quanto vituperata pratica, non proprio teologicamente limpida nell’ottica cristiana, spesso spingeva a cercare soluzioni particolari.

A Moustiers-Sainte-Marie o intorno a Notre Dame de Bettlerans (France-Comte) e a Notre Dame de Vie a Mougins così fu predisposto un cimitero apposito solo per quei fanciulli dall’enigmatico destino. Altre volte veniva allestita un’area dedicata nei cimiteri già esistenti, ove seppellire i corpicini in tombe individuali o in fosse collettive. In Valcamonica e non solo, questi spazi riservati avrebbero preso il nome di “Limbo”.

A Benoit-Vaux, addirittura, importante santuario mariano edificato su una sorgente miracolosa, le memorie di padre Gastellet riportano che un fanciullo battezzato dopo aver dato segni di ritorno in vita “fu interrato nella medesima cappella, ai piedi dell’altare della Concezione”.

Non sono usanze del tutto nuove, bensì permutate dalla tradizione: molti infatti sono i battisteri antichi sotto i pavimenti dei quali sono state ritrovate, occasionalmente e in numero limitato, sepolture di fanciulli, di infanti e di feti. In Italia settentrionale, tra la Lombardia e il Piemonte, si può citare ad esempio quello di San Filippo Neri a Busto Arsizio (VA), o quello di Settimo Vittone (TO) che, fra le tante inattese scoperte, insieme ad un antichissimo fonte battesimale sotto a quello attuale, ha restituito anche ossa certamente di bambini che qui vi furono sepolti.

Diversa, invece, era l’ultima destinazione degli sventurati che, nonostante l’esposizione ai piedi della Vergine o di uno dei santi “ausiliatori” del répit, non beneficiavano del prodigio e quindi non potevano ricevere il sacramento battesimale. Per loro, l’unica possibilità era quella di venir sistemati nella nuda terra “sotto la gronda” dei santuari, con la speranza che l’acqua piovana, divenuta lustrale per il contatto con il tetto dei santi luoghi, potesse in qualche modo donare ai bimbi mai-nati la liberazione dall’infausta condizione del limbus puerorum.

Con il procedere dei secoli e l’accanimento della Chiesa nei confronti della pratica, il répit fu alla fine sconfessato e proibito, così che tutti i bambini mai-nati furono destinati a non poter ricevere il battesimo e di conseguenza, ad una sepoltura al di fuori dei cimiteri, per la quale si rese necessario allestire ossari appositi, di solito proprio accanto ai battisteri.

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Chapelle Sainte-Christine, Viserny

A spiegare incidentalmente come possa essersi verificato questo delicato passaggio è il noto studioso francese del fenomeno, Jacques Gélis il quale, in un suo articolo del 1981 cita il caso della Chapelle Sainte-Christine di Viserny, non lontano da Semur-en-Auxois (Borgogna/Franca-Contea). In questo edificio sacro esiste ancora, di fianco al fonte battesimale, un’apertura sul pavimento attraverso cui si accede ad un profondo “pozzo” approssimativamente quadrato, di 1,5 metri per 1,5 metri, in cui venivano adagiati gli infanti che avevano potuto beneficiare del répit e che erano stati battezzati nell’adiacente fonte.

Insieme ai resti sono state trovate alcune monete - un “doppio” di Enrico VI e un “gettone” di Luigi XIV - retaggio di antiche superstizioni, si dice. Fin dall’antica Grecia ma anche in Palestina l’uso di accompagnare i morti con monete è assai diffuso. Richiama alla memoria il “caron dimonio” dantesco e l’obolo che le anime gli versano, secondo il sommo poeta, per farsi traghettare al di là del fiume Stige.

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È un’ulteriore prova e dimostrazione che gli infanti sepolti nel “pozzo”, con il répit, erano stati liberati dalla condanna al limbo e potevano quindi entrare nell’aldilà. Il “limbus puerorum” nella Divina Commedia si trova infatti appena oltre l’ingresso all’Inferno e ben prima della riva del fiume. Che necessità avrebbero avuto, dunque, quelle anime di portare con sé l’obolo, se non potevano andare oltre il temuto limbo?

Con il passare del tempo, la pratica si sarebbe stemperata, riducendosi ad una semplice sepoltura - senza riti e senza preghiere, se non una veloce benedizione - in quelle buie fosse, forse con la speranza che i fanciulli già passati oltre avrebbero portato con sé anche le anime dei nuovi corpicini messi a giacere di fianco a loro.

Ma di questo non abbiamo alcuna traccia documentale. Le minacce e le scomuniche della Chiesa richiedevano assoluto silenzio e discrezione.

 

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Un caso interessante e misconosciuto è quello di Luzzogno in Valstrona (Piemonte Settentrionale) dove è ancora ottimamente conservato l’ossario dei bambini mai-nati, all’esterno della parrocchiale, proprio accanto alla cappella-battistero (l’attuale battistero si trova all’interno della chiesa). La tradizione locale conserva ancora il ricordo di ciò che vi accadeva, ultima rimanenza del répit, che in paese senza dubbio si era celebrato, in precedenza, al santuario della Colletta.

 Costruita a partire dal 1711, la “fossa dei bambini” sorge sul lato settentrionale della chiesa parrocchiale e per la precisione a nord-ovest, la direzione dell'oltretomba già secondo gli aruspici Etruschi e poi Romani e condivide il tetto di copertura con la cappella adiacente, più piccola, non un vero e proprio battistero, ma un ambiente che ne simula in qualche modo lo scopo.

Una botola (oggi murata) nel pavimento dell'ossario permetteva di calare i corpicini fino a deporli sullo scivolo che li avrebbe portati nella loro dimora eterna, un vano spostato sotto la cappella piccola e forse un poco oltre.

I teschi con tibie incrociate e nastro colorato ad avvolgerli, ai lati della cancellata dell'ossario, annunciano la nascita e insieme la morte dei piccoli. L'elaborato motivo della cancellata stessa mostra la vita nel suo continuo divenire, con filari e foglie che si avvolgono e svolgono nell'infinito perpetuarsi dell'esistenza. L'efficace dipinto al di sopra è un monito e insieme un atto di fede e di speranza grandiosa. L'episodio crudamente rappresentato è tratto dalla Bibbia e precisamente dal Libro di Ezechiele.

L'infante, calato all'interno dell'Ossario, avrebbe certamente meritato la misericordia divina. Al termine dello scivolo, consegnato al riposo eterno, avrebbe avuto sopra di lui il cielo della “nuova terra”. Gli angeli, i tre sopra l'ingresso della cappella piccola, con le tuniche dei colori della terra, del cielo e della vita in mezzo a loro, avrebbero preso le piccole anime risollevandole dalla polvere e le avrebbero portate in paradiso.

 


BIBLIOGRAFIA

Jacques Gélis , De la mort à la vie: Les « sanctuaires à répit », in Ethnologie française nouvelle serie, T. 11, No. 3, Cultes officiels et pratiques populaires (juillet-septembre 1981), pp. 211-224, Presses Universitaires de France, Paris, 1981

F. Casalini e F. Teruggi, Mai Vivi Mai Morti, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2015

 


 

Pubblicato in Ritualia
Giovedì, 13 Giugno 2019 18:28

I massi coppellati del ritorno alla vita

Le risposte, affermative o meno, a certe intuizioni, arrivano spesso inaspettate, proprio quando non le si cerca. Altre volte, invece, si manifestano perché ardentemente volute e cercate.

La commenda giovannita di L’Argentière-La-Bessée, nell’Alta Provenza francese, è un sito di notevole interesse storico e culturale, ma anche una vera “capsula del tempo” in cui sono rimaste cristallizzate usanze antiche, mirabilmente conservate insieme alle sovrapposizioni dei secoli successivi.

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Esiste un progetto di recupero della piccola area, elaborato all’indomani delle campagne di scavo effettuate fra il 1996 e il 2005, ma la burocrazia, gli interessi e la scarsa attenzione, mascherati da croniche e provvidenziali “mancanze di fondi”, non ne hanno ancora - e chissà per quanto - consentita la realizzazione. Così le piccole grandi meraviglie di questo luogo misterioso languono, nell’attesa di tornare alla luce.

La visita degli interni della cappella-oratorio di Saint Jean è tutt’ora interdetta per motivi di sicurezza. Ma la curiosità e la perseveranza, unite ad un rocambolesco giro di telefonate, email e messaggi, ci ha infine schiuso quelle porte, rimaste a lungo chiuse.

L’oratorio in pietra dai riflessi dorati sorge su uno sperone roccioso che, secoli addietro, dominava la Durance, che vi scorreva sotto. Oggi l’alveo del fiume scorre molto più distante.

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La commenda risale almeno al 1208 e la nuova chiesa fu costruita dove già sorgeva un qualche altro edificio, forse una piccola cappella, le cui prime tracce risalirebbero al X-XI secolo.

Sulla parte alta della roccia e sul versante verso il fiume, con evidenti risvolti simbolici che richiamano la sacralità della Durance e delle sue acque, furono ricavate diverse tombe rupestri, più volte riutilizzate in epoche diverse.

In prossimità di due di queste sono ancora visibili piccole coppelle, interpretate come “segnali” della presenza di una tomba senza, tuttavia, che si possa stabilire se le fosse siano state ricavate vicino alle coppelle oppure il contrario.

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La presenza di sepolture di fanciulli, almeno 28, inseriti nelle fosse già esistenti o deposti nella nuda terra in prossimità del muro della cappella oppure ai piedi della roccia, inoltre, ha destato non poco stupore, facendo concludere che il luogo possa essere stato un santuario del “ritorno effimero alla vita” o répit.

La struttura più interessante è però la roccia stessa, in cui è stata intagliata, da tempo immemore, una scala che pare fermarsi in prossimità del muro esterno dell’abside. La gradinata è all’origine del curioso toponimo “Gradis Karuli” o “De Gradibus Karoli”, di ignota origine e che richiama non certo Carlo Magno, come si cerca di sostenere, quanto una divinità ancestrale locale, Carrus, personificazione della montagna e quindi della roccia stessa.

È stata interpretata dagli archeologi come un “percorso”, la rimanenza di una via pellegrina che, scavalcando lo sperone, si inoltrava poi nella cittadella fortificata. Anche il rinvenimento di una pavimentazione in ciottoli, che occupa quasi tutta l’area dell’edificio, sembra corroborare l’ipotesi e giustificare in tal modo la scelta del luogo per edificarvi la cappella.

Ma le risultanze degli scavi e la possibilità di vedere con i nostri occhi l’interno dell’edificio, hanno svelato molti altri dettagli, registrati e opportunamente non spiegati, che raccontano una storia ben diversa.

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La “scala”, infatti, prosegue al di sotto dell’abside, fermandosi in corrispondenza del punto in cui fu innalzato l’altare. L’edificazione non mirò a distruggere la “scala”, bensì a inglobarne con molta attenzione la parte terminale. Si chiarisce così la necessità di far intervenire le “maestranze lombarde”, la fraternità italiana dei “costruttori di cattedrali”, i Comacini, che provvidero all’opera, altrimenti non particolarmente difficoltosa. Nessun altro, all’infuori di quegli abili architetti, scultori, scalpellini, carpentieri, muratori, sarebbe stato in grado di realizzare una tanto mirabile sovrapposizione.

Grazie al loro intervento e alla scelta di riempire lo spazio absidale fino al nuovo piano di calpestio con strati di materiali diversi appositamente collocati, tutto si è perfettamente conservato. La “scala” procede con andamento leggermente curvo ed è composta di undici gradini, più uno spazio sommitale, per un totale di 12 piani sovrapposti, quantità che ha un valore simbolico, astroenergetico e numerologico non trascurabile e certamente voluto.

Appoggiandosi parzialmente al piano sommitale, i costruttori realizzarono una piattaforma rettangolare rialzata, ottenuta giustapponendo frammenti di un elegante sarcofago di chiara origine gallo-romana, su cui elevare l’altare. Ciò testimonia una frequentazione molto antica del luogo e la sua evidente sacralità.

È però la parte dello spazio sommitale in cui culmina la “scala”, leggermente decentrata rispetto alla chiesa (al centro c’é infatti l’altare), a riservare la sorpresa più grande. Qui infatti è stata ricavata una coppella di discrete dimensioni e profondità, rimaneggiata successivamente fino ad assumere una forma grossolanamente e approssimativamente rettangolare. Essa è ben più antica e diversa da quella, recente e ben squadrata, rinvenuta all’esterno della chiesa e che fu utilizzata per innalzare una croce rituale in legno, a contrassegnare il cimitero.

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I pochi studi e i quaderni di scavo si limitano, di nuovo, a registrarne la presenza evitando di indagarne lo scopo. C’é tuttavia un piccolo dettaglio che indica come proprio questo fosse il punto più importante e quello cui era rivolta ogni devozione.

In cima alla parte visibile della “scala”, sul muro esterno dell’abside, sono state infatti incise, chissà quanto tempo fa e da chissà quali mani, tre croci. Due sono più incerte e frettolose, ma la terza, quella più grande e più profonda, forse la più antica, è posizionata proprio nella direzione della coppella nascosta, anziché dell’altare, come ci si potrebbe aspettare.

