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Mercoledì, 08 Dicembre 2021 16:06

Le Mummie della Sacra

All’ingresso della Sacra di San Michele, poco prima dello Scalone dei Morti, fa bella mostra di sé la riproduzione fotografica di un vecchio acquerello, in cui sono ancora visibili le celebri “Mummie” che si affacciano ghignanti sopra lo scalone, “abbracciate” ad una grossa croce. Furono immortalate anche in alcune rare foto, allineate contro il muro e protette da una grata. Oggi riposano sotto i gradini, ma erano una presenza importante e venerata.

La più curiosa menzione relativa alle mummie è quella contenuta in uno dei volumi della fortunata collana Murray's Handbooks for Traveller, dell’editore londinese John Murray, dedicato al Nord Italia e pubblicato nel 1847: “Questa scala è sostenuta da un enorme pilastro centrale: qua e là le rocce contro le quali l'edificio è costruito, appena fuori, e porzioni di sepolcri sono vagamente visibili. In cima c'è un grande arco, pieno di cadaveri essiccati. Fino a poco tempo fa, questi cadaveri erano collocati seduti sui gradini della scala; e quando si saliva alla chiesa, si doveva passare tra le orribili file di queste sentinelle. […] Da dove venivano i cadaveri, o perché erano collocati lì, non si può sapere: rispettati, se non venerati, i contadini li vestivano e li adornavano di fiori, il che deve averli resi ancora più orribili”.

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Diverse sono le informazioni rimarchevoli che se ne deducono. Pare intanto che le mummie in origine non si trovassero negli archi che sovrastano lo Scalone, bensì sedute sui gradini ed era necessario muoversi tra di esse e aggirarle per poter salire fino al Portale dello Zodiaco.

Inoltre, erano vere e proprie reliquie, venerate dalla popolazione locale che provvedeva a “vestirle”, a mantenere in ordine i loro abiti e ad “adornarle di fiori”, un’usanza che senza dubbio proviene da un lontano passato.

La rimozione di questi corpi dai gradini poi, a quanto sembra, era recente. Ma un altro testo, edito nel 1822, Descrizione dei santuarii del Piemonte più distinti per l'antichità della loro venerazione e per la sontuosità dei loro edifizii opera adorna delle vedute pittoresche di ogni santuario dedicata alla s.r.m. di Carlo Felice re di Sardegna, volume primo, già registrava la presenza di cadaveri addossati ai muri e non seduti sui gradini: “Salendo le scale il passaggiero trovasi come atterrito alla vista di alcuni scheletri che, tratti dalle catacombe de’ monaci, furono colà rizzati lungo il muro, ed addobbati nelle più strane fogge; opera di qualche Pellegrino venuto negli ultimi tempi al Santuario”.

Anche questo autore, Modesto Vittorio Paroletti, indica chiaramente che la macabra esposizione di corpi “addobbati nelle più strane fogge” è una “opera recente”, ma non specifica in alcun modo qual’era la situazione precedente. Sostiene, però, che quei cadaveri erano stati esumati dal “sepolcro dei monaci”, la struttura ottagonale absidata ai piedi della Sacra, che viene indicata come tomba collettiva, nonostante a suo interno non siano state rinvenute sepolture. Il cimitero dei frati si trovava infatti intorno alla struttura che probabilmente fungeva da cappella funeraria.

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Risalendo tra i meandri del passato, un lavoro del 1699, scritto da Pier Giacinto Gallizia, Breve Racconto del tempio e badia di San Michele della Chiusa (in questo testo compare per la prima volta la leggenda della Bella Alda), a proposito dello Scalone si limita a descrivere “una gran scala che ha più di cento gradini, à lato di cui vedonsi parecchi sepolcri degli Abbati, e Monaci”.

L’inciso “e Monaci”, preceduto da una virgola, significa che si vedevano i monaci e i sepolcri degli abati, quindi le mummie c’erano e la loro presenza non era considerata così strana. Se fossero negli archi, sui gradini o presso entrambi non è dato saperlo.

Non c’é dubbio che questi corpi cadaverici provocassero forti emozioni in chi vi passava accanto. In Tradizioni italiane per la prima volta raccolte in ciascuna provincia dell'Italia e mandate alla luce per cura di rinomati scrittori italiani (1847), si racconta dello spavento di cui fu vittima un certo frate Bernardo, il quale sceso lungo lo Scalone per serrare il portone dopo il tramonto, rimase chiuso all’interno poiché il vento aveva bloccato i battenti del Portale dello Zodiaco. Mentre tentava disperatamente di attrarre l’attenzione dei confratelli, il malcapitato monaco cominciò a sentire e vedere un teschio che camminava sui gradini. Fu salvato dal padre superiore, accorso alle sue grida, il quale si fece coraggio e sollevò il teschio di scatto, facendo fuggire il topolino che vi nascondeva all’interno. Da questo aneddoto deriva il soprannome di “scala dei sorci” dato allo Scalone dei Morti.

