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Sul versante alpino francese sud-occidentale, bagnato dalle placide acque della Durance, c’è ancora un enigma che resiste al tempo e agli uomini. In una stretta valle, una “pietra scritta” di epoca gallo-romana, incisa in un enorme masso che domina il corso tortuoso del torrente Riou, è l’unica testimonianza certa dell’esistenza di un “locus” leggendario chiamato Theopoli, scomparso dalla memoria e mai più ritrovato.

Il testo celebra l’impresa del prefetto gallo-romano Claudius Postumus Dardanus, che, fra il IV e il V sec., fece aprire, tagliandola nella viva roccia, la nuova e più agevole strada per raggiungere l’odierna piana di Saint Geniez, prima accessibile soltanto risalendo il difficile e assai più lungo percorso attraverso la valle di Vançon. Composta in parole semplici, l’iscrizione non ha ancora svelato tutti i suoi segreti, primo fra tutti l’assenza di riferimenti cronologici, inusuale soprattutto in epoca romana. Diciassette foglie di edera, pianta sacra a Dioniso come la vite, intervallano la scrittura e la valenza anche funeraria di questo rampicante potrebbe suggerire che sia stata incisa dopo la morte del potente condottiero, in suo onore e memoria.

Nascondono, come un codice, in bella vista un messaggio comprensibile solo ai meritevoli.

Dardanus è un personaggio storico conosciuto e misterioso insieme. Prefetto di tutte le Gallie, immenso territorio che comprendeva anche la Spagna e la Bretagna, era stato inviato in Provenza dall’Africa per contrastare la calata dei Vandali e poi dei Visigoti.

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Di origini modeste - aveva cominciato la propria carriera come “advocatus” - portava il nome del mitico tiranno di Troia, figlio di Zeus e della regione di Dardania, raramente in uso e soltanto in Africa e in area ellenica. Nella “pietra scritta” viene poi celebrato come “vir inlustris” e la moglie Nevia Galla, nella stessa iscrizione, come “clarissima et inlustre”, titoli che indicano l’appartenenza di entrambi all’aristocrazia senatoriale più potente della loro epoca.

Forse tra le due campagne prefetturali di cui fu investito (401/404 d.C. o 406/407 d.C e 412/413 d.C.), Dardanus, nonostante avesse eletto Arles a capitale dei propri domini, decise di riparare con 40.000 soldati e legionari sul remoto pianoro sorvegliato dal picco di Dromon, cinquecento metri più in alto della valle della Durance e qui, dopo aver costruito strade e mura turrite, si sarebbe insediato.

A questo punto comincia il mistero di Theopoli.

Si pensa che il condottiero avesse scelto quel luogo, così appartato, strategico (qui si “riunivano” molte strade di valico delle Alpi e di discesa verso il mare) e facilmente difendibile, in seguito alla conversione al Cristianesimo, che ben conosceva poiché era grande amico di Sant’Agostino e interlocutore privilegiato di San Girolamo, con i quali avrebbe intrattenuto per tutta la vita fitte relazioni anche epistolari: soltanto due preziose lettere si sono conservate, quella del 417 scritta dal santo di Ippona e quella del 414 del santo di Stridone, entrambe a lui indirizzate.

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La sua magione potrebbe essere sorta non a Chardavon, alle porte del plateau (dove si sarebbero insediati almeno dal XI sec. alcuni monaci agostiniani) ma presso l’attuale Saint Geniez, piccolo paese che conta soltanto 98 abitanti. Saint Genièz-Genesus, mediorientale come l’illustre prefetto delle Gallie, era infatti uno dei martiri più venerati della Gallia meridionale tra il IV e il V secolo. I suoi resti erano sepolti proprio ad Arles e si ritiene che il condottiero possa averne portata una parte fin sul plateau di Dromon, per custodirle nella cappella costruita presso la sua dimora.

Il luogo prescelto si chiamava “Theopoli”, nome riscontrato storicamente soltanto una volta, con la “s” finale e almeno un secolo più tardi, in relazione ad Antiochia di Siria. Distrutta da terremoti e invasioni, come racconta lo storico Malalas, la città era stata ricostruita nel 528 da Giustiniano I con il nuovo nome di “città degli dei” su consiglio di San Simeone Taumaturgo, ma l’aveva conservato per poco tempo. Con l’arrivo degli arabi sarebbe stata ribattezzata Antakiya.

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“Theopoli”, invece, non avendo la “s” terminale non può essere un nome riconducibile alla lingua greca e quindi neppure agli scritti di Sant’Agostino. Anzi, il termine “locus” presente nella “pietra scritta” e la perifrasi “locus cui nomen theopoli est” indicano senza dubbio un luogo di culto (la Basilica di Betlemme con la Grotta della Natività ad esempio era detta “locus Betlehem”), la tomba di un santo martire o il centro religioso di un “pagus” (villaggio rurale). “Theopoli” era quindi, come sostenuto da molti studiosi tra cui A. Grenier e W. Seston, più verosimilmente un luogo sacro custodito in armi anziché un’installazione militare.