Evidentemente qualcuno, dopo la costruzione dell’oratorio, ancora conosceva precisamente l’esistenza e la collocazione della coppella, che segna il punto più forte della roccia e ha voluto segnalarla, affinché non fosse dimenticata.

I “gradini di Karolus/Carrus” non erano quindi “una strada”, bensì un “percorso rituale”, verso la cima della roccia e l’intero sperone era un grande altare, una “pietra santa” - da cui il nome di uno dei due ospitali del luogo - presso cui celebrare l’ “eterno ritorno”, la buona morte, grazie alla quale essere proiettati in una nuova vita.

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La rugiada e la pioggia che si raccoglievano nella coppella, diventando acqua lustrale, erano il mezzo consacrato grazie al quale essere “liberati” dalle catene del destino mortale, sia per gli adulti che, a maggior ragione, per i bambini mai-nati. L’uso dell’acqua quale mezzo per far emettere il “soffio” vitale a quegli sventurati fanciulli è ben documentato, ad esempio a Saint Martin de Belleville, in Savoia, dove venivano immersi in una vasca. La presenza delle tombe di tre infanti - le più antiche - proprio in fondo alla “scala”, conferma che il répit si svolgesse qui anziché all’interno della chiesa. Se la loro scarsa quantità è dovuta all’efficacia del culto, si spiegano anche le altre 25 sepolture, più recenti e molto più numerose in una collocazione diversa: il rito forse non funzionava più perché la coppella non era più accessibile. Perciò, come accadde in moltissimi altri santuari del “ritorno effimero alla vita” l’ultima speranza, seppellendoli “sotto gronda”, veniva riposta nell’acqua piovana che, sacralizzata dal contatto con il tetto del luogo sacro, avrebbe forse potuto, in qualche modo, salvarli.

Così, inaspettatamente, si è sollevato un velo disteso dalla storia e dagli uomini, svelando fugacemente uno degli scopi per cui su certi massi venivano incise coppelle.

 


BIBLIOGRAFIA

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F. Casalini e F. Teruggi, Mai Vivi Mai Morti, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2015


 

Pubblicato in Ritualia

Nel celeberrimo Cantico delle Creature, il grande monaco santo Francesco d'Assisi (1181-1226) scriveva: “Laudato sie, mi' Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole […] Laudato si', mi' Signore, per sora luna e le stelle, in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle”.

Il testo poetico, di impareggiabile bellezza, è certamente anche un piccolo trattato “cosmologico” in cui, accanto ai quattro elementi (aria, acqua, terra, fuoco) declinati secondo animali e cose che a ciascuno appartengono, compaiono molti altri richiami, tra cui quello potente al cielo, nella tripartizione sole-luna-stelle.

Se il sole è quello che da la luce al giorno, la luna e le stelle sono “chiare”, non nel senso di “evidenti” ma di “pure” (contrario di “oscure” e “impure”) e “preziose”, irrinunciabili, necessarie. Sono insomma un vero “dono” divino. È la stessa “chiarezza” delle stelle alla quale pare proprio riferirsi anche il “Portale dello Zodiaco” della Sacra di San Michele, in cui compaiono gli unici elementi marmorei chiari dell'intero complesso abbaziale.

Molto meno velate sono invece le idee di un altro celebre monaco francescano, Ruggero Bacone (1214-1294), coevo del fondatore, che dedicò una parte della sua opera più celebre, l'Opus Major, all'esposizione delle sue teorie astrologiche a lungo studiate, vertenti sopratutto sull'influenza esercitata dai corpi celesti sulla mente e sullo spirito umani.

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La quiete e il raccoglimento dei conventi, separati dalla società ma in essa pienamente immersi, come su un invisibile confine tra spirito e materia, favorì certamente lo studio e la ricerca anche in ambiti poco ortodossi del sapere, affrontati con lucida coerenza e senza i veli prodotti da troppa teologia o troppa ansia politico-religiosa. Uno di questi fu l'astrologia.

Tanto le ore del giorno, quanto le stagioni, i periodi e le mansioni dei confratelli erano rigidamente scanditi dai ritmi naturali. La data mobile della Pasqua e degli altri eventi liturgici ad essa collegati dovevano essere ricalcolate ogni anno e le chiese dovevano sempre essere orientate correttamente su fenomeni astronomici e sui loro corrispondenti significati astrologici. Tutto ciò comportava certamente, anche a detta degli storici, lo studio del moto delle stelle. I complessi abbaziali erano perciò spesso dotati di vere e proprie piattaforme di osservazione, balconate o terrazze dalle quali compiere tutte le necessarie misurazioni. Una è ancora visibile presso l'abbazia cistercense francese di Thoronet, in Provenza. Svetta sul doppio chiostro (due chiostri sovrapposti) come se la scansione delle volte e degli archi dei corridoi coperti fossero i punti di mira di un gigantesco sistema di osservazione.

Nella loro disposizione e orientamento, nella scansione degli ambienti che si aprono su ciascuno (di solito a est la sala capitolare e gli ambienti di studio; a sud refettori e cucine; a ovest dormitori e foresterie; a nord confinante con la chiesa abbaziale gli spazi per la “lectio divina”), nelle iconografie dei capitelli e degli archi e nelle loro geometrie, si ritrovano le indicazioni delle stagioni, dei moti planetari e dello zodiaco.

Già nell'antico Egitto i templi erano sempre dotati di un lago sacro, in genere quadrato che serviva anche per le osservazioni stellari. Il più celebre, quello di Karnak, ancora conserva, al centro di uno dei lati, una grande statua dello scarabeo sacro Khepri. Non solo è una divinità, è anche un segno zodiacale (Cancro) e corrisponde, secondo il computo del grande anno precessionale, al “quarto mese della gestazione”, cioè al 4300 a.C., epoca della prima unificazione del Regno sotto Menes!

Le sue dimensioni sono tali da poterlo chiaramente vedere da ogni punto del lago sacro, nelle cui acque si specchiavano i gruppi stellari e i pianeti.

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Anche il tempio biblico di Salomone era dotato di un simile sistema di osservazione, molto probabilmente di origine egizia, installato proprio davanti all'ingresso. Veniva chiamato “mare di metallo fuso”, “mare di rame” o “mare di Brazen” ed era un gigantesco bacile metallico montato su 12 leoni a gruppi di tre, correttamente orientati (1Re:7 e 2Cronache:4). Si legge poi nel Libro dei Re che il bordo superiore era intervallato da 30 tori, chiara indicazione di un utilizzo astrologico.

Il chiostro monastico, con il pozzo d'acqua al centro nel quale si specchia la stella polare e i corridoi con le scansioni appropriate non è che il suo equivalente medievale, così come i monaci consacrati non furono che gli ultimi eredi di quei sacerdoti dei templi antichi che scrutavano gli astri.

Poiché le stelle e i pianeti erano spesso presenti, con le loro allegorie, nelle sacre scritture, l'analisi dei loro moti e dei cambiamenti che producono sull'essere umano non poteva che portare a riconoscervi la via divina da perseguire con ogni forza. Gli astri potevano fornire indicazioni non tanto sui tempi a venire, quanto su debolezze personali e mancanze caratteristiche che era necessario vincere per sperare in una maggior comunione con il divino.

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Molti erano i monasteri che, insieme ad opere religiose, della patristica e dei teologi e sapienti, ospitavano nelle loro biblioteche anche trattati di astronomia e astrologia, pazientemente studiati e ricopiati dai meticolosi ammanuensi. Il “portale dello zodiaco” della Sacra di San Michele (Valsusa), ad esempio, fu concepito da “mastro nicholao” (forse il nome collettivo e simbolico della confraternita comacina autrice di quest'opera) prendendo ispirazione, come si racconta, da certi preziosi testi custoditi proprio nell'abbazia. Su due dei quattro lati di ciascun montante il magister non riportò semplicemente una teoria di simboli prelevati dalla tradizione astrologica (i 12 segni) e altrettanti simboli chiaramente identificati come costellazioni (accanto ad ognuna è inciso il suo nome), ma codificò in modo preciso tutta la sapienza che dietro questi segni si nasconde. Questo era uno degli scopi fondamentali del nuovo stile architettonico, conosciuto come “romanico”, sviluppatosi in ambito monastico (il fondatore è tradizionalmente Guglielmo da Volpiano, abate benedettino di Digione): rendere disponibile a chiunque ne fosse meritevole l'accesso alla conoscenza delle leggi divine, inserendola negli elementi scultorei, nei capitelli, nelle forme e nelle proporzioni e più tardi, negli affreschi, soprattutto absidali (innumerevoli sono gli esempi di tetramorfi con evangelisti e teorie dei mesi raffigurate attraverso le mansioni quotidiane e poi sostituite da schiere di apostoli). Il gotico con le grandi cattedrali ne avrebbe proseguita l'opera.

Anche fra le stelle era dunque possibile riconoscere la presenza e gli effetti della Divina Provvidenza e il monachesimo ne aveva fatto tesoro fin dall'inizio. Già nel V secolo tra i più grandi studiosi di astrologia figurava sant'Eucherio, vescovo di Lione e annoverato tra i Padri della Chiesa occidentale.

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La sua formazione trentennale, dopo l'abbandono dei titoli e delle prerogative nobiliari della casata da cui proveniva, si era svolta nell'antico monastero isolano di Lerìns, fondato da un altro grande santo della Chiesa, Onorato. Fu proprio durante questo lungo periodo di raccoglimento che, studiando e scrivendo, Eucherio creò le sue maggiori opere, tra cui il Liber Formularum Spiritualis Intelligentiae, in cui affronta, fin dal liber unus, il tema dell'astrologia, concepito come una tra le “spiegazione di vari termini o modi di parlare della Scrittura”, spiegando il senso allegorico dei riferimenti a pianeti e costellazioni in relazione soprattutto al Libro dell'Apocalisse.

Così fa corrispondere l'ammasso delle Iadi alle anime dei santi predicatori, le stelle di Orione a quele dei martiri e le sette stelle dell'Orsa maggiore alle sette chiese e ai sette candelabri che simboleggiano la Chiesa Universale apocalittica.

In un testo successivo, i Commentarii in Genesim, per altro di dubbia attribuzione, specifica addirittura che le stelle del cielo sono gli Evangelisti e i dottori delle Sacre Scritture, che diffondono la luce divina illuminando la conoscenza umana.

Le idee di Eucherio non erano nuove, anzi, seguivano l'impostazione agostianiana. Il santo d'Ippona si era appassionatamente dedicato all'argomento, imponendosi subito come un suo detrattore. Ma a ben leggere, le sue riserve erano rivolte per lo più agli usi peccaminosi fatti della conoscenza delle stelle e dei pianeti, in particolare come mezzi per svelare e anticipare il futuro. Concepiva infatti gli astri come creazioni divine, nei quali era perciò possibile scorgere la benevolenza e la saggezza di Dio rivolta agli uomini.

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Diversi secoli più tardi, un altro celebre monaco, il domenicano Alberto Magno, anch'egli vescovo e santo, cercando di riunire le posizioni dei suoi predecessori con l'impianto neoplatonico per cui tutto è emanazione di una “causa prima”, era un convinto assertore della dipendenza del mondo dai moti dei pianeti: "Nello studiare la natura non abbiamo a indagare come Dio Creatore può usare le sue creature per compiere miracoli e così manifestare la sua potenza: abbiamo piuttosto a indagare come la Natura con le sue cause immanenti possa esistere".

Il suo pupillo, Tommaso d'Aquino ne avrebbe riprese le idee: “I corpi celesti, come esercitano azioni l'uno sull'altro, così esercitano azioni anche sulla terra, e con l'azione esercitano anche un influsso. Ma poiché l'influsso è sulla materia, potrà essere esercitato sul senso, non sull'intelletto e sulla volontà, che sono essenze spirituali […]” (Summa Theologica, questione 115).

Intanto, nelle regioni europee più lontane, in cui meno l'ingerenza papale si faceva sentire, l'astrologia prosperava nei monasteri, dove veniva sempre più ampiamente studiata. Nel X secolo diventò celebre per il suo interesse verso le stelle, anche a scopo terapeutico, un monaco della comunità abbaziale di Mamelsbury, nel Wiltshire, “la più antica città inglese”: Oliviero (Eilmer), noto anche per essere stato uno dei primi a tentare il volo umano con ali posticce, cinque secoli prima di Leonardo.

Nello stesso periodo, poco più a nord, nel Wolchestershire, godeva di simile fama il priore di Malvern, Walcherio, di origini lotaringe, autore di precise osservazioni sulle eclissi solari e lunari occorse tra il 1091 e il 1092.

Questa è l'epoca della grande riscoperta dell'astrologia, durante la quale essa sembra riemergere dal silenzio del monasteri per diffondersi ovunque, sostenuta da molti pensatori anche laici del tempo e dai nuovi testi provenienti dal medioriente islamico conquistato dai crociati, soprattutto quelli di Avicenna e di Averroè, gli unici musulmani che, a detta di Dante, “possono seder tra filosofica famiglia”.