Verso la fine del XIX secolo lo scrittore inglese Samuel Butler, nel testo Alps and Sactuaries of Piedmont and the Canton Ticino (1881) riprende le notizie del Murray's Handbooks for Traveller in Northern Italy aggiungendovi qualche nota di colore: “Con la porta della chiesa aperta, quale straordinario effetto si dovrebbe ottenere. Il manuale del Murray dice che gli scheletri, che si trovano ora sotto l’arcata, un tempo erano posti in posizione seduta sugli scalini e venivano incoronati di fiori dai contadini.

Immaginatevi quindi questi scheletri seduti fra fiori avvizziti e neve alla luce lunare o del crepuscolo mentre scende un ripieno d'organo (Handel, adagio dal quinto gran concerto)”.

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Inutile dire che, con l’esclusione di Butler, gli altri testi citati non riportano in alcun modo le fonti da cui hanno tratto le loro informazioni, le quali, pertanto, hanno un valore relativo e potrebbero essere “di prima mano” quanto ipotesi degli autori stessi intese per verità.

Forse è un dettaglio dei passaggi del Diario della Casa (Savoia) relativi alla definitiva rimozione delle mummie dallo Scalone dei Morti avvenuta nel 1936, ritrovati dalla Associazione Volontari Sacra di San Michele e pubblicati su Sacra Informa n.1 2013, che può illuminare, seppur flebilmente, il mistero di queste mummie.

17 marzo 1936:Visita ai lavori dell'Illustrissimo Architetto Vittorio Mestruino che si ferma dal mattino fino alle ore 15 facendosi portare il pranzo da un albergo di S. Pietro. E' con lui l'impresario Sig. Maffioli. Chiamato dal suddetto Architetto, mi comunicò la decisione di trasportare le cosiddette mummie o scheletri, posti nella nicchia a destra di chi sale dello scalone, e trasportarli nel sepolcro dei nostri Padri e Fratelli, che si trova sotto lo scalone”.

18 marzo 1936:Trasporto delle mummie (scheletri nella scala grande dei morti) nella tomba o camera mortuaria sotto lo scalone, già tomba dei PP. e Fratelli Rosminiani. Trasporto ordinato da S. E. Conte De Vecchi, Ministro della Educazione Nazionale. Nel mattino dalle ore 8 alle 10 e mezza due muratori prepararono un ponticello provvisorio per giungere al piano della larga nicchia, rimossero la griglia. Allora il P. Rettore, in cotta e stola nera, col chierico Giuseppe Pattarone, portarono Croce e aspersorio, salirono alle mummie, aspersile e recitate le preghiere rituali, cominciarono coi muratori a riempire di ossa, ossicini sparsi nella nicchia due casse e i muratori li trasportarono nella stanza mortuaria dei Rosminiani (i bocia o manuali scomparvero tutti, impauriti dalla vista dei cadaveri).

Sei cadaveri furono trasportati quasi intieri uniti i membri dalla pelle quasi incartapecorita: uno aveva le scarpe unite ai piedi, un altro scheletro era coperto da veste lunga con grembialino e mani giunte; quando tutte le ossa e scheletri furono trasportati in detta stanza mortuaria, uniti insieme, scese il P. Rettore in cotta e stola col detto chierico, asperse coll'acqua Santa, recitò le preci rituali e per le 10 e mezza la mesta funzione era finita. Requie e pace alle anime loro. Pax.

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L’abbigliamento di uno di quei corpi trovati pressoché interi è inequivocabile: la tunica lunga e soprattutto il grembiule sono il segno che il personaggio non era un uomo qualunque, bensì un vero e proprio “apprendista”. Il grembiule è infatti “il simbolo del corpo fisico, dello sviluppo materiale di cui lo spirito deve rivestirsi per prendere parte all’opera di Costruzione Universale” (Jules Boucher, La symbolique maçonnique, 1953), cioè del “vero lavoro” che porta l’uomo alla spiritualizzazione. E ciò si riferisce alla “massoneria” antica che, ben distante dalle caricature moderne senz’anima, era la Via Spirituale dei veri Costruttori di Cattedrali.

Esisteva un particolare tipo di grembiule, documentato almeno in Tibet e in Africa, ma probabilmente presente anche in occidente (ad esempio, ancora in epoca longobarda Paolo Diacono descrive l’uso particolare di teschi come coppe cerimoniali, testimoniando l’impiego delle ossa umane in certi ambiti rituali), che era realizzato con ossa umane intarsiate e il cui scopo era “associare i morti al lavoro spirituale che si intendeva compiere”.