Ma è certo, così si desume facilmente dalla “pietra scritta”, che il luogo esistesse già prima dell’arrivo di Dardanus il quale, portandovi le reliquie del santo Genesus, l’aveva riconsacrato al dio cristiano e l’aveva trasformato in una vera e propria città turrita con mura e strade di collegamento.

È possibile che il nome originario fosse quello del picco più alto che domina il plateau a nord-est: Theous, toponimo ancora oggi esistente ma di ignota origine, forse celtica e che potrebbe appartenere a una qualche divinità o un nume tutelare. Il prefetto delle Gallie ne avrebbe fatto un neologismo, unendolo al termine greco “polis” per indicare, con un gioco di parole, in Theous-poli(s) la città presso Theous e non la “città degli dei”.

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Ma di Theopoli oggi non c’è più traccia, soltanto leggende. Una racconta di un enorme tesoro nascosto tra le montagne intorno al pianoro. Il più grande studioso di questo enigmatico luogo, Roger Correard, sostiene che il tesoro fosse il bottino dei Visigoti trafugato durante il sacco di Roma e poi affidato dai barbari a Dardanus, con il quale intrattenevano buoni rapporti. Che il tesoro sia stato sepolto insieme ad Alarico nella tomba ricavata deviando un corso d’acqua vicino a Cosenza è infatti leggenda, così come è improbabile che possa aver raggiunto Rennes-le-Chateau dove lo cercavano i nazisti.

Fu proprio grazie al prefetto Dardanus che il re visigoto Atatulfo, appena succeduto al cognato Alarico, giunto con le sue truppe in Gallia accettò la sottomissione all’imperatore Onofrio, anziché all’usurpatore Giovino. Mentre la rivolta veniva sedata, i Visigoti furono arruolati per combattere i Vandali e gli Alani che stavano invadendo la Spagna e forse fu in quest’occasione che il tesoro venne affidato a Dardanus e nascosto a Theopoli. Ma Ataulfo morì in battaglia, i Visigoti non tornarono in Provenza e il tesoro non fu mai riscattato.

Intanto, alleati dell’imperatore fantoccio Giovino erano i Burgundi, tribù di origini visigote il cui re Gundicaro stabilì di accompagnare l’usurpatore fino alla Gallia del Sud (Provenza) dove si auto-nominò re delle Gallie. Avendo a loro volta accettato la sottomissione al legittimo reggente Onorio, avrebbero ricevuto, come terra in cui insediarsi, la Savoia.

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Gundicaro, Gundikar fu il primo re burgundo a fregiarsi del titolo di Nibelungo. È infatti il Gunther della saga dei Nibelunghi, che risale proprio al IV-V secolo ma non sia sa dove ne come sia stata composta. Può essere il tesoro custodito da Dardanus quello favoloso di cui Gunther, nella saga era entrato in possesso dopo aver ucciso Sigfrido?

Certo è che Theopoli non era stata inizialmente scelta per custodire il tesoro, bensì per altri scopi misteriosi e ormai dimenticati. Se qualche traccia rimane forse può essere rinvenuta nel luogo sacro che ancora esiste ai margini del pianoro, proprio sotto il picco.

La cappella di Notre Dame du Dromon è un semplice oratorio seicentesco con grezzi muri di pietra e malta bruna. La struttura non colpisce l’occhio, ma da sempre il luogo è profondamente venerato, come testimoniano le numerose lastre graffite inserite nella muratura esterna, ex voto dei fedeli che furono benedetti dall’intercessione della Vergine.

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I veri tesori sono all’interno. Nell’annesso settentrionale sono ancora visibili i resti di un pozzo cerimoniale lastricato, che richiama quello ben più famoso di Chartres. Si racconta che i lavori di sterro per ripristinarlo si siano interrotti dopo che la terra, in quel punto, presa a picconate, si era messa a tremare.

L’interno essenziale della chiesa, a navata unica con abside, mostra ancora le tracce di un’intonacatura artigianale. La cappella annessa sul lato meridionale è spoglia e l’altare ligneo è ormai in rovina, ma la roccia su cui è costruito il luogo affiora in più punti fino a un metro di altezza come se non ci fosse differenza fra la terra e l’edificio costruito dall’uomo. Alcune linee parallele graffite potrebbero essere atti di venerazione prodotti in epoche remote.

Presso l’abside maggiore, c’è l’immancabile sorvegliante, un viso di stucco quasi nascosto in un angolo che ha i lineamenti insoliti di una divinità con il berretto frigio, forse Mitra o Ganimede. Osserva l’altare, con la sua pietra consacrata, che non ha le consuete cinque croci (al centro e sui quattro angoli), bensì X inserite in cerchi e ruotate in modo da indicare i punti equinoziali e solstiziali, chiaro segno di un intento di natura astronomica e astrologica.