Protagonista di questi secoli è il beato Jan van Ruusbroec, “doctor admirabilis”, monaco fiammingo fondatore del monastero e della congregazione di Valverde (Groenendael), di ispirazione agostiniana. Grande cultore dell'astrologia, scrive diverse opere mistiche tra cui “I sette gradi dell'amore spirituale” e “L'ornamento delle nozze spirituali” in cui manifesta tutto il suo interesse per le stelle. Create da Dio per l'uomo, esse sono, secondo il beato, capaci di influire sul trionfo del bene o del male. Perciò anche l'anima umana, con i suoi vizi e le sue virtù, ne subisce l'intervento. Pianeti e astri indicano dunque la via della purificazione ascetica in quanto portano i vizi di cui l'uomo deve spogliarsi per rivestirsi della luce divina: "...il nostro padre celeste crea nel più intimo di noi stessi il firmamento interiore, purché noi siamo disposti a seguire la propensione naturale della nostra anima, ovvero la sinderesi inculcata ed impressa in noi da Dio, sempre, per sua natura, desiderosa del bene".

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Nello stesso periodo è tutto un fiorire di opere di astrologia. L'Università del Galles, ad esempio, possiede nella sua collezione almeno una ventina di manoscritti redatti nei monasteri inglesi tra il XIV e il XV secolo, che trattano tutti gli aspetti della scienza medievale tra cui, in prima linea, proprio l'astrologia.

Tra tutti, il più famoso monaco astrologo fu però certamente Giovanni Tritemio (Johannes Tritemius, il cui vero nome era Johannes Heidenberg), abate benedettino di Sponheim e nell'ultima parte della sua vita, di Würzburg. Prolifico autore e studioso, nel fortunato periodo preconciliare in cui l'astrologia era arrivata ad interessare perfino il cardinale-teologo Pierre d'Ally (1350-1420) e addirittura papa Sisto IV (1414-1484) e papa Leone X (1475-1521), aveva avuto fra i suoi discepoli Lucio Cornelio Agrippa e Teofrasto Paracelso. Le sue opere erano intrise di ermetismo, riferimenti cabalistici, neoplatonismo e astrologia. A quest'ultima dedicò in particolare un testo, De septem secundeis id est intelligentiis sive spiritibus orbes post deum moventibus, una precisa trattazione della materia e dei suoi collegamenti con le altre discipline.

Ma era l'ultimo monaco che avrebbe potuto liberamente diffondere la conoscenza degli astri. Poco prima della sua morte già incombeva l'ombra minacciosa del concilio tridentino che presto si sarebbe tenuto e che avrebbe di nuovo gettato su di essa un velo di oscurità, lo stesso che ancora oggi permane e viene continuamente alimentato, talvolta dagli stessi eredi di quei monaci che, per paura ed egoismo, offendono e avviliscono la meravigliosa sapienza e la profonda spiritualità dei loro predecessori.

 


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BIBLIOGRAFIA

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 Duhem, Pierre, Le système du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic, Librairie scientifique A. Hermann et fils, Paris, 1913-1915

 Kelley, David H. e Milone, Eugene F., Exploring Ancient Skies: A Survey of Ancient and Cultural Astronomy, Springer Science & Business Media, Berlino, 2011

 Lawrence-Mathers, Anne e Escobar-Vargas, Caroline, Magic and Medieval Society, Routledge, London, 2014

 Marra, Massimo, Il firmamento interiore del Beato Giovanni Ruysbroeck in Atrium - Centro studi umanistici e tradizionali anno VIII n°1, , 2006

 Maxwell Woosnam, Eilmer, The Flight and The Comet, Friends of Malmesbury Abbey, Malmesbury, 1986

 Page, Sophie, Astrology in Medieval Manuscripts, University of Toronto Press, Toronto, 2002

 Schwaller de Lubicz, René Adolphe, Le Temple dans l'homme, Il Cairo, 1949 (Pubblicato in Italia con il titolo Il tempio dell'uomo, 2 volumi, Mediterranee, Roma, 2003)

Sorge, V. (a cura di) e Seller, F. (a cura di) Ruggero Bacone. Filosofia, scienza, teologia: dall'Opus maius, Armando, Roma, 2010

Thorndike, Lynn, History of magic and experimental science, Macmillan, New York, 1923

Pubblicato in Fatti
Domenica, 18 Dicembre 2016 16:35

Nostra Signora Delle Vite

Notre Dame De Vie a Mougins, tra le alture alle spalle di Cannes, è uno di quei casi per cui non c'é traccia certa di quali e quanti prodigi del répit si siano verificati. Eppure, la dedicazione del santuario è una conseguenza nota di quel particolare rito che qui si svolgeva. Si sa infatti con precisione che, in precedenza, la cappella nota dal 1514 come “Santa Maria” aveva il nome di “Notre Dame de Ville Vielle” (Nostra Signora del vecchio paese) e che esso fu poi modificato in seguito ai fatti prodigiosi della “doppia morte”.

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La “moderna” dedicazione “Notre Dame de Vie” (Nostra Signora di Vita), del resto, ben si addice al luogo e al suo ente: “protegge” e custodisce la vita, al punto da salvaguardarla, nei casi estremi del “rito della piuma”, perfino dalla morte. Nella lingua francese, però, “de vie” ha doppia traduzione: “della vita” oppure “delle vite”. È un'ambiguità che non può passare inosservata. Si potrebbe giustificare con l'idea che il “ritorno in vita effimero” dei bambini nati-morti fosse una sorta di “seconda vita”, anche se solo per il tempo di un singolo respiro. Ma la particolare condizione di questi infanti era quella del “nato (già) morto”, morto prima di nascere e quindi “mai nato”, per cui il répit era, di fatto, l'unica occasione di vita. Il termine che designa il “prodigio”, inoltre, è letteralmente traducibile come “sospensione”, con evidente riferimento non alla condizione stessa bensì alla morte. La “doppia morte” (non si parla mai di “doppia nascita”!) era dunque intesa come un temporaneo differimento, una “tregua”, un arresto dello stato di decesso insomma, che veniva poi “ripreso” definitivamente. Per identici motivi il riferimento a molteplici vite non può essere ricondotto neppure a vite diverse intese come quella “terrena” ed effimera provocata dal répit e quella successiva “nello spirito” guadagnata con il conseguente Battesimo.

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In considerazione delle origini chiaramente “pagane” e pre-cristiane di questa forma rituale, invece, l'ambigua intitolazione potrebbe essere un rimando ad una concezione ciclica dell'esistenza: “le vite” sarebbero così quella mai iniziata, quelle eventualmente precedenti e quelle future che attendono il bambino. In tal senso, il répit in quanto sospensione, potrebbe non indicare la “soluzione” ma il “problema”. L'arresto sarebbe insomma l'evento che impedisce all'essenza spirituale (“anima”) del bambino di fluire da una vita all'altra. La pratica della doppia morte permetterebbe dunque di risolvere l'infausto ostacolo alla rinascita in una vita futura.

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Notre Dame De Vie è certamente un luogo per natura coerente con tale visione, come confermano i ritrovamenti di cippi, lastre tombali gallo-romane e di elementi di reimpiego di un luogo /forse un tempio) precedente, usati per costruire la primitiva cappella (corsi inferiori delle porzioni di muro ritrovate e del campanile) sul colle e sotto la chiesa stessa, a testimonianza della sua lunghissima tradizione spirituale legata alla morte e alla rinascita.

La prima menzione del nuovo nome “popolare” del santuario risale a un documento del 17 Agosto 1656 in cui viene per altro messo in relazione proprio con la pratica dell' “ondoìement”.

Non è noto quanti “infanti” siano stati presentati” al santuario, né quanti di essi abbiano mostrato segni di vita e quindi beneficiato del répit. I lavori di ampliamento della cappella iniziati nel 1655 e che si concludono nello stesso anno e che trasformano la cappella in vera e propria chiesa con un ampio protiro frontale, suggeriscono però un rinnovato interesse per il colle.

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Il 05 Maggio del 1669, con l'aggiunta della navata minore settentrionale e del nuovo altare maggiore, monsignor Louis De Bernage si reca nuovamente in visita e annota negli atti alcuni dettagli importanti e che testimoniano la frequentazione assidua del luogo: “...nous sommes acheminés à l'église de Nostre Dame de Ville Vielle vulgairement appellée Nostre Dame de Vie... prés la porte de l'église il y a un couvert, et prés de couvert des tombes où l'on enterre les enfants sans bapteme” (siamo stati condotti alla chiesa di i Nostra Signora dell'Abitato Vecchio, popolarmente detta Nostra Signora delle Vite... vicino alla porta della chiesa c'é una struttura coperta, e accanto alla struttura coperta le tombe dove vengono sepolti i bambini [morti] senza battesimo).

La cappella è dunque diventata “chiesa” e dispone al suo esterno addirittura di una sorta di cimitero per i bambini nati-morti (quelli che non mostravano segni di vita dopo essere stati portati davanti alla Vergine), evidentemente simile a quello di un altro celebre santuario in piena attività all'epoca, quello di Notre Dame de Beauvoir a Moustiers-Sainte-Marie, a un centinaio di chilometri di distanza. La collocazione del cimitero è nota e conosciuta ancora oggi, poiché le sue dimensioni continuarono a crescere fino alla proibizione del rito.

È interessante la menzione, da parte del vescovo di una qualche struttura coperta, diversa dal portico frontale, di cui non specifica l'utilizzo, ma che asserisce si trovasse presso le “tombe degli infanti”. Non è più esistente né si conoscono altre testimonianze, ma la sua collocazione fa pensare che si trattasse di una “recevresse” come quella di Avioth, in Belgio, presso cui venivano, appunto, accolti i cadaveri dei bambini nati-morti in attesa del répit.

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Qualcuno asserisce che si trovasse presso la porta di ingresso sulla facciata della chiesa, ma una seconda porta esisteva lungo la parete nord. Le due porte sono già menzionate da monsignor Sdcipion De Villeneuve negli Atti di Visita del 15 Maggio 1634. Pertanto è possibile che la copertura in questione fosse una tettoia bassa all'esterno dell'abside o di fianco ad essa, in modo che gli infanti potessero essere deposti per la preghiera il più vicino possibile alla Vergine, rimanendo tuttavia fuori dalla chiesa.

Non va infatti dimenticato che, dagli albori del Cristianesimo e fino a non molto tempo fa, solo i battezzati erano generalmente ammessi all'interno delle chiese. Questo è uno dei motivi per cui i battisteri erano per lo più edifici separati oppure il fonte battesimale veniva posto di fianco all'ingresso.

Nel caso del répit, tale regola veniva puntualmente aggirata. Tant'è che spesso, negli atti con cui le curie giungevano a vietare la pratica, minacciando addirittura la scomunica, si specificava che era proibito non solo svolgere il rito ma anche di portare i bambini nati morti presso e dentro i santuari dove si credeva che il répit potesse avvenire.

Il 1669 è anche l'anno in cui viene “rivelato” il nome della preziosa reliquia custodita, almeno dal 1688 quando viene per la prima volta menzionata, a Nostra Signora delle Vite. Sono alcuni membri della comunità a fornire l'occasione, quando organizzano la prima “processione” della reliquia dal santuario alla parrocchiale del villaggio, che si trova sul colle accanto.

Così, Nostra Signora di Mougins torna al suo ruolo arcaico di “cappella pellegrina”, alla quale si recavano da secoli in solenne processione penitenziale i Penitenti Bianchi e i Confratelli di San Michele di Grasse, nell'occasione di pestilenze (come nel 1629) e di altri gravi pericoli per la città, circostanza più volte immortalata negli ex-voto. In occasione della traslazione temporanea della reliquia, dunque, ne viene svelata l'identità. Le sante ossa apparterrebbero a una certa “Innocenza”. Si ritiene che possa essere la martire sedicenne riminese uccisa nel 380 d.C. da Diocleziano di passaggio in quella città. Ma è quantomeno curioso che un nome così facilmente riconducibile all'innocenza perduta dei bambini nati-morti, che il répit prometteva di restituire loro, compaia proprio nel momento in cui la frequentazione del santuario, con la speranza di tale grazia, è all'apice.

Di chi possano essere in tal caso i frammenti ossei ancora oggi visibili nel reliquiario è un mistero. Potrebbero forse appartenere al primo nato-morto tornato in vita attraverso il répit a Mougins? Del resto l'unica altra reliquia che il santuario custodisce (dal 1788) è un frammento del braccio di Sant'Onorato di Lérins (Nostra Signora delle Vite era un possedimento della potente abbazia...), i cui resti, traslati a Ganagobie, erano diventati la personificazione del répit con il nome di San Trapasso. Perfino tra i dedicatari degli altari interni del santuario, insieme a Sant'Anna (madre della Vergine), Maria Maddalena e San Giuseppe (aggiunto tardivamente) compare Saint Claude, noto per essere uno dei più venerati intercessori del répit!

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Saint Claude e Saint Louis (anch'egli intercessore per la “doppia morte”) sono addirittura ritratti mentre reggono la corona sul capo della Vergine nell'ancora dell'altare maggiore. L'ancona risale al 1669 ed è minuziosamente descritta negli atti di visita vescovili di quell'anno.