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Non si trattava di vana superstizione bensì di un rapporto di continuità e di aiuto tra vivi e morti che non si limita ad un laconico “memento mori”: “ricordati che devi morire”. Così, forse, si può spiegare la venerazione della gente semplice per le mummie disposte lungo lo Scalone e sotto gli archi della Sacra: erano le spoglie mortali di coloro che “erano andati avanti”, tracciando la strada per chi avrebbe voluto seguirli in quella particolare via spirituale, al di là della semplice vita cenobitica. I fiori di cui venivano addobbati quei corpi, infatti, sono essi stessi rappresentazioni delle anime dei morti e in particolare sono archetipi dell’anima. Quasi certamente quindi non erano fiori presi a caso quelli con cui venivano incoronati e dal colore e dalla specie di questi fiori potremmo trarre, semmai ci fosse possibile risalirvi, molte altre indicazioni.

Resta il mistero sull’epoca in cui questi corpi naturalmente mummificati furono accomodati sui gradini, sui motivi per cui si scelsero queste insolite posizioni e sull’identità dei personaggi che accettarono di fare delle loro membra, dopo la morte, queste sacre reliquie.

 


Si ringrazia anticipatamente chiunque volesse segnalare eventuali altri testi, fonti, ecc. per approfondire questo breve studio


BIBLIOGRAFIA

Pier Giacinto Gallizia, Breve Racconto del tempio e badia di San Michele della Chiusa di San Michele, Giov. Batt. Zappata, Torino, 1699

Modesto Vittorio Paroletti, Descrizione dei santuarii del Piemonte più distinti per l'antichità della loro venerazione e per la sontuosità dei loro edifizii opera adorna delle vedute pittoresche di ogni santuario dedicata alla s. r. m. di Carlo Felice re di Sardegna, volume primo, F. Reycend e compagnia, Torino, 1822.

Aa. Vv., Murray's Handbooks for Traveller in Northern Italy, John Murray, London, 1847

Aa. Vv., Tradizioni italiane per la prima volta raccolte in ciascuna provincia dell'Italia e mandate alla luce per cura di rinomati scrittori italiani, Volumi 1-4, Angelo Brofferio, Torino, 1847

Samuel Butler, Alps and Sactuaries of Piedmont and the Canton Ticino, David Bogue, London, 1881

Jules Boucher, La symbolique maçonnique, Dervy, Parigi, 1953

Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dizionario dei Simboli, Bur, Milano, 2001

Aa. Vv., Deposizione delle Mummie (scalone dei Morti) sotto lo Scalone nel sepolcro dei padri rosminiani, Sacra Informa n.1 2013, Avo Sacra, Sacra di San Michele, 2013


 

Pubblicato in Italia

Il simbolo per eccellenza di Ravenna, che fu per tre volte capitale, è senz’altro l’Adorazione dei Magi, che compare in città almeno quattro volte: a Sant’Apollinare Nuovo la più celebre; a San Vitale sul sarcofago di Isacio (620-637 d. C.) e tra le vesti dell’imperatrice Teodora, nel mosaico a lei dedicato; a San Giovanni Battista su una capsella (reliquiario di marmo) dedicata ai Santi Quirico e Giulitta, della prima metà del V secolo (oggi è esposta al Museo Arcivescovile).

L’importanza di queste raffigurazioni per la cittadina ravennate è indubbia, ma non è fin in fondo chiaro perché essa fu scelta. Genericamente la si attribuisce alle simpatie monofisite dell’imperatrice Teodora, moglie di Giustiniano, sulla cui tunica i tre sacerdoti iranici compaiono e all’offerta dei “doni imperiali” compiuta all’indomani dell’elevazione di Ravenna a capitale dell’Impero Bizantino in occidente.

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Inoltre non è facile stabilire quale delle immagini conservatesi possa essere eventualmente l’originale a cui le altre, sicuramente, si ispirano, essendo tutte precisamente modellate su uno stesso canone già ben consolidato.

Il mistero insomma rimane.

Forse una soluzione esiste, ma richiede di inoltrarsi in ambiti delicati e non sempre apprezzati dalla storiografia ufficiale. La vera natura dei Magi è il fulcro dal quale procedere. La tradizione è nota, i suoi risvolti e le sue inesattezze meno, a partire dalla “stella” che i tre avrebbero seguito. Essa infatti non compare nei testi più antichi che raccontano dei sapienti venuti da oriente a venerare il Bambinello. Il primo fra essi, il Vangelo di Marco, mette in bocca ad uno dei magi l’aver avvistato un certo “aester” in oriente in seguito al quale sarebbero partiti alla volta di Gerusalemme.