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Ma la sorpresa più grande si trova in fondo alla scala intagliata nella roccia che scende sotto la pavimentazione. Qui, fuori asse rispetto alla cappella superiore, si apre infatti un’eccezionale cripta, nota già dal X secolo ma riempita di detriti e riscoperta soltanto nel XVII secolo, unica nel suo genere.

Non c’è un altare; al suo posto erompe invece una grande roccia sporgente, come un ventre gravido, quello della dea-terra, della Grande Madre.

La luce del sole entra ad illuminarla soltanto nei giorni del solstizio estivo, all’alba, attraverso la finestrella sul lato opposto, accuratamente orientata. Nello stesso istante l’altra finestra, laterale, inquadra perfettamente il “polo celeste”, l’Orsa Minore, con la Stella Polare.

Tre colonne romaniche reggono la volta stretta e due capitelli sono scolpiti con motivi enigmatici. Uno presenta sui quattro lati volute che si attorcigliano come fossero nodi, l’altro mostra genitali e teste di toro, spighe di grano e due pavoni.

È un luogo antico, da sempre frequentato con devozione, che è passato attraverso le dominazioni, le religioni, gli editti e le distruzioni, conservandosi miracolosamente intatto.

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Quando si scende, ci si sente come spaesati, quasi che il tempo perda significato e ci si trovi in un “altrove” che non appartiene a questo mondo. La roccia attrae ogni attenzione, come una divinità assisa sul trono. La chiamano “Pietra della fertilità”, ma è un nome che non rende merito, onore e giustizia a ciò che dimora nel silenzio di quella cripta.

La presenza, nella cappella superiore, della testina identificata con Mitra o Ganimede, per quanto molto posteriore, sembra suggerire che l’ipogeo fosse un luogo di “incubazione”, pratica non soltanto greca, mediorientale e sarda ma anche celtica che, mediante il “sonno” accanto al simulacro della divinità ancestrale, permetteva di riceverne guarigione e messaggi. L’antica grotta potrebbe dunque essere un santuario druidico diventato poi un antro mitraico dove i numerosi legionari del contingente potevano praticare il loro culto.

La cripta di Dromon ha resistito ai millenni. Nonostante l’editto di Teodosio (380 d.C.) e i successivi decreti, che vietavano qualunque forma di culto e perfino l’accesso ai templi pagani, è rimasta gelosamente custodita dai picchi che sovrastano il plateau. Ha attratto fondazioni monastiche e una chiesa è stata eretta su di essa affinché il culto di questo luogo potesse continuare. Tra i suoi muri e ai piedi della roccia sacra ancora dorme il suo sonno il mistero di Dardanus e di Theopoli.

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BIBLIOGRAFIA

Roger Correard, Théopolis. Gite Secret Du Lion, Arqa, 200

Aa. Vv., Bulletin de la Société d'études des Hautes-Alpes, Société d'études des Hautes-Alpes, Gap, 1943


 

Pubblicato in Europa
Martedì, 23 Giugno 2015 11:06

Audesia e lo stregone

Nella penombra degli archi e delle volte intonacati ma cadenti, quando la prima lama di luce s'infila nel vano appena schiuso del portoncino d'ingresso, vescovi e madonne sgranano gli antichi occhi affrescati. Finalmente un raggio di sole buca la polverina sottile sospesa nell'aria, finalmente qualcuno si è ricordato di loro.

L'ultima frequentazione è di non più di due decenni fa. Poi di nuovo l'oblio. Si decise di scavare nel pavimento di San Lorenzo e quel che ne venne fuori... Ci si affrettò a sostenere e celebrare la fondatezza della leggenda, quella del diacono cristianizzatore che, insieme al fratello, poi approdato all'Isola di Orta, aveva rovesciato le are degli Agoni, sostituendole con gli altari del dio cattolico.

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Ma su come davvero la Religione si fosse diffusa tra i pagani ai piedi dei laghi alto-piemontesi, mancavano -e in parte mancano- studi efficaci. Quanto agli scavi autunnali del lontano 1996, sono stati dati alle stampe soltanto resoconti tecnici. Una ricerca che, finalmente, ritessendo coraggiosamente i fili della storia, accordi le informazioni, le storie e le leggende, ancora tarda a nascere.

Di certo c'é che, tra il settembre e il dicembre di quell'anno, molte sorprese vennero fuori dal pavimento della malconcia chiesa dedicata al martire Lorenzo. Si sapeva, così narrano le cronache, che l'aveva fondata un missionario giunto da Egina nel V sec. circa. Giuliano, poi, si era costruito al suo interno -o lì accanto- una tomba per sé.