E come se non bastasse, è eloquente anche la data scelta per la ricorrenza di Notre Dame De Vie. Come si legge nel Calendrier Historique des Fétes de la Sainte Vierge, redatto dall'abate Orsini, il 27 Gennaio è “celle de Notre-Dame-de-la-Vie à Venasque en Provence qui a soyent rendu la vie aux enfants morts avant le bapteme, afin qu'ils reçussent le sacrement” (quello di Notre-Dame-de-la-Vie a Venasque in Provenza che ha sovente restituito la vita agli infanti morti senza battesimo, affinché questi ricevessero il sacramento). Il 27 Gennaio è il giorno precedente quello dedicato a San Tommaso d'Aquino, che fu forse il primo santo intercessore noto proprio del répit.

Il 1674 segna la separazione definitiva fra rettori della parrocchia di Mougins e quelli del santuario, che si insediano nell'eremo appena costruito sul lato settentrionale della chiesa. La copertura, il cimitero dei bambini e l'altare esterno esistono ancora e sono molto frequentati. Negli anni successivi, infatti, la fiorente casistica di bambini nati-morti tornati brevemente alla vita, attira su Mougins l'attenzione ecclesiastica e le conseguenti reprimende. Nel 1678 il nuovo vescovo di Grasse Louis-Aube de Roquemartine, infatti, fa recapitare l'ordine di distruggere “l'altare fuori dalla cappella”. L'ingiunzione, che non fornisce ulteriori dettagli, conferma però che “qualcosa” si svolgesse all'esterno del santuario, specificando che esisteva addirittura un altare. Forse serviva per le celebrazioni cui accorreva troppa gente per la capacità dell'edificio. Non si può però escludere che, invece, l'altare si trovasse sotto la struttura menzionata dal precedente vescovo, allo scopo di “esporre” i fanciulli in attesa del répit.

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Quasi certamente l'ordine viene ignorato e trasgredito. Il rettore, fratello Jacques, eremita del santuario e un certo Estève Martin, carpentiere, di origini genovesi nel 1709 vengono sepolti all'interno della chiesa. Lo stesso onore verrà concesso a partire dal 1714 infatti a tre bambini dell'età di 7, 8, e 3 anni, tutti rampolli della famiglia Flour, una delle più in vista del paese e tra i “benefattori” del santuario”.

Negli stessi anni, intanto, prodigi del répit cominciano a verificarsi in altri santuari e chiese dell'oriente provenzale: presso le reliquie di Santa Roselina a Les Arcs, ai piedi della statua di Notre-Dame-de-la-Roquette (detta anche Notre-Dame-du-Spasme o Notre-Dame-des-Œufs) a Le Muy alla Chapelle Notre-Dame-des-Anges di Lurs. Un caso si verifica perfino all'interno della chiesa parrocchiale di Tourettes Sur Loup, appena fuori Grasse, di cui esiste testimonianza scritta: “Gasparde Agarde, femme de Germain s'etant accouché d'un enfant mort, et l'ayant recommandé au glorieux st Fauste, et porté dans l'éeglise et mis devant la ste relique, il a donné beaucoup de signes de vie, ce qu'ayant veu moy mesme, l'ay baptisé en présence du sir Giraud, mon curé, de Lucresse de Grimaldy, dame du Caire et de la sage femme. Signé Decormi, vicaire” (Gasparde Agarde, moglie di Germaine ha fatto venire alla luce un bambino morto e l'ha affidato al glorioso Saint Fauste, e portato nella chiesa e deposto davanti alla santa reliquia, ha mostrato molti segni di vita, tali che, dopo averli visti io medesimo, l'ho battezzato in presenza di Sir Giraud, il mio curato, di Lucrezia di Grimaldy signora di Caire e della levatrice. Firmato Decormi, vicario).

Una nuova ingiunzione, tremenda e definitiva viene inclusa negli Atti di Visita del 1730 (manoscritto G57, Archivio Dipartimentale delle Alpi Marittime) dal nuovo vescovo Charles Léonce D'Anthelmy che immediatamente recipisce il divieto promulgato l'anno precedente dalla Santa Sede. Ironia della sorte, il prelato ha per cognome un altro noto intercessore del répit, Sant'Antelmo.

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Le sue dure parole sortiscono l'effetto desiderato e il santuario comincia il suo inesorabile declino: “Sur l'avis qui nous a été donné qu'on portait de differents endroits du diocèse et d'ailleurs les corps des enfants morts qui n'avaient pas reçu le baptéme dans la chapelle Notre Dame dans la confiance qui pourraient recouvrer la vie et recevoir, à l'occasion del quelque signe équivoque qu'ils donnèraient, le sacrement de bapteme, nous déclarons qu'encore que l'on ne piosse pas avoir trop de confiance en la puissante intercession de la Sainte Vierge auprès de Dieu nous ne saurions autorizer un tel usage qui nous parait plutot un abus que le fruit d'un culte religieux et réglé envers la Mère de Dieu. Nous défendons en conséquence au prétre qui dessert cette chapelle et de célébrer en présence la sainte Messe ordonnant que la masure qui est hors du portique ou halle et où les enfants morts sans bapteme étaient mis ici devant sera abattue et rasée, permettant néanmoins aux marguilliers de ladite chapelle d'assigner une place gors d'i celle pour y mettre les corps des enfants morts sans bapteme qui sera fermée à clef et la clef gradée par le pretre de la chapelle auquel nous défendons expressément de l'ouvrir pour y mettre corps de petit enfant étranger sans étre assuré par un billet du curé du lieu du nom du père ou de la mère à qui l'enfant appartient, dont il tiendra lui-meme mémoire et nous en donnera avis pour prévenir toute sort d'abus et pourvoir aux inconvénients” (Su segnalazione che ci è stata data secondo la quale vengono qui portati da diversi luoghi della diocesi e da altri i corpi dei bambini morti che non hanno ricevuto battesimo nella cappella di Notre Dame nella convinzione che possano recuperare la vita e ricevere, all'occasione del manifestarsi di qualche segno equivoco, il sacramento del battesimo, noi dichiariamo che non abbiamo troppa fiducia in tale potente intercessione della Vergine Maria presso Dio, né possiamo autorizzare una tale pratica che ci sembra un abuso più che il frutto il frutto di un culto religioso e regolato alla Madre di Dio. Diffidiamo di conseguenza il prete che serve la cappella e di celebrare al presente la Santa Messa, ordinando che la mensa che si trova fuori dal portico coperto e presso la quale i bambini morti senza battesimo vengono deposti, sia abbattuta e spianata, né permettiamo ai consiglieri di detta cappella di affittare il posto fuori da essa per mettere i corpi dei bambini morti senza battesimo, che sarà chiuso a chiave e la chiave custodita dal sacerdote della cappella, al quale noi vietiamo espressamente di aprirla per mettere il corpo di bambino estraneo senza essere assicurato con una nota del parroco del luogo del nome del padre o della madre a cui il bambino appartiene, di cui egli stesso terrà documentazione e ci darà comunicazione per evitare qualsiasi tipo di abuso e prevenire inconvenienti).

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Tra il 1761 e il 1764 anche l'usanza dei pellegrinaggi a Nostra Signora delle Vite, si conclude e il santuario declina. Ma il répit, probabilmente, viene ancora praticato. Un solo ex-voto presente fra le sue mura e che risale forse al XVII secolo, è stato riconosciuto chiaramente come ringraziamento per un répit avvenuto. Ritrae una madre e un figlio in fasce, uno accanto all'altra, che sporgono dalle lenzuola in un grande letto. Il padre in atteggiamento di preghiera è ai piedi. Su tutto domina la Vergine.

Ma ci sono almeno altri due quadretti che mostrano elementi inequivocabilmente riconducibili alla “doppia morte”. In uno, racchiuso da una cornice tonda, ci sono una madre e una bambino in fasce in primo piano vicino a una culla, un angelo con qualcosa che parrebbe una piuma alle loro spalle e in alto, nel terzo e più profondo piano compositivo, la Vergine.

L'altro, in certo modo inquietante, mostra invece un bambino in fasce deposto in una culla avvolta dalle fiamme. Non è difficile riconoscere nelle lingue di fuoco quelle dell'inferno, quindi della condanna al limbo (che anche Dante aveva collocato negli inferi), evidentemente scongiurata.

I due ex-voto sono chiaramente “tardi” e il secondo riporta una data precisa, il 1852 che mostra come, più di un secolo dopo l'interdizione del rito, il répit ancora si svolgesse a Notre Dame De Vie, probabilmente in clandestinità.

La riscoperta del santuario avvenne soltanto negli anni '30, quando la famiglia Guinness (i celebri produttori irlandesi di birra), proprietaria dei terreni circostanti il complesso (tra cui anche l'area dove si trovava il cimitero e il giardino dietro l'abside), decise di rendere nuovamente fruibile la collina. In seguito al decesso della moglie di Benjamin Seymour Guinness nel 1931 e alla volontà di tumularla in una nuova tomba costruita accanto al santuario, i corpicini dei nati morti furono tutti esumati e raccolti nell'ossario interrato sul lato nord. Su di esso fu posta una lastra che recita: “ici reposent des petits innocents morts dés leur naissance”, letteralmente “qui riposano i piccoli innocenti morti nella loro nascita”.

 

 


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BIBLIOGRAFIA

Aa. Vv., Autur de notre-Dame de Vie – Actes de la journée d'études du 26 novembre 2011, Société Scientifique et Littéraire de Cannes, Cannes, 2013

Froeschlé-Chopard, Marie-Hélène, Tourrettes sur Loup au XVIII siécle. Héresie et scandale au village, Editions Serre, Nice, 2009

Gélis , Jacques, Les enfants des limbes. Mort-nés et parents dans l’Europe chrétienne, Audibert, Paris, 2006

Casalini, Fabio e Teruggi, Francesco, Mai Vivi Mai Morti, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2015


 

Pubblicato in Europa
Venerdì, 02 Dicembre 2016 18:09

La roccia, i cavalieri, il répit

L'ARGENTIÈRE: UNA COMMENDA GIOVANNITA TRA I VALDESI E LA DOPPIA-MORTE

Alla confluenza delle valli della Durance, della Vallouise e del torrente Fornel, nell'alta Provenza alpina, esiste, almeno dall'anno mille, una ricca miniera di piombo argentifero (oggi dismessa).

Quando nel XII secolo era stata data in concessione al Delfinato, a protezione della stessa, che si apriva nelle pareti scoscese della gola del Fornel, era stato innalzato, all'imbocco della vallata, un poderoso castello, dal quale sorvegliare il “tesoro” della montagna e insieme presidiare il prezioso punto strategico sulla diramazione della via Francigena detta Via Alta. La strada, dalla Pianura Padana, attraverso il Monginevro raggiungeva Aix e Marsiglia, sul tracciato dell'antica via romana Domizia, chiamata Cottia per Alpem in questo tratto. Da qui era passato anche Annibale.

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Ma L'Argentière nascondeva di certo anche altri motivi di interesse, meno noti. Tant'è che, fin dal 1183, avevano trovato rifugio, nel villaggio e nei dintorni, i valdesi, dopo la scomunica pronunciata nei loro confronti durante il Concilio di Verona (1184). Inoltre, ai piedi della fortificazione, vicino al punto in cui il tumultuoso Fornel si gettava nella Durance, c'era un luogo sacro molto antico che ancora resisteva, con le sue tradizioni, alla Sacra Religione. Non era che una grande pietra di origine glaciale, con la sommità piuttosto piatta, presso la quale, presumibilmente si celebravano quei culti di vita e di vitalità che oggi riduciamo offensivamente all'idea dei “massi della fertilità”.

In epoca imprecisata, sulla roccia era stato eretto un edificio cristiano, forse una semplice cappella votiva o un piccolo oratorio. Sei gradini intagliati nella pietra viva, consentivano da tempo immemore di salire fino alla sommità dello sperone, sul lato orientale. Si ritiene che questa curiosa caratteristica sia all'origine del nome dato al luogo, “Gradis Caroli”, “i gradini di Carlo”, forse un riferimento simbolico al “primo imperatore” Carlo Magno e allo scranno della sua incoronazione in San Pietro, oppure (più difficilmente) a Carlo I conte di Fiandra, noto per la sua premura e generosità nei confronti dei bisognosi. Più probabilmente, però, “Carolo” potrebbe essere la corruzione latino-cristiana del nome dell'antico nume tutelare locale “Carrus”, la divinizzazione della “montagna”, che i Romani riconducevano a uno dei numerosi aspetti del dio Marte. Più precisamente, Carrus era il fuoco marziale” del sole, il fuoco della creazione stessa, “coagulato” nella roccia delle montagne.

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Intorno al 1208 i Cavalieri dell'Ordine di San Giovanni al comando di Guillaume de Faudon, insediati proprio presso quella roccia, fecero innalzare sul luogo da mastri costruttori italiani (Magistri Comacines) un nuovo edificio sacro (16,40 m di lunghezza per 7,70 di larghezza), in un austero stile romanico e un ospitale. La piccola commenda, fuori dalle mura fortificate e di difficile difesa, prese il nome di “preceptoria Saneti Johannis de Gradibus Caroli”.