Gli apocrifi Protovangelo di Giacomo e il Vangelo Pseudo Matteo che da esso deriva, attribuiscono più precisamente alla venuta dei Magi il loro aver “consultato le stelle”. Sarà Origene, più tardi a consolidare definitivamente la tradizione della stella identificandola con una cometa.

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Sembra che l’origine di questi Magi fosse iranica e che fossero esperti astrologi, ma notizie sulla loro reale esistenza non ce ne sono. Per uno di loro, Gaspare, è stata proposta, non senza qualche difficoltà, l’identificazione con il re indo-partico Gondophares il cui regno fiorì fra il 20 e il 46 d. C.

Nella tradizione copta etiope invece si ricorda Baldassarre, il re magio dalla pelle scura, identificandolo con l’imperatore Bazén, venerato come un santo presso il monastero di Debre Damo ad Axum.

Non c’è alcuna certezza neppure sul numero dei magi che visitarono il bambinello. Nei testi più antichi non vengono enumerati. La tradizione orientale indicava 12 magi, numero di natura astronomica e astrologica. Soltanto con quelli più tardi, la Caverna dei Tesori e la Storia della Vergine Maria, la loro quantità viene fissata a tre:

  • Baldassarre “Dio protegge la verità” portatore dell’incenso, abissino o di Nippur, 4°v

  • Gaspare “ispettore del tesoro”, portatore della mirra, persiano o di Meroa, 1°v

  • Melchiorre, “re della luce”, portatore dell’oro, ebraico o di Pa??, 7°v

E ancora, i tre adoratori sbalzati su una placca argentea del VIII sec. a. C. rinvenuta in Luristan, sacerdoti in adorazione del dio zoroastriano Zervan (Zurvan), il Tempo, sono stati riconosciuti come il possibile originale su cui furono modellati i Magi evangelici. Già Erodoto, del resto, riportava come il titolo di “magoi” fosse riservato proprio ai sacerdoti di Zarathustra.

Non possono certo sfuggire i continui riferimenti al cielo e alle simbologie zodiacali che emergono dal groviglio di tradizioni e leggende fiorite da sempre sulle figure di questi Re Magi. Che la chiave del mistero fosse nella stella, o meglio nelle stelle, forse l’aveva capito già Keplero, che nel XVII secolo aveva individuato un particolare fenomeno avvenuto nel 7 a. C. in grado di spiegare la cometa dei vangeli.

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In quell’anno si era verificata una rara, se non rarissima, tripla congiunzione planetaria: ben tre pianeti, Marte, Giove e Saturno, si erano trovati ad una distanza angolare nel cielo così ridotta (meno di 5° di arco) da diventare indistinguibili e sembrare, insieme, un’unica, luminosissima stella nel cielo, formata da due pianeti quasi sovrapposti e uno nelle vicinanze, per tre volte nello stesso anno. I tre momenti furono il 29 maggio, il 01 ottobre e il 05 dicembre. Tutti e tre si svolsero in corrispondenza della costellazione zodiacale dei Pesci, al limite con quella dell’Ariete, quindi approssimativamente a oriente, proprio da dove si dice provenissero i Magi.

Le rappresentazioni, assai diffuse, del “Viaggio dei Magi” o della “Adorazione dei Magi” con due dei Magi affiancati o addirittura sovrapposti ed uno leggermente più discosto, potrebbero essere proprio una codifica di tali fenomeni astronomici e astrologici. Ne sono ottimi esempi quelli conservati nella Chiesa di San Biagio a S. Vito dei Normanni, la chiesa rupestre di Santa Cecilia a Monopoli o il bassorilievo del Sarcofago Albani, proveniente dalla Catacomba di S. Sebastiano a Roma, in cui uno dei Magi “osserva” gli altri due che sono in identica posizione.

Questa rara congiunzione, inoltre, era accaduta proprio in concomitanza con l’inizio di una nuova epoca precessionale, quella dei Pesci. Ma, questione ancor più sensazionale, i tre pianeti congiunti erano anche i reggitori e sovrani, i “decani” appunto, delle tre suddivisioni dell’epoca precessionale che si era appena conclusa, quella dell’Ariete.

Così Marte, Giove e Saturno - che erano appunto i tre “re” - nel momento più propizio, provenendo da direzioni diverse si erano “incontrati” proprio sopra Betlemme. La storia astronomica e astrologica corrisponde dunque magnificamente con quella tradizionale, svelando quella che potrebbe essere la vera natura dei Magi, personificazioni dei “decani” planetari.

Seguendo questi indizi astronomici a Ravenna, ci si imbatte in alcune coincidenze interessanti. La sua prima grande chiesa, San Martino in Ciel d’Oro