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Le reliquie vi rimasero per alcuni secoli finché, in data ignota, furono tolte da quel sepolcro -si presume per proteggerle dagli invasori longobardi- e nascoste nella nuova Basilica del paese.

Di recente resti del castrum antico, di vetusti selciati e di vecchie cripte colme di ossa sono comparsi inavvertitamente nel corso di lavori di manutenzione sul colle che domina il paese. Avrebbero potuto “colmare molti vuoti” se non fossero stati frettolosamente ricoperti e riconsegnati all'oblio e al silenzio per colpa del solito, immancabile disinteresse e fastidio per le nostre origini, mascherato da “mancanza di fondi”.

Della presunta “traslazione” conosciamo solo il giorno, 24 Ottobre, come racconta il Diploma del 919 di Berengario I, che concede di organizzare in tale giornata una fiera annuale in onore del “santo” a Gozzano. All'epoca, come testimonia lo stesso documento, i resti del missionario si trovavano già da qualche parte nella chiesa pievana del paese.

Ma sarebbero venute alla luce quasi miracolosamente, poiché il punto esatto in cui furono inizialmente sepolte non è tutt'oggi noto, molto più tardi, poco prima della costruzione della cripta in cui sono ancora esposte.

Di chi sono davvero quelle ossa? Gli scavi a San Lorenzo avrebbero dovuto rispondere affermativamente a quella semplice domanda. Invece, hanno sollevato, insieme alle lapidi e a tre diversi pavimenti, una gran quantità di domande.

 

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Sulla tomba primitiva di Giuliano sorsero almeno quattro edifici. La pavimentazione di quella attuale copre un intero cimitero che la occupa tutta. Voci non confermate, relative a saggi effettuati all'esterno, insinuano che l'area sepolcrale si estendesse ben oltre la prima chiesa, che vi fu poi costruita al di sopra.

Molte delle fosse, si è infatti scoperto, furono ricavate riutilizzando materiali provenienti da sepolture precedenti... precedenti al Cristianesimo. La lapide utilizzata come copertura di una di queste, la cui dedica si riferisce a una dea pagana, è ancora prudentemente conservata in qualche buio magazzino torinese.

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Autesai.kar/nitus.Petua [...]” recita il fregio, che sovrasta una ruota a quattro raggi e un simbolo composto da due semicerchi vicendevolmente tangenti, molto simili a certe figurazioni rupestri.

ad Autesa eressero Petua [...]”: è la dedica di una donna, Petua -forse insieme ad altre- a una dea, come anche i simboli suggerirebbero, il cui nome è Autesa, non di certo un nome di luogo, anche se richiama da vicino denominazioni come Autessiodurum o Auxerre.

L'unico altro indizio appartiene a millenni più tardi e precisamente al 1612. È una notizia da fonte non confermata, riportata dal Bascapé nella sua “ Novaria seu de ecclesia Novariensi”, secondo cui quella chiesa era inizialmente dedicata non a San Lorenzo e neppure a San Giuliano, bensì a Maria.

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Curiosamente, in effetti, il primo dedicatario noto, Lorenzo, viene festeggiato il 10 agosto, pochissimi giorni prima della festa dell'Assunta, della Vergine. Che questo fosse all'inizio un “luogo della terra”, successivamente romanizzato (come lasciano supporre diversi reperti ritrovati nelle tombe) ed infine cristianizzato?

Sotto al cenotafio che la tradizione racconta essere il sepolcro del “diacono”, è stata trovata una fossa voltata ben costruita. Altre due la fiancheggiano disponendosi come raggi intorno al perimetro esterno di una struttura semicircolare che non racchiude un altare.

 L'identificazione dell'insieme come un “synthronon” bizantino (i primi esempi sono quelli della post-teodoriana nord di Aquileia e della pre-eufrasiana sud di Parenzo), una sorta di gradinata semicircolare di pietra su cui sedevano i prelati, è un tentativo che lascia aperti numerosi dubbi. Il “synthronon” era concepito per privilegio e auto-celebrazione dei vivi, la strana struttura sotto San Lorenzo pare invece una conseguenza delle sepolture sulla parte convessa.

 

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Le tre tombe, pressoché coeve -del resto sono le più antiche- esistevano già prima della primitiva chiesa e i suoi occupanti erano semplici riutilizzatori delle fosse già presenti, come testimoniano le cassettine ritrovate in almeno due delle tre. I resti nelle cassette dovevano essere così importanti, che non erano stati tolti dalle fosse e sepolti altrove per far posto ai nuovi corpi, ma erano stati radunati e lasciati al loro posto.

Quando poi la prima chiesa fu costruita al di sopra di questo insieme, l'abside fu impostata in modo da inglobare le tombe, ma erano già così antiche che, non essendone visibili le parti terminali, l'emiciclo finì sovrapposto ai piedi degli occupanti di quelle laterali.