La chiesa, in pietra brunita, si eleva dalla viva roccia, sul bordo orientale. È orientata verso il sorgere visibile del sole equinoziale a Est ed è dotata di un piccolo campanile a vela posto centralmente sopra l'abside. Le sei mensole scolpite, che reggono gli archi accoppiati di ciascuna ripartizione absidale, ripetono per ciascun arco la testa di un toro, ma con un diverso elemento di contrappunto: un drago cornuto, un viso umano con estremità appuntite simili a corna, una terza “testina” cilindrica ormai consunta che potrebbe di nuovo essere un toro.

La simbologia complessiva, con i riferimenti al Sole “marziale” (testa umana dotata di corna), alla Luna (drago) e ad un terzo astro, Venere (in astrologia pianeta “maestro” della costellazione del Toro e tramite fra la Luna e il Sole) e la ripetizione delle “corna” quale costante di tutto l'insieme, è un potente richiamo al sacrificio di ogni parte di sé quale atto necessario alla “rinascita spirituale” a nuova vita. I segni lasciati dai costruttori sono così, verosimilmente, una rinnovata codificazione del valore spirituale della roccia in cui furono intagliati i gradini.

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Chi ancora oggi si sofferma presso questo luogo non può, infatti, non notare la croce incisa profondamente nei mattoni bruni alla base esterna dell'abside, non esattamente in asse con il centro dell'emiciclo, ma proprio in corrispondenza con la scala scolpita. La particolare posizione fu scelta, con tutta probabilità per indicare il corrispondente punto della roccia sottostante, ma fu ovviamente realizzata dopo la costruzione della chiesa ed è contornata da altre due croci, più piccole e meno visibili, realizzate successivamente.

L'inevitabile conclusione è che la tradizione originaria e più antica del luogo si sia dunque mantenuta anche dopo l'arrivo dei Cavalieri giovanniti. L'ordine ospitaliero, non entrando in dispute teologiche e spirituali, ma prendendosi semplicemente cura dei viandanti e dei bisognosi e rispettandone le convinzioni, senza distinzioni religiose, razziali o politiche, mantenne in tal modo viva, la pratica rituale esistente.

La natura di tale usanza è riemersa inaspettatamente grazie ai recenti scavi archeologici (1999-2005). Sono state rinvenute tutt'intorno all'edificio, sepolture riconducibili ad almeno tre diverse fasi di utilizzo. Un gruppo di fosse rupestri sul lato sud dello sperone roccioso, vicino alla chiesa, ha restituito resti umani di sesso maschile, che potrebbero essere quelli dei Giovanniti responsabili della commenda.

La maggior parte delle fosse, invece, scavate nella roccia in forma di “loggette” antropomorfe e appartenenti a maschi e femmine di diverse età, è databile almeno al XI secolo. Tra queste le sepolture più stupefacenti sono quelle rinvenute in una zona più appartata, lungo il bordo tra sud e est, contenenti le membra (di incerta datazione) di almeno tre bambini prematuri, nati-morti (per lo più tra l'ottavo mese e il parto), inumati nella nuda terra. I corpi sono stati ritrovati proprio ai piedi della “scala” intagliata” nella roccia. Tali sepolture sono il segno inequivocabile di una tradizione ancestrale di “affidamento” degli sfortunati infanti alla “roccia sacra” che è riconducibile al fenomeno millenario del répit.

Saint Jean di L'Argentière, dunque, non solo si trovava su una trafficata via di pellegrinaggio, ma era evidentemente esso stesso un santuario, molto antico, al quale si ricorreva per ottenere il “ritorno effimero in vita” dei bambini “morti durante la nascita”, per il tempo di un solo respiro.

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I minuscoli cadaveri, dopo il lungo viaggio, venivano portati a braccia su per i gradini dalle madri che li salivano uno alla volta “ondeggiando” a destra e sinistra. La scala è infatti realizzata con superfici e pendenze che impongono, appunto, di spostarsi secondo una certa cadenza, così come accade quando ci si trova sul ponte di una barca scossa dalle onde. Giunti all'ultimo gradino venivano deposti sulla sommità della roccia nuda (più tardi proprio sotto la croce) affinché Carrus/Marte-Sole, “maestro” dell'Ariete, il segno della rinascita all'inizio della Primavera, concedesse quell'ultimo sospiro.

Non a caso il “battesimo sub condicione”, che era lo scopo finale del répit nella sua forma cristianizzata, era chiamato anche “ondoiemént”, ondeggiamento, proprio per ricordare la somiglianza simbolica dello stato “sospeso” del nato-morto (il limbo) che non può trovare pace, con il “mare in tempesta” per il quale unico sollievo è il “porto sicuro” del Battesimo (ben rappresentato dalla dedicazione del luogo a San Giovanni Battista).

Determinante era poi il “sacrificio necessario” (quello del toro, ripetuto in ben tre delle sei mensole d'arco absidali) rappresentato dal pellegrinaggio stesso, lo sforzo consapevole senza il quale il prodigio non si sarebbe potuto compiere.

La prosecuzione dell'usanza rituale, conservata e mantenuta anche dai Cavalieri di San Giovanni, nonostante la forte avversione della Chiesa, è testimoniata da almeno altre 25 sepolture di fanciulli di età variabile (non solo prematuri) più discoste dalla roccia e databili al XVI secolo grazie anche al rinvenimento, in una di esse, di due monete effigiate con il duca Carlo II di Savoia) e di alcune ceramiche dipinte.

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Non sono noti documenti comprovanti la pratica del répit a L'Argentiére. L'unico accenno potrebbe essere quello contenuto negli atti del processo a Chaterine Charbonelle, originaria di Val des Prés, condannata per stregoneria nel 1445, in cui la stessa “strega” testimonia di aver incontrato il diavolo mentre si recava in pellegrinaggio a San Giovanni di L'Argentiere insieme ai suoi bambini.

Le parole dell'imputata contengono almeno due elementi interessanti. La donna afferma di essersi recata a L'Argentière “in pellegrinaggio”, quindi con l'intento di ottenere presso la chiesa di Saint Jean una qualche grazia. Specifica inoltre, senza alcuna necessità, di averlo compiuto “insieme ai suoi bambini”. Potrebbero essere sibilline indicazioni del fatto di aver preso parte al répit? I bambini citati erano realmente i suoi figli, oppure si riferiva ad alcuni “nati-morti” di cui si era presa cura in quanto forse era una levatrice (come gran parte delle “streghe” perseguite dagli inquisitori)?

L'elemento più sorprendente, poi, è l'incontro che avrebbe avuto, presso il santuario, con il diavolo in persona! Era davvero il demone degli inferi quello con cui si era intrattenuta o un qualche altro ente ritenuto “diabolico” da Santa Romana Chiesa? In effetti, come detto, la testina umana cornuta posta come mensola d'arco all'esterno dell'abside maggiore di San Giovanni, potrebbe davvero essere descritta come un'immagine diabolica. Ciò si rivelerebbe, per altro, assai coerente con la partecipazione al “pellegrinaggio del répit” e alla presenza di certi bambini. Del resto, il “dio delle streghe”, identificato proprio con Satana, era un dio cornuto, il misterioso Cernunno.

Non esistono allo stato attuale elementi sicuri per confermare o meno tale ipotesi. La precettoria di San Giovanni De Gradibus Caroli rappresenta comunque un caso unico nel suo genere, quello di un santuario ancestrale sostituito da un primo edificio cristiano e successivamente dalla chiesa ospitaliera, presso il quale continuò a perpetuarsi lo stesso rituale e di cui la roccia continuò a essere l'intercessore.

La sua importanza spiega di certo anche la presenza a L'Argentière di ben due ospitali, quello giovannita già citato e quello indicato in alcune fonti come “Saint-Sépulcre-de-la-Pierre-Sainte”, esistente fin dal 1264, quando ne era precettore Pierre de la Blache, passato poi in gestione alle monache di Boscodon con il nome di “Hôpital Sainte-Marie de Boscodon de la Pierre Sainte”.

La “Pietra Santa” indicata nell'intitolazione è, di nuovo, la roccia su cui sorge la Chiesa di Saint Jean e ha fatto ipotizzare, in un primo momento, che l'ospitale delle monache fosse quello giovannita anziché una struttura distinta, ipotesi che oggi è stata abbandonata.

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Le due istituzioni, ben distinte, erano probabilmente necessarie per gestire non solo l'afflusso dei viandanti di passaggio ma anche e soprattutto quello dei pellegrini in visita al santuario. Ancora nel 1501 il notaio di Gap François Farel constatava in forma scritta, essendosi recato a L'Argentière per seguire certi affari della commenda, che erano almeno duemila le persone provenienti dalle vallate vicine a portare candele accese nella chiesa ospitaliera, in onore di San Giovanni, nei giorni della sua ricorrenza.

Meno di cinquanta anni più tardi, però, soltanto uno dei diciotto “testamenti di Cervières”, contenenti una richiesta di pellegrinaggio, quello di Jean De Borrel, datato 17 Aprile 1523, menziona la cappella di Saint Jean a L'Argentière: la fama del luogo si è spenta.

Intorno al 1380-90, a poche decine di chilometri, sono giunte al Priorato di Ganagobie le preziose reliquie di Sant'Onorato, qui traslate da Lerìns per preservarle dagli invasori Saraceni. Sistemate sul ballatoio sospeso sopra il portale d'ingresso della chiesa abbaziale e protette da un enigmatico “transitus” (scultura cadaverica sul coperchio del sarcofago), hanno cominciato ad attrarre fedeli e curiosi. Tra i prodigi che elargiscono c'é quello di ridare la vita ai bimbi nati-morti per il tempo di un respiro.

Carrus/Marte ha ora il corpo mortale di un santo cristiano e un nuovo luogo riservato alla sua adorazione...

 

 


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BIBLIOGRAFIA

P. Guillaume (abbé), Notice historique sur l’Argentière, in Bulletin de la Société d’études des Hautes-Alpes, 1883

J. Roman, Monographie du mandement de l’Argentière. Paris, Picard, 1883

S. Tzortzis e I. Séguy, Pratiques funéraires en lien avec les décès des nouveau nés. À propos d'un cas dauphinois durant l'Époque moderne: la chapelle Saint-Jean à l'Argentière-la-Bessée (Hautes-Alpes), in Socio-anthropologie, n° 22, 2008

G. Giordanengo, L'Église de L'Argentière, in Congrès archéologique de France, 130e session, 1972, Dauphiné, Paris, 1974

F. Casalini e F. Teruggi, Mai Vivi Mai Morti, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2015


Pubblicato in Europa
Giovedì, 09 Giugno 2016 18:15

Santa Cazzuola

Raccontano le agiografie che all'alba del Cristianesimo nel Nord Italia, sulle rive del Lago d'Orta erano giunti due fratelli predicatori dalla lontana Grecia. Le gesta dei fantomatici Giulio e Giuliano sono piene di accadimenti prodigiosi. Tra le tante, è curiosa la storia di come, mentre l'uno erigeva San Lorenzo a Gozzano e l'altro la futura Basilica sull'isola in mezzo al lago, si lanciassero l'un l'altro l'unica cazzuola e l'unico piccone che possedevano. Gli arnesi volavano dunque di continuo per chilometri, cascando alternativamente nella mani di questo e di quello che, in tal modo portarono avanti contemporaneamente i due divini progetti. Si dice che una volta Giuliano non si sarebbe accorto dell'arrivo volante del piccone e che si sarebbe di conseguenza ferito una mano per cercare di acchiapparlo. Lo schizzo di sangue lasciato su una pietra diventò oggetto di intensa devozione.

Identica faccenda pare essere accaduta anche sulle rive del Lago Maggiore, poco più a est. Qui sorge, sulle alture varesotte di Ranco, una placida, millenaria chiesa dedicata a San Quirico. Si racconta che fu edificata da un qualche “monaco errante”, che aveva viaggiato insieme ad un confratello, il quale aveva proseguito fino al Monte San Salvatore sopra Massino Visconti, sull'opposta riva del lago.

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San Quirico al Monte (Ranco di Angera) - fonte: Wikipedia

Mentre l'uno innalzava San Quirico, l'altro costruiva la primitiva chiesa che probabilmente pre-esisteva al santuario benedettino che vi sarebbe sorto nell'anno Mille.

Di nuovo, a causa della mancanza di attrezzi, si vide per diverso tempo una cazzuola sfrecciare fischiando di traverso al lago, da una chiesa all'altra. Di tale mirabolante prodigio sarebbe stata ripetutamente testimone tale Servilia, rifugiatasi nei boschi circostanti insieme all'anziano padre per sfuggire ai dominatori longobardi.

Più tardi le leggende finirono per sovrapporsi e i due santi monaci cristiani di Angera (Ranco) e San Salvatore diventarono Giuliano e Giulio, i quali vi sarebbero arrivati dopo essere passati dalla vicina Brebbia e prima di giungere ad Angera. Dei due, ovviamente, Giulio si sarebbe occupato di San Salvatore, “andando avanti” lungo la strada, come poi avrebbe fatto anche tra Gozzano e Orta.