Il particolare “emiciclo”, inoltre, diversamente da un syntronon è chiuso sul fronte da un muro, in cui però si aprono ben due probabili ingressi, come lascia supporre la traccia di pavimentazione. Esternamente, in linea con il muro di chiusura, sono ancora visibili sui due lati le basi di due colonne o pilastri o forse basamenti, che sembrano una sorta di “guardiani” dell'insieme.

C'é poi una certa somiglianza tra questa struttura e il “sacellum” romano, oppure con i monumenti sardi detti “Tombe di giganti”. Ufficialmente vengono ritenuti tombe collettive. Ma la quantità di corpi ritrovati, per quanto abbondante, non suffraga appieno l'ipotesi che si trattasse di sepolcreti comunitari. Piuttosto, erano categorie specifiche di persone a essere seppellite, a più riprese, al loro interno.

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Nella loro struttura simbolica, che sarà poi ripresa anche dal Cristianesimo, il grande emiciclo frontale delle “tombe” è la volta celeste, mentre i “sacerdoti” venivano tumulati nel lungo tunnel retrostante, “oltre il cielo”. Forse è lo stesso tunnel in cui dicono di trovarsi coloro che sperimentano gli stati di “pre-morte”. I “sepolti” erano così un medium, un tramite continuo tra il mondi dei vivi e quello dei morti.

A San Lorenzo le tre tombe si trovano altrettanto “oltre il cielo”. I corpi inoltre avevano la testa appoggiata su un “cuscino” ricavato da una pietra e orientato a est. Si ritiene che questo fosse un “privilegio” sacerdotale, ecclesiastico. Anche oggi, la cassa con il morto, in chiesa, viene per lo più posizionata con i piedi verso l'altare, che di solito si trova ad est. Il cielo, con il trapasso, diventa infatti la “nuova terra” su cui il defunto poserà i piedi.

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Il “gigante” in senso spirituale, nelle “tombe” sarde e in San Lorenzo, fu invece posto con il capo e con il cuore nell'alto dei cieli, ma con i piedi ancora saldi su questa terra, cosicché potesse continuare a “benedire” i “fedeli” raccolti nell'emiciclo, esercitando le proprie “virtù” anche dopo la morte.

Le “legendae” in effetti, magnificano le capacità taumaturgiche del diacono gozzanese e del “fratello”, che vengono definiti “grandi medici”. Ma, curiosamente, il biografo non spende parole sui prodigi operati. Certo, sarebbe stato difficile attribuire a un solo individuo le guarigioni operate dalla terra stessa attraverso un “collegio” di sacerdoti pagani morti, gli stregoni della dea Audesia...

Ma potrei anche sbagliarmi.

 

 

 


BIBLIOGRAFIA

 

Aa. Vv., Novara e la sua storia nel secoli XI e XII, Novara, 1980

Aa. Vv., Gozzano nella memoria di San Giuliano e nella storia degli uomini, Parrocchia di Gozzano, 1982

Aa. Vv., VI centenario della traslazione del corpo di S. Giuliano patrono di Gozzano, Parrocchia di Gozzano, 1961

L. Pejrani Baricco, Edifici paleocristiani nella diocesi di Novara: un aggiornamento, in cantino Wataghin et al., 1999

L. Pejrani Baricco, Chiese e insediamenti tra V e VI secolo: Italia settentrionale, Gallia meridionale e Hispania, in Brogiolo 2003

M. Perotti, La “legenda” dei santi Giulio e Giuliano e gli inizi del Cristianesimo nel territorio novarese, in Novarien 19, 1989

 


 

Pubblicato in Italia
Mercoledì, 01 Ottobre 2014 14:13

I due re che fecero universi gemelli nella pietra

Questa è la storia di un re decaduto, di una montagna sacra e dalla nascita del più grande impero indocinese. E' la storia di re Devanika, sovrano di Funan, spodestato dalle bellicose tribù venute dal nord.

Nulla gli rimaneva se non le visioni del rishi Vaktrashiva, secondo il quale avrebbe dovuto lasciare la celeste città di My-Son, per cercare la montagna sacra di Shiva Briadeshwara, uno dei 68 lingam naturali di Shiva e qui edificare un nuovo tempio e una nuova città. Allo spuntare della luce dorata di un'alba del V secolo a.C. Devanika partì, dunque, portando con sé il fido Khammata, l'architetto reale.

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Camminarono per settimane, forse mesi. Poi un giorno Devanika, mentre rimuginava seduto sulla riva del grande fiume madre-di-tutte-le-acque, finalmente lo vide. Lingaparvata si ergeva dalla pianura, fiero e maestoso proprio davanti a lui. Era giunto nella nuova terra sacra, la novella Kurukshetra, gemella identica della piana in cui si erano combattute le battaglie del Mahabarata.

 

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Costruì un lago in cui i pellegrini che sarebbero giunti potevano immergersi per uscirne benedetti e ordinò a Khammata di erigere un tempio a Shiva sulla montagna. Tra il fiume e la piana sorse presto la capitale del nuovo regno, Shresthapura. La benevolenza del dio avrebbe vegliato su Devanika e sui suoi successori.

Quattrocento anni più tardi, l'ultimo re di Shresthapura e discendente di Devanika, Jayavarman II, al termine dell'unificazione di tutti i piccoli regni indocinesi, avrebbe costruito un nuovo tempio e fondato ufficialmente il grande impero Khmer iniziando la costruzione della nuova grande città sacra di Angkor.

 

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Il passaggio dal mito alla storia è una stele rinvenuta sulle rive del Mekong nell'odierno Laos, in cui il re mitico Devanika racconta di proprio pugno la vicenda di come giunse nel luogo in cui regnava Shiva vivente. Poi, nel 1998, una scoperta tutta italiana ha definitivamente risolto l'enigma. A poca distanza dalla stele, sulla cima del Phu Kao, che domina dall'alto dei suoi 1416 metri la regione di Champassak, nel Laos meridionale e sulle cui pendici Henry Parmentier aveva scoperto un grandioso tempio pre-angkoriano a inizio '900, una spedizione italiana ha trovato la prova dell'esistenza di un sacrario dedicato proprio a Shiva: le fondamenta di un piccolo tempio e poco più in basso, i resti di un altare e di un lingam.

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Qui, dunque, dove il corso del Mekong è più largo, nella fertile pianura del Bassac, è nato l'impero Khmer, alle pendici del Lingaparvata, il Ling Kia Po P'o della cinese "Storia dei Sui" (VI secolo d.C.) sulla cui cima si ergeva un tempio dedicato al dio P'o To Li, custodito da mille soldati e dove una volta all'anno durante il plenilunio, il re in persona sacrificava una vittima al signore della montagna.

Della prima capitale e della sua leggendaria gemella Lingapura, acclamata in molte fonti antiche come ricca e prospera città di commercio, solo ora individuata come buona certezza, rimangono soltanto pochi resti. Ma esiste ancora lo splendido complesso templare progettato e costruito forse già da Khammata, sulle pendici del dio montagna.

 

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Wat Phou Champassak è un universo nella pietra. È concepito come una grandiosa via, una strada in leggera salita lunga più di un chilometro e mezzo che punta decisamente a ovest, preceduta da due file, una di di tre e l'altra di due, ciclopici baray (bacini artificiali). L'unico che oggi ancora contiene acqua misura 200 metri di larghezza per 600 di lunghezza. Se il Phu Kao-Lingaparvata simboleggiava il Monte Meru che si levava dalla pianura di Kurukshetra, i bacini riproducevano gli oceani che si estendevano alle sue pendici. Pare che un canale artificiale (non più esistente) deviato dal Mekong consentisse al re di raggiungere il baray centrale a bordo di un'imbarcazione cerimoniale.

 

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Una terrazza a gradoni, ancora visibile, posta oltre il bacino, era un tempo il basamento del primo gopuram, l'accesso principale del tempio, oltre il quale iniziava il lungo viale rettilineo delimitato da due lunghe file di pilastrini in forma di lingam.

Il viale termina ai piedi di due complessi gemelli di cortili vagamente simili a chiostri, in cui si aprono portali splendidamente scolpiti. Lo scopo delle due strutture, arbitrariamente definite “casa degli uomini” e “casa delle donne” è tutt'ora oggetto di dibattito.

 

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Da ciascuna, una galleria coperta conduceva all'inizio del percorso in salita. Il numero sette diventa dominante. Sei più la sommità sono i livelli intervallati da quattro scalinate e portali, sette sono le rampe per ogni scalinata e sette i gradini di ogni rampa. Naga dalle infinite spire si snodano sui muri che delimitano il percorso ed elevano le loro sette teste in fondo alle balaustre. Altri serpenti si fronteggiano scolpiti nei gradini e nelle soglie di ogni livello, ai piedi di quelli che, molti secoli fa erano poderosi gopuram.

 

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Oltre la seconda scala si ergevano i due Dvarapala (colui che apre/sorveglia la porta) armati, uno per lato. L'unico esistente, ancora adorato come buddha, sembra sia stato modellato sulle fattezze dell'architetto reale Khammata, ideatore del tempio.

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Finalmente il camminamento processionale raggiunge la collina. Sette terrazze che emergono dalla terra come un muro invalicabile sono l'ultimo ostacolo al raggiungimento della sommità del tempio. Bisogna di nuovo affrontare una scalinata a sette rampe di sette ripidi scalini.