Una volta di più è valido ciò che ormai molti storici confermano e cioè che le agiografie dei santi furono creazioni molto più tarde di quando i supposti santi sarebbero vissuti, confezionate ad arte su modelli stereotipi ben definiti. Del resto, a parte quella leggendaria storia che le accomuna, le due chiese non sembrerebbero avere nulla a che fare l'una con l'altra.

Cambia il lago, cambiano i protagonisti e la faccenda si ripete. Ma l'ispirarsi ad una medesima fonte per redigere le agiografie, forse, non spiega ogni cosa. Dovrebbe essere quantomeno sospetto che sia stato inserito un evento tanto strano e poco rappresentativo in luoghi diversi e differenti storie di santi.

 

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Monte San Quirico (Ranco di Angera), vista dalla riva occidentale del Lago Maggiore

San Quirico Al Monte è dedicata a un santo bambino. Senz'altro è essa stessa una chiesa-bambino. Però Quirico è di solito accompagnato dalla figura materna. Essendo questo un caso in cui la dedicazione è riferita soltanto a lui e non a “Quirico e Giulitta”, la “madre” dove può trovarsi?

Il “lancio della cazzuola” avanti e indietro, come a tessere una tela invisibile, conduce inevitabilmente a San Salvatore. Non è difficile immaginare che tale Santo non sia probabilmente la dedicazione originaria. La “Salvezza”, il Cristo evangelico, venne dal grembo della “Madre”, Maria e forse proprio a lei fu intitolata, prima dell'arrivo dei Benedettini la sommità del monte. Come già intonava una celebre preghiera mariana orientale, Sub Tuum Praesidium: «Proteggici o Madre di Dio / sotto la Tua ala da ogni pericolo: / Tu sei il nostro rifugio, la nostra massima speranza...». La Theotokos è dunque anche la fonte della “speranza di salvezza”.

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Abbazia/Santuario di San Salvatore (Massino Visconti)

Del resto il monte, prima dell'arrivo dei benedettini, si chiamava “Biviglione”, con il significato di “(montagna) delle grandi betulle”. L'albero in questione è di certo di natura femminile e femminili erano le “vesti” con cui veniva adornato nei giorni della Pentecoste (mese di Maggio, il mese della Vergine Maria) prima di essere gettato nel fiume per propiziare la pioggia. Nelle saghe europee e soprattutto nordiche è infatti un albero della vita, un veicolo della creazione e precisamente l'entità arborea che dona la luce al mondo.

 

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Affresco absidale (particolare) - Abbazia/Santuario di San Salvatore, Massino Visconti

Non a caso, dal XV secolo, quando il monastero passò agli Agostiniani, proprio questi ultimi vi portarono (o riportarono) il culto della Madonna, quella detta “della Cintura”, di origini bizantine. L'originale, la reliquia della cintola, una sorta di fascia indossata sopra i fianchi per reggere le vesti, pare fosse custodita a Bisanzio-Costantinopoli nella chiesa di Santa Maria Chalchoprateia, in un prezioso reliquiario, la Santa Cassa.

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Madonna della Cintura (statua moderna) - Abbazia/Santuario di San Salvatore, Massino Visconti

C'é poi un curioso legame con la femminilità e l'atto creativo nascosto nelle “absidi da celebrazione” del complesso di San Salvatore. Questi curiosi ambienti semicircolari sovrapposti voluti dai benedettini e la cui funzione non è chiara, hanno infatti dedicazioni non casuali: Santa Margherita di Antiochia, Maria Maddalena e lo stesso San Quirico! La prima è la patrona delle partorienti, l'ultimo dei fanciulli ed è fanciullo egli stesso e ciò porta a supporre che nella loro presenza fu codificata una vera e propria venerazione per l'atto spirituale e terreno di “creazione e manifestazione della vita” nelle sue tre fasi salienti.

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Affresco absidale (particolare) - Abbazia/Santuario di San Salvatore, Massino Visconti

Ecco dunque la chiesa “madre”, in cui il bambino è presente e la chiesa “bambino” sull'altra sponda del lago. La cazzuola parrebbe dunque una sorta di legame invisibile tra i due luoghi, mantenuto vivo attraverso il suo andirivieni “sul filo della cintola”. Il “dono della cintura” fatto dalla Vergine a Santa Monica (madre di S.Agostino), all'origine di tale culto, era infatti un chiaro simbolo di appartenenza e di fiducia insieme, come già era stato scritto in Isaia 11,5: “Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia / cintura dei suoi fianchi la fedeltà”.

 

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Scala santa e ingressi delle absidi da celebrazione - Abbazia/Santuario di San Salvatore, Massino Visconti

Quanto allo strumento attraverso cui viene indicata la “cintura invisibile”, un attrezzo da costruttore, è facile ricondurlo ai simbolismi del compagnonage libero-muratorio, per lo più come indicazione di una volontà precisa e studiata, appannaggio di pochi sapienti.

Se poi si cerca un motivo per cui la cazzuola sarebbe stata messa nelle mani di Giulio e del suo fantomatico “fratello” Giuliano, di nuovo San Salvatore offre uno spunto curioso nella figura di una delle dedicatarie delle cappelle da celebrazione. Prima di Giulio, già Santa Margherita di Antiochia era stata una “ammazzatrice di draghi”, una “sauroctona”.

Infine vale la pena soffermarsi su un dettaglio del Libro di Isaia. Due sono le “cinture” ricordate. Una è quella chiamata dai greci “zone”, la cintura vera e propria annodata soprai fianchi, che è il segno della fedeltà, della fede che è come un “filo” che “mantiene” un legame, una promessa come quella dei Templari che indossavano, per tale motivo, un filo di candido lino in vita, sopra l'armatura... la promessa della salvezza, appunto, su cui fu edificato il Monte San Salvatore.

L'altra è invece quella indicata in Grecia come “strophinon” ed è la fascia che avvolge il seno, annodandosi nella zona renale/lombare, segno di giustizia, secondo Isaia. Forse anche questa “fascia invisibile” esiste sul Lago Maggiore.

Poco più a nord di San Quirico al Monte, sorge infatti l'antico Eremo di Santa Caterina del Sasso, fondato, si racconta, come ex-voto dal mercante Antonio Besozzi, scampato ad una violenta tempesta mentre attraversava il lago.

Esattamente di fronte, sull'opposta sponda, fra le alture di Stresa, esiste un altrettanto antico oratorio, quello della Madonna di Passera, la cui leggenda di fondazione è identica a quella dell'eremo: di nuovo ne è protagonista un mercante, di vini questa volta, salvatosi miracolosamente anch'egli da un nubifragio mentre attraversava le acque del Lago Maggiore.

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Leggenda di fondazione (miracoloso salvataggio da naufragio) - Oratorio della Madonnadi Passera, Stresa

La coincidenza dei fatti non è passata inosservata. Più nascosto invece il legame tra i due luoghi e le rispettive dedicatarie. Da una parte vigila la santa alesandrina -forse mai esistita, forse confusa con l'eroica Ipazia- patrona dei giuristi, degli uomini di giustizia; dall'altra parte si venera la Presentazione della Vergine al Tempio. Tale è la denominazione esatta dell'oratorio. Ma la Madonna fanciulla presentata al Tempio ha anche un altro nome: Madonna della Salute.
La salute è integrità. L'integrità è giustizia. E una fascia sottile, la stessa che tenne sollevati i mercanti naufraghi dalle onde del Lago, è ancora tesa fra le due.

 


BIBLIOGRAFIA

Aa.Vv., Ranco, civiltà e storia del Lago Maggiore, Nicolini, Gavirate, 1991

Manni E., Massino Visconti e il Santuario di San Salvatore, Capelli, Varallo, 1975

Vincenzo De Vit, Il lago Maggiore, Stresa e le isole Borromee: notizie storiche, A.F. Alberghetti, Prato, 1875-1878

Lucia Sebastiani, Culto dei Santi, feste religiose e comunità della Lombardia post.tridentina, in Verbanus nr.VII, Alberti Libraio, Intra, 1986

Piero Orlandi e Gian Carlo Botti, Monasteri e conventi in Lombardia, Celip, 1988

Luciano Besozzi, De Besutio, Lulu.com, 2012

James Frazer, Il ramo d'oro. Studio della magia e della religione, 2 voll., Torino: Einaudi, 1950

Robert Graves, La Dea Bianca, Adelphi, Milano, 1992

Alfredo Cattabiani, Florario: miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, Milano, 1992

Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Bur-Rizzoli, Milano, 1999


Pubblicato in Cose
Sabato, 28 Novembre 2015 09:36

Il volto della luce

Chi è la Signora delle Rocce? Così viene chiamato nel 1052 il nume tutelare di un remoto villaggio dell'alta Provenza, la cui dimora sorge tra i bastioni a picco sul minuscolo centro abitato.

Cinque fonti di acqua pura sgorgano da sempre nella stretta valle del ranvin d'Anguire e si gettano in uno dei torrenti che danno vita al meraviglioso spettacolo naturale delle Gorges Du Verdon, non prima però di aver alimentato le fontane e i lavatoi del paese, zampillando qui e là tra le case accarezzate dal sole.

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Il mio nome è Signora dal Bel Viso (incarnato)

il mio nome riespande la luce.

Chi viene verso questa soglia è colui che desidera luce

 

Reperti vecchi di 30.000 anni raccontano che l'uomo già saliva a rendere omaggio e supplica a quell'antica dea in epoche così remote da non esser più ricordate. Millenni più tardi, nel V secolo, ai tempi di San Fausto e di Sidonio Apollinare, esisteva un tempio, tra queste pareti di roccia.

Lì, dove si levava un altare della terra, ne fu alzato uno nuovo alla Vergine e al suo volto, al viso benevolo e scintillante di luce che essa mostra al nobile pellegrino, giunto ad onorarla. La chiesa viene già citata nel 1009, nell'atto di donazione firmato da tale Rostaing. Nel 1052 si insediano a Moustiers alcuni canonici regolari provenienti dall'abbazia di Lerìns. Meno di cinquant'anni più tardi, il signore del borgo, Guillame e la sua sposa Adelais cedono ai monaci la chiesa detta di «Santa Maria dell'Annunciazione sotto il nome di Roca», insieme a tutti i loro averi nel «Castello Monasterii».

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L'intitolazione «in Roca» pare sia stata decisa addirittura da Carlo Magno. Il ritrovamento nei dintorni del paese di una villa di epoca carolingia, sembra avvalorare la leggenda.

Il pellegrinaggio a questo straordinario santuario, così prodigo di miracoli, ben presto diventa uno dei più importanti della Provenza e oltre. Viandanti di ogni rango, ceppo e classe attraversano le foreste dell'entroterra sud-orientale della Francia per recarsi alla prodigiosa cappella. Giunti al paese salgono faticosamente la stretta mulattiera tra le rocce, accompagnati soltanto dallo scrosciare delle acque del ranvìn e infine l'avvistano.

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Austera nelle sue forme romaniche e gotiche insieme, con il suo alto campanile (22 metri) ornato da un grande orologio, la cappella attende nel silenzio i pellegrini e i bisognosi. Hanno sostato brevemente in paese e pregato nella chiesa parrocchiale, hanno chinato umilmente la testa ai piedi di Santa Filomena, «quella dei prodigi impossibili», che custodisce l'accesso al sacro recinto del «Belvolto» e ora sono al cospetto della Vergine luminosa, il cui figlio li attende a braccia aperte sopra l'arco di ingresso.

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La chiesa e la cappella sono parte di un unico disegno vitale. La cappella, lassù tra le rocce, è il frattale energetico del vallone stesso. Come due bastioni, che paiono piedi, uno un po' più avanti ed uno un po' arretrato, ne custodiscono l'ingresso, così due alti cipressi svettano davanti al portale della cappella. La scalinata li avvolge, ma non li tocca, come se fossero lì da sempre, da molto prima che i gradini fossero messi in opera. Diceva Confucio che «gli yin piantavano cipressi presso gli altari della Terra».

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Oltre i 12 gradini, l'ingresso è asimmetrico rispetto alla scalinata e ai due cipressi, così come la vallata procede curvando verso la montagna. Sei archi, con profili alternativamente spigolosi e tondeggianti, in un preciso ritmo di polarizzazione, attraggono il pellegrino verso la porta.

L'interno è grigio e austero, la volta alta e sfuggente, il transetto solo accennato. L'altare - oggi coperto da un paramento barocco rivestito d'oro - è lontano, quasi soffocato nella luce crepuscolare, come un baluginio in fondo a una galleria. Avvicinarsi alla madre «graziosa» è arduo, pesante, come risalire la corrente di un fiume in piena. Poi, finalmente al cospetto della madre antica, è impossibile reggere il suo sguardo e sostare proprio di fronte ad essa. Tale è la sua immane potenza, tale è la vita che da lei sgorga, da essere insostenibile per l'uomo. Solo ai bimbi che nascevano già morti era concesso. Qui, dove ogni cosa accadeva e nulla era impossibile, la luce del volto della Vergine era così forte da ridare la vita perfino agli sventurati che non ne avevano potuto beneficiare. Durava il tempo di un solo respiro, ma era sufficiente ad impartire loro il Battesimo, necessario a sottrarli dalla dannazione eterna del limbo.

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In questa cappella, si svolsero innumerevoli e incredibili fatti legati a questo rito, tra i più interessanti e documentati. Se ne contano ben 336 andati a buon fine in soli 30 anni! Molti di più ne avvennero, ma di intere annate di questo periodo – il 1667, il 1640 e gran parte del 1641- la memoria è andata perduta.

Stupisce e meraviglia che tutti siano stati confermati e controfirmati non soltanto dai sacerdoti e dai presenti ma anche da notai, avvocati, magistrati, personalità in vista, celebri viaggiatori e perfino autorità militari, medici e chirurghi. Molti di essi, dapprima scettici, dovettero ricredersi di fronte a tali prodigi!

Di tutti gli accadimenti occorsi tra il 1659 e il 1673 i curati tennero diligentemente registro negli stati delle anime parrocchiali. Dopo il 1670, tutti gli atti e le testimonianze furono raccolti in un apposito registro, il «Libro dei nati-morti che sono portati alla cappella di Notre-Dame-De-Beauvoir di questo paese di Moustiers, i quali, avendo ricevuto il Battesimo grazie a un miracolo particolare concesso dalla Vergine, sono inumati nel cimitero della parrocchia». Insieme al nome del bambino e alla data di morte e rinascita venivano minuziosamente indicati i nomi di genitori, testimoni, i segni di vita manifestati, i sacerdoti che avevano impartito il Battesimo e le informazioni relative all'inumazione nel cimitero di Moustiers.

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Il libro, purtroppo, andò irrimediabilmente perduto, ad eccezione di qualche foglio. Fu il curato Félix a ricostruire per primo la memoria storica di questi fatti, un secolo più tardi, rintracciando 123 casi. Dalle successive ricerche risultano essersi verificati 2 «ritorni temporanei in vita» nel 1640, almeno 6 nel 1641, 5 nel 1659, 6 nel 1660, 7 nel 1661, 13 nel 1662, 33 nel 1663, 42 nel 1664, 19 nel 1665, 48 nel 1666, 27 nel 1667, 112 nel 1669, 12 nel 1670, 4 tra il 1671 e il 1673.

Il prodigio avveniva soprattutto l'8 di Settembre o nei giorni precedenti e successivi. Emerge inoltre dai documenti che le madri giungevano anche da altre diocesi (Aix, Gap, Digné, Embrun, Frejus, Apt, Glandéves, Marsiglia, Nizza, Senez, Riez) compiendo lunghi viaggi. I loro bambini erano certamente morti da tempo ed erano stati sepolti almeno 24 ore, se non giorni, più giorni, prima di venire riesumati ed essere portati a Moustiers.

Un monaco attendeva quelle madri, ritto all'ingresso della cappella. Prendeva con sé il corpicino, avvolgendolo in un drappo candido e si avviava verso l'altare, tenendo nella mano libera una candela accesa, seguito da tutti coloro che desideravano partecipare. Durante il breve tragitto si recitava un'invocazione: «Ave, Regina coelorum, Mater regis angelorum, O Maria flos virginum, Velut rosa vel lilium, Funde preces ad Filium, Pro salute fidelium». Giunto all'altare, il sacerdote benediceva e baciava il crocifisso. Si recitava il Concede, si leggeva il Vangelo secondo Giovanni e si attendeva il prodigio...

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Ciò che accadeva era senza dubbio un miracolo e i segni erano inequivocabili. Si legge di un caso di un bambino che, portato davanti alla Vergine e grazie alle preghiere dei presenti, ad un certo punto «mosse un piede, aprì la bocca e arrossò alle tempie; il cuore diede un battito e il sangue prese a scorrere nel corpo... mosse una mano, tirò fuori la lingua umettata di saliva; aprì gli occhi, girò la testa; un calore sensibile si manifestò in tutto il corpo; il polso batteva».

Tra il 1670 e il 1673 l'usanza e il celebre pellegrinaggio subirono un brusco arresto. La mano lunga dell'autorità ecclesiastica si era spinta fino a Moustier proibendo la pratica sconveniente del répit, che pure aveva alleviato le sofferenze di tante madri e altrettanti figli. Ben presto la cappella cadde in rovina. L'attenzione fu nuovamente rivolta alla chiesa parrocchiale del paese che, fin dal 1336, aveva preso su di sé la dedicazione che, in precedenza, era stata di Notre Dame De Beauvoir. Nuovi contrafforti furono elevati per consoladarla e la Chiesa dell'Annunciazione, esistente fin dal XII secolo come oratorio del monastero fondato dai frati di Saint Victoire, tornò ad essere il centro spirituale di Moustiers.

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In verità, la cappella e la parrocchiale sono e sono sempre state un insieme unico, inscindibile. Esse sono la chiara rappresentazione della vita nel suo discendere fino a questo mondo e del suo manifestarsi. La forma stessa, in elevato, della parrocchiale, che somiglia a quella di un vaso aperto verso il basso, con muri e colonne deformati, richiama il profilo del vallone soprastante, come se tutta la potenza contenuta nella cappella del Belviso qui si «svuotasse».

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Qui, tra foreste di querce, che simboleggiano l'«asse del mondo», la vita fluisce e rifluisce. Qui, la terra «mostra il suo volto, lo splendore del suo «sguardo». Qui, dove la stella del leggendario Blacas, tornato vivo dalla crociata, ancora brilla sospesa in cielo tra i bastioni di Moustiers-Sainte-Marie, l'acqua ha il colore dei suoi occhi. Cos'altro, se non proprio l'acqua «di vita» è la Vergine («la più pura») «de Roca», che viene dalla roccia o d'Entremont, che sta dentro alla montagna?

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Forse il gran segreto che si cela dietro le misteriose Vergini delle Rocce dipinte da Leonardo, è proprio questo...

 



BIBLIOGRAFIA

 

Aa. Vv., Les Églises de Moustiers, Alpes de Haute Provence, Beau'Lieu, Lyon, 2013

Casalini, Fabio e Teruggi, Francesco, Mai Vivi Mai Morti, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2015

Gélis, Jacques, Pousser les portes du paradis. Le sanctuaire «à répit» de N.-D. De Beauvoir à Moustiers-Sainte-Marie (1640-1670), in Froeschlé-Chopard, Marie-Hélène (a cura di), Itinéraires pèlerins de l’ancienne Provence. La Sainte-Baume. Notre-Dame de Moustiers. Notre-Dame de Laghet. Notre-Dame du Laus, La Thune, Marseille, 2002

Gélis, Jacques, Les enfants des limbes. Mort-nés et parents dans l’Europe chrétienne, Audibert, Paris, 2006

Hamon, André Jean Marie, Notre-Dame De France Ou Histoire Du Culte De La Sainte Vierge En France, Henri Plon Iimprimeur-éditeur, Paris, 1861


Pubblicato in Europa
Domenica, 15 Novembre 2015 11:15

Inquisitio veritatis - La verga dell'inquisitore

Cosa rendeva gli inquisitori così certi di trovarsi di fronte un eretico oppure una strega? Secondo gli storici della giurisprudenza, il responsabile di tanta sicumera sarebbe stato addirittura Costantino, nel 313 d.C. Affermando, nel celebre Editto di Milano, che la religione cristica non è una delle tante bensì «la vera e unica», pare abbia consegnato al Cattolicesimo l'infallibilità del suo ministero nella certezza di possedere una verità assoluta e insieme l'obbligo di farla trionfare ad ogni costo.

È su questa base che il Clero inventò ed elaborò nei secoli la «teologia» del «sospetto», della presunzione di colpevolezza. Su tale presupposto, la semplice ricerca di verità (inquisitio), attraverso un giusto procedimento, cui si appellava Innocenzo III, si trasmuterà poi nell'estirpazione della colpa dal corpo in cui si nasconde. Codificata infatti ufficialmente da Alessandro III nel decretale Accusatus del 1176, assume le sue più tristi connotazioni con i pontefici successivi e in particolare con Paolo III, autore di quella Licet ab Inizio (1542) che avrebbe sollevato definitivamente l'autorità giudiziaria ecclesiastica dalla dimostrazione del sospetto, attribuendone invece il peso all'accusato.

Si potrebbe dire che la legislazione attuale e la materia di diritto penale in particolare, in Italia e non solo, viene ancora amministrata e concepita come ai tempi dell'inquisizione, della cui supponenza siamo perciò tutti in qualche modo «figli», nostro malgrado.

«Auspicio non est cognitio certa sed dubitatio incerta» (Il sospetto non è una informazione certa, bensì un dubbio incerto) è dunque senz'altro il cardine di quella mal-tolleranza, o intolleranza, che armò anche l'Inquisizione, creando dal nulla gli sconosciuti reati di «eresia» e di «stregoneria», crimini pubblici contro la Religione poiché svolti contro di essa e quindi contro tutti gli uomini.

Dal sospetto alla certezza il passo è breve. Presto la semplice denuncia estorta o resa spontaneamente in confessionale, anziché suscitare la messa messa in moto dell'oliato meccanismo processuale, diventa già di per sé una condanna a priori. Tutto il resto, dagli interrogatori alle torture, dai dibattimenti ai roghi somiglia sempre più soltanto ad una macabra rappresentazione teatrale.

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Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim (da Wikipedia)

Un esempio per tutti è l'episodio di cui si rese più o meno volontariamente (non è dato saperlo) protagonista addirittura Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim, il celebre ed illustre filosofo, esoterista e alchimista cinquecentesco. Sempre ai limiti dell'accettabile, in odor di eresia per le sue ardite frequentazioni (fu vicino a Lutero), convinto assertore dei poteri della natura, la vera magia e detrattore della stregoneria, nonostante sia stato ripetutamente accusato di essere un mago, Agrippa si prestò come avvocato difensore in un processo per stregoneria nel 1519.

Sul banco degli imputati venne portata una sospetta «fattucchiera» di Voippy, vicino a Mertz, ritenuta responsabile di aver scatenato tremende calamità naturali, tra le quali anche una violenta tempesta fuori stagione. Graziata dall'ufficiale papale che, in punto di morte, non voleva lasciare incompiuta la propria opera e soprattutto era desideroso di ripulirsi la coscienza, la malcapitata fu nuovamente trascinata davanti al tribunale nei mesi successivi per volere del frate inquisitore domenicano che aveva preso in carico l'intero procedimento.

Il grande filosofo, nel preparare l'arringa difensiva, neppure provò a dar conto delle accuse mosse. Con inaudita sagacia, degna di un moderno poliziesco, si concentrò invece sulla malafede dell'inquisitore, dimostrando come costui si era intrattenuto con i concittadini della «strega» dai quali aveva perfino accettato doni e sopratutto come costui più volte avesse già confermato loro che la «fattucchiera» sarebbe stata punita con il rogo, poiché era senza dubbio un'adepta del diavolo, ben prima che il processo avesse avuto inizio.

Agrippa conquistò poi facilmente la vittoria processuale, scardinando in un sol colpo le motivazioni addotte per i capi d'accusa presentati dall'avversario. Secondo il dominicano, quella donna era di certo una strega poiché figlia di una donna condannata per stregoneria e poiché era noto che il seme del demonio si diffondeva dalle madri ai figli e alle figlie. Due furono le obiezioni del luminare di Nettesheim: una tale impostazione non teneva conto e anzi rinnegava e screditava il valore salvifico del Battesimo, che l'imputata aveva ricevuto; nei decreti legislativi ecclesiastici, inoltre, si specificava che erano da ritenersi peggiori perfino degli eretici coloro che credevano ai poteri delle streghe! Così, messo alle strette, il frate inquisitore non poté che rimettere la sua carica e... scomparire dalla storia.

Resta comunque un grande interrogativo. Il domenicano doveva conoscere a sua volta le argomentazioni che Agrippa gli aveva mosso contro, eppure era tale la certezza che nutriva verso la colpevolezza di quella malcapitata donna, da dichiararla apertamente colpevole con i suoi concittadini e da elaborare un atto accusatorio così rischioso. Cosa lo aveva reso così sicuro?

Forse aveva un'arma infallibile, qualcosa in grado di concedergli, rendendo visibile l'invisibile, l'assoluta certezza della colpa. Quell'arma, apparentemente innocua, di cui sopratutto monaci e frati erano abili utilizzatori, passava da tempo di mano in mano nel buio dei conventi. Decine e decine di testi, scritti da teologi e da filosofi, ne scrivevano da secoli, alcuni per intesserne le lodi, altri per indagarne il misterioso funzionamento, altri ancora per screditarne le proprietà.

Aveva nomi diversi, ma sempre la stessa forma: che fosse la virgula divina, il baculus divinatorium, la Glück rüt o il Wünschelrute, il Caduceo o il Bastone di Aronne era pur sempre... la verga del rabdomante!