 

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E infine, ecco il santuario inaccessibile di Shiva, con il vestibolo che precede il sacrario e le porte aperte su tre lati in direzione dei punti cardinali, sormontate dai Dikpala, i loro rappresentanti e guardiani. Qui nella porta principale si infila il sole dell'equinozio che sorge a Est. Oggi illumina una statua del buddha ma una volta percorreva tutto il vestibolo per raggiungere il lingam sacro e nutrirlo con il miele del cielo.

 

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Intanto, l'acqua prelevata dalla sorgente che si trova 60 metri sud-ovest del complesso e incanalata in un sistema di canalizzazione e distribuzione unico al mondo, passando per numerose fontane e per la sacra Trimurti delle forze del cosmo, irrorava continuamente e il lingam, nutrendolo con il latte della terra.

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Poi, il liquido vivificato dalla luce si raccoglieva probabilmente in una vasca, dalla quale solo il re poteva bere. L'essenza della regalità, l'Io impalpabile del sovrano, era infatti posta nel lingam, simbolo della potenza creatrice di Shiva.

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Alla stessa fonte di latte e miele si sarebbe abbeverato quattrocento anni più tardi l'ultimo discendente di Devanika, incoronato re da queste acque luminose con il nome di Jayavarman II. Cresciuto alla corte dei sovrani Saliendra di Giava, non si sa se come schiavo o per ricevere adeguata istruzione, vide la costruzione dello spettacolare Borobodur, il primo tempio-montagna eretto per celebrare il culto del deva-raja, re-dio.

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Tornato infine in patria come vassallo, ben presto si impose sui signori locali e la sua influenza aumentò. Poi, un giorno, com'era stato per Devanika, una visione lo rese re. Il messaggio giunse in sogno ad un suo figlio, forse lo stesso che gli sarebbe succeduto come Yasovarman I o l'altro che si dice abbia regnato per breve tempo come Jayavarman III. Il luogo che aveva visto nel suo viaggio onirico, un picco circondato da cinque montagne, era quello su cui avrebbe dovuto sorgere un nuovo tempio dedicato a Shiva Nataraja, il danzatore cosmico.

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Cercò senza sosta. Finché lo riconobbe. Era là, tra i Monti Dangrek. Era come nel sogno. Lo fece uguale all'antico tempio, più a settentrione, dove i Khmer erano nati, Wat Phou. Stabilì con precisione da dove giungeva il sole dell'equinozio e fece fare una galleria perché il signore del cielo vi si accomodasse.

Ma ruotò l'asse principale del tempio, chiamato Prasat Preah Vihear, “Castello della dimora Celeste”, quasi esattamente a Nord e su di esso fu posto un lungo viale lastricato con cinque gopuram. Poi, come ricorda una stele trovata nei dintorni, una “pietra” sacra, forse un lingam, fu portata da Wat Phou al nuovo tempio. Così Jayavarman II poté finalmente celebrare "un rito tramite il quale la Cambogia non fosse più dipendente da Giava e che non ci fosse nel regno che un solo re che ne era l' unico sovrano", diventando in questo luogo di potere il sovrano universale, il Chakravatin, “colui le cui ruote si muovono”.

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Intanto non molto lontano, nasceva la nuova capitale del regno Khmer, Hariharalaya. Il suo complesso di templi sarebbe poi diventato l'area sacra di Angkor. Ma per lungo tempo le origini non sarebbero state dimenticate. Una strada lunga 240 chilometri continuò a collegare la capitale all'antico tempio di Wat Phou, presso il piccolo santuario del Toro Nandi, passando per Nang sida e Ban Thaat. Ancora oggi i primi 30 km sono ancora disseminati di piccoli templi e santuari. Molti altri sono stati saccheggiati e distrutti dai cercatori di tesori.

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In Laos, con la venuta del buddismo theravada, ai lingam di Shiva si sono sostituiti i buddha prabang, ma il sole ancora ne bacia le sommità e l'acqua scorre sulle loro teste ad irrorarli e nutrirli.

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Cambogia e Thailandia, intanto, continuano a contendersi la sovranità, contendendosi Preah Vihear, che oggi si trova proprio sul confine tra i due stati e senza il possesso del quale nessuno dei due stati può riaffermare la propria supremazia sull'altro...

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BIBLIOGRAFIA:

 

H. Marchal, Le Temple de Vat Phou, province de Champassak, Éd. du département des Cultes du Gouvernement royal du Laos

H Parmentier, Le temple de Vat Phu, Bulletin de l’École Française d’Extrême-Orient, 14/2, 1914

Projet de Recherches en Archaeologie Lao, Vat Phu: The Ancient City, The Sanctuary, The Spring (pamphlet)

V. Roveda, Preah Vihear, River Books Guides, Bangkok, 2000

C. Higham, The Civilization of Angkor, London, 2001

L. P. Briggs, The Ancient Khmer Empire, American Philosophical Society (Philadelphia) vol. 41, 1951

 

 


 

Pubblicato in Oriente
Mercoledì, 29 Gennaio 2014 14:55

MURA POLIGONALI: quando l'uomo coglieva le stelle

 

Capita, ripescando un vecchio libro, di leggervi cose che, in precedenza, erano sfuggite perché non riconosciute oppure non comprese. Ci si torna su a volte dopo anni e a quel punto, con un poco di esperienza cristallizzata in più, si scorgono, nelle stesse parole lette molto tempo prima, nuovi e inattesi discorsi.