Tali e tanti poteri erano attribuiti ad una semplice forcella di nocciolo tenuta tra le mani, che Lutero in persona, nel 1518, nel corso delle dispute di Heidelberg, aveva dedicato un'intera dissertazione a quello strumento, che riteneva «lavoro del diavolo» e «magia nera». La sua stessa esistenza e il suo utilizzo, secondo il riformista, contravvenivano addirittura al primo comandamento: «Non avrai altro Dio all'infuori di me». Maneggiare la verga di legno poteva rendere l'uomo idolatra il dio di sé stesso, ma solo un dio era accettabile!

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L'Europa regina - illustrazione della Cosmographia di Sebastian Münster (da Wikipedia)

Ciò che era più grave e motivo per cui Lutero ritenne di doverne prendere le distanze, era che i più accaniti utilizzatori di tale strumento erano proprio i membri del clero cattolico, da lui tanto avversato. Immagini di rabdomanti aprivano l'edizione del 1550 della monumentale Cosmographia di Sebastian Münster. Perfino Santa Teresa D'Avila, in un passo della sua autobiografia, racconta di come, avendo ricevuto in dono un lotto di terra per costruirvi un nuovo monastero, fa chiamare un certo fratello di nome Antonio per individuare il punto in cui scavare il pozzo che avrebbe fornito acqua al complesso. «Davvero, non posso essere sicura se furono i segni (gesti) che fece», racconta la santa e dottore della Chiesa, «in ogni caso fece un po' di movimenti con il ramoscello e poi disse "scavate proprio qui"; scavarono, ed ecco: una abbondante fonte di acqua scaturì, eccellente per bere, abbondante per lavarsi, e che mai sarebbe rimasta asciutta ».

Nel 1651 ne intesseva le lodi anche l'ecclesiastico e poeta Samuel Sheppard, nei suoi «Epigrammi teologici filosofici e romantici» chiamandola ancora con il suo antico nome latino di virgula divina :

Some Sorcerers do boast they have a Rod,
Gather'd with Vowes and Sacrifice,
And (borne about) will strangely nod
To hidden Treasure where it lies;
Mankind is (sure) that Rod divine,
For to the Wealthiest (ever) they incline.

Mancava però il «riconoscimento ufficiale». Nel 1659, mentre il geniale filosofo, storico e museologo gesuita tedesco, Atanasius Kircher compiva i suoi studi sul dispositivo rilevando nelle contrazioni muscolari l'origine del suo movimento (La magia della lampada magica o la dimostrazione analogica e la visione dell'invisibile, 1660–1700), il suo nuovo aiutante, il teologo e scienziato gesuita Kaspar Schott (Gaspare Schotto), completava la sua più controversa opera.

Due anni gli erano stati necessari per redigere il poderoso «Magia universalis naturae et artis, sive recondita naturalium et artificialium rerum scientia», ma finalmente aveva raggiunto il suo scopo: dichiarare, oltre ogni ragionevole dubbio, la verga del rabdomante uno strumento del diavolo, controllato dal diavolo e perciò il diavolo stesso!

Se la sua speranza era quella di farne decadere l'uso, si sbagliava. L'attacco frontale non fece che accrescere l'interesse verso la forcella di nocciolo e costrinse la Chiesa a farla rientrare sotto la sua giurisdizione. Inavvertitamente, cercando di distruggerla, l'aveva appena resa l'arma finale dell'Inquisizione contro i nemici della Religione. Tenuta tra le mani, la forcella, quando il rabdomante passava sopra l'acqua corrente, prendeva a contorcersi e si sollevava impettita verso l'alto, poiché «aveva riconosciuto sé stessa». Poiché essa era il diavolo, puntata contro chi era «posseduto» dal diavolo, ne portava i segni o con il demonio era in combutta, si comportava allo stesso modo: si riconosceva e pertanto di sollevava!

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Pedro Berruguete, San Domenico presiede a un autodafè, 1495 (da Wikipedia)

Ora, per meglio comprendere quale servizio rendeva e ancor più avrebbe reso, bisognerebbe ragionare bene sul senso e significato del suo nome: «verga»... e immaginare per un istante almeno i fedeli persecutori dei nemici della Chiesa quando accorrevano, destati da qualche denuncia e scrutavano le accusate, brandendo il loro bel bastone, per assicurarsi della loro colpa. Le trapassavano con lo sguardo cercando ogni dettaglio e intanto facendo bene attenzione ai movimenti della loro «verga». Quando scattava e s'addrizzava all'improvviso come un dito puntato al cielo, il sospetto diventava certezza: «Strega! Meretrice! Accolita di Satana!».

Altrettanto accadeva probabilmente nei tenebrosi processi in cui gli inquisitori sedevano sugli alti scranni, dietro spaventosi tavoli, con la «verga» tra le mani, in attesa di sentirla contorcere a conferma delle loro accuse.

Sono gli stessi storici ed esperti del fenomeno ad aver più volte sottolineato come, non a caso, a dispetto dei terrificanti racconti e delle descrizioni grottesche contenute nei documenti, le cosiddette streghe fossero in realtà dotate, agli occhi degli inquisitori di una certa «peccaminosa» concupiscenza, perfino bellezza...

Le malcapitate potevano solo pregare che la loro avvenenza non attirasse verso di loro l'interesse dell'instrumentum... chissà che le leggende sul loro aspetto terrificante non nascondessero l'intento di disgustare di proposito i loro aguzzini affinché la verga non si muovesse...

La perversione, frustrazione e follia interiore e corporale degli inquisitori aveva finalmente trovato, grazie a Kaspar Schott, una forma esteriore e oggettiva, quella della forcella da rabdomante, in cui incarnarsi, alleggerendo le loro cupe coscienze. La meravigliosa virgula divina, con le sue mirabolanti proprietà veniva così immolata all'altare della bieca vanità umana.

Il diavolo riconosceva sé stesso e il diavolo firmava di proprio pugno la sua condanna. Confessioni e torture concluse dalla purificazione sul rogo, non erano che il doloroso procedimento con cui il male già riconosciuto, la colpa, veniva estirpata estratta e sradicata dal corpo che la conteneva, un vero e propri «atto esorcistico» in piena regola.

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Stemma dell'Inquisizione (da Wikipedia)

Rimaneva solo una questione assai spinosa... come si poteva maneggiare il diavolo senza rimanerne lordati? L'autorità di cui gli uomini di Dio erano investiti non bastava di certo: un uomo è pur sempre e solo un uomo. Bisognava in qualche modo «battezzarla». E affinché il Battesimo fosse efficace, si risolse che la «verga» andava «messa a dormire insieme a un fanciullo appena battezzato, del quale avrebbe preso lo stesso nome »... con tutti i sensi singoli, doppi e tripli che vi si possano rintracciare e che mostrano come l'uomo non sia cambiato mai, né mai forse cambierà.

Dunque, la «verga» diabolica, nelle mani prudenti e autorevoli di un prelato, dopo essere stata attentamente sacralizzata nel giaciglio di un fanciullo appena battezzato, diventava come d'incanto uno strumento della fede e un vero e reale «martello» (Malleus ) delle streghe, come quello teorizzato nel 1487 da Kramer e Sprenger.

La fama della forcella del rabdomante crebbe, come quella della verga inquisitoria, a dismisura. Mattheus Willenius nel 1671, scrivendo un trattato sul Bastone di Mercurio ne prende le difese. Poco dopo Jacques Le Royer sostiene che il materiale di cui è fatta incida poco sul risultato. Dechales, prete gesuita, nel 1674 (De Fontis Naturalibus) esprime meraviglia per il mistero grazie al quale il movimento della verga è possibile e per i risultati cui porta. L'anno seguente, invece, un medico, J.C. Fromman, la ridicolizza pubblicamente. Un suo collega, G. B. De Saint Romain, nove anni più tardi cerca di spiegarne il movimento come il risultato di emanazioni provenienti dai minerali e dai flussi di acqua sotterranei.

Il dibattito non accenna a placarsi, anzi, esplode letteralmente nel 1692, quando il mondo conosce le prodezze del rabdomante francese Jacques Aymar-Vernay. Secondo le cronache alle 10 del mattino del 5 luglio di quell'anno, alcuni ladri erano entrati in un bottega di vini a Lione, avevano brutalmente ucciso il proprietario, Antoine Boubon Savetier e la moglie ed erano fuggiti con un bottino ingente.

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Jacques Aymar (da Wikipedia)

La polizia brancolò nel buio per diverse settimane finché, incapace di risolvere il mistero, fu indirizzata da un rappresentante di vino originario del Delfinato, sentito come testimone, ad un certo Aymar, cercatore d'acqua di professione, noto per aver già risolto alcuni casi nel nord della Francia. I suoi successi erano cominciati anni prima quando, dopo aver individuato il punto adatto per scavare un pozzo, i manovali, prima di raggiungere la falda si erano imbattuti in una botte contenente il cadavere di una donna scomparsa da almeno quattro mesi. Al collo portava ancora il laccio con cui era stata strangolata. Aymar, ottenuto il laccio, lo aveva portato con sé e tenendolo fra le mani insieme alla sua forcella, aveva riconosciuto, grazie all'unico movimento del dispositivo, il vedovo della donna quale colpevole.

Il capo della polizia lionese, non pago della sua fama, prima di assoldarlo, aveva comunque deciso di metterlo alla prova. Dopo aver sepolto l'arma recuperata sulla scena del delitto, una roncola, insieme ad altre due armi in un campo fuori città, aveva chiesto al rabdomante di trovarla. Stupito ma ancora non soddisfatto del risultato positivo, aveva preteso poi che Aymar riconoscesse quale delle tre era l'arma usata per l'omicidio. Di fronte alla risposta esatta, infine, si era convinto a servirsi delle sue capacità.

Dopo una breve ispezione alla bottega, Aymar aveva immediatamente condotto i poliziotti nelle prigioni della vicina Beaucaire, dove era appena stato rinchiuso per un piccolo furto un ragazzotto diciannovenne di Tolone. La sua vistosa gobba era il particolare che il rabdomante aveva dedotto dal luogo del delitto e che lo aveva condotto fin lì. Portato a Lione e messo alle strette, Joseph Arnoul aveva confessato e fatto i nomi dei due complici, Thomas e Andre Pese altrettanto di Tolone.

La polizia locale aveva fatto sapere che erano stati visti l'ultima volta imbarcarsi su una nave presso il porto della città. Aymar li cercò lungo tutta la costa. Si fermò soltanto quando divenne chiaro che i due malviventi avevano già raggiunto Genova e la polizia lionese non aveva l'autorità per proseguire fin lì le indagini.

Il processo andava comunque fatto. Il gobbo, unico imputato, fu dunque riconosciuto colpevole del duplice omicidio, nonostante le proteste di Aymar, secondo il quale non lui ma i suoi complici erano stati gli esecutori materiali. La pena capitale fu eseguita il 30 Agosto 1692. Joseph Arnoul fu l'ultimo uomo della storia a perire subendo il supplizio della ruota.

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Supplizio della ruota (da Wikipedia)

La vicenda in ogni caso, aveva fatto conoscere la rabdomanzia e il poter della verga al mondo.

Per un incredibile coincidenza, era accaduto proprio in quella medesima Provenza in cui l'Inquisizione ne faceva uso, più che in ogni altro luogo, per i propri scopi.

Se si fosse saputo che lo strumento del demonio, osteggiato e additato come il male personificato, era in realtà il «migliore amico» dei cacciatori di streghe, la chiesa avrebbe rischiato uno dei più grandi scandali di tutti i tempi. Per di più, il teologo Pierre le Lorrain, Abbé de Vallemont, entusiasta delle gesta di Aymar, si era gettato a capofitto nella stesura del trattato La Physique occulte , a difesa di quello strumento, pubblicato poi nel 1696.

Non si poteva più rimandare. Nel 1703 dunque, la Santa Inquisizione, tra i mille decreti che promulga, ne pubblica uno appositamente per vietare l'utilizzo della verga da rabdomante nei processi. Il «demonio» viene ricacciato sotto le tonache dalle quali era venuto. Nel giro di pochi anni, la caccia alle streghe si ferma.

 


BIBLIOGRAFIA:

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Ellis, Arthur Jackson, The Divining Rod: A History of Water Witching, with a Bibliography, Harvard University, Cambridge, 1917

Eve, Arthur Stewart e Keys, David Arnold, Applied geophysics in the search for minerals , Oxford University Press, Oxford, 1954

Fiddick, Thomas J.P., Dowsing : with an Account of Some Original Experiments, Camborne printing & stationery Company, Camborne, 1913

Garnier, Pierre, Histoire de la baguette de Jacques Aimar; pour faire toutes sortes de dècouvertes, Chez J.-B. Langlois, Paris, 1693

Givry, Gillot, A pictorial anthology of witchcraft, magic & alchemy, Ballantyne, London: Spottiswoode, 1931

Latimer, Charles, The divining rod: virgula divina-baculus divinatorius (water-witching), Fairbanks, Benedict & Co., Cleveland, 1876

Martino, Federico, Il volo notturno delle streghe, La città del sole, Napoli, 2011

Mereu, Italo, Storia dell’intolleranza in Europa, Bompiani, Milano, 1979


"Inquisitio Veritatis" è disponibile in formato PDF su AcademiaLogoWeb


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