Il più intrigante, accurato, poetico e controverso lavoro mai fatto sulla cultura ancestrale del popolo Dogon è, ad oggi, senza dubbio quello che l'antropologo francese Marcel Griaule raccolse nel libro “Dio d'Acqua”. Protagonista è un vecchio cacciatore cieco di nome Ogotemmêli il quale, per ricambiarlo di un non del tutto chiaro favore, comincia a raccontare all'antropologo l'essenza delle tradizioni Dogon. Durante i ripetuti colloqui il saggio letteralmente “scompone il sistema del mondo”, spiegando tecnicamente e con raffinatezza impareggiabile le forze e i ritmi del divenire fin dall'inizio dei tempi.

 

Pubblicato in Riflessioni

Concludiamo l'excursus nella leggenda dei Sette di Betania con la vicenda del ritrovamento delle reliquie a loro attribuite.

Sui luoghi dove la tradizione ricordava fossero sepolti Lazzaro, le due Marie con Sara, Marta, Magdalena, Massimino e Sidonio, sorsero con i secoli piccole chiese-mausoleo. Ma le scorrerie saracene nel Mediterraneo al grido «La ilaha illa lllah» (Dio è Dio), soprattutto da che gli islamici si erano acquartierati proprio in Provenza, a Frassineto, per razziare le coste francesi e liguri nel IX secolo, avevano costretto i popoli gallici della costa a nascondere i loro santi per proteggerli. Le scarse cronache ipotizzano che fossero state traslate in gran segreto in monasteri inaccessibili o che si trovassero nei forzieri di qualche signorotto locale. Ma erano solo voci e non fecero che alimentare leggende senza fondamento. Dei possibili resti santi, insomma, si finì per perdere, almeno apparentemente, ogni traccia.

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Con questo post continuiamo a seguire le peripezie della compagnia giudaica dopo lo sbarco in Provenza.

Giunte al termine della loro esistenza, Maria Jacobè per prima, secondo la tradizione e Maria Salomè poco tempo dopo, vengono sepolte in una tomba appositamente preparata per loro nella piccola chiesa di Ratis. La fama delle loro gesta e dei miracoli che continuano a produrre anche dopo la morte cresce rapidamente. A loro si aggiunge presto Sara, sepolta "in odor di santità" accanto alle due Marie. Già nel IV secolo, il povero oratorio viene sostituito con una chiesa più grande e maestosa, dedicata alla Vergine, cui viene affiancato un monastero delle Religiose di Arles.

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Mercoledì, 10 Luglio 2013 11:41

Taj Mahal: Tomba o tempio vedico? - quarta parte

In questo ultimo post concludiamo l'indagine sul Taj Mahal e sull'ipotesi della sua origine Indù, anche con l'ausilio della radioestesia.

Analizziamo l'architettura del Taj.

Il Taj è ottagonale. La forma ottagonale è importante per l'Islam ma ha un valore speciale sorpattutto per l'induismo nell'architettura. Otto sono le direzioni astronomiche fondamentali e a ognuna presiede una “guardia”. Le altre due direzioni sono rappresentate dal basamento che indica la terra e dal pinnacolo che indica il cielo. Le dieci direzioni sono così sempre presenti nelle architetture induiste, raffigurate con forme ottagonali inserite tra basamenti e pinnacoli.

Pubblicato in Oriente
Sabato, 10 Novembre 2012 16:47

Ayn Darah, dove Ishtar lasciò le sue impronte

Situato nel nord della Siria, a circa 40 miglia a Nord-Ovest di Aleppo e a poca distanza dal confine turco, Ayn Darah (o Ain Dara) è un tempio siro-hittita, risalente al 1300 a.C. Edificato su un insediamento databile al periodo calcolitico (IV millennio a.C.) e scoperto solo nel 1955, è l'edificio di culto ritenuto più simile al tempio biblico di Salomone, percaratteristiche ed epoca di costruzione, del quale ha contribuito a svelare molti misteri e di cui è pressoché coevo.

Un esempio è quanto riporta la Bibbia in 1 Re 06:05 a proposito del fatto che il tempio di Salomone fosse circondato da strutture chiamate enigmaticamente “sela'ot”, termine tradotto con “camere laterali”. Ayn Darah rivela, in modo piuttosto convincente che tali camere laterali corrispondono al corridoio che avvolge il tempio.

 

Pubblicato in Medioriente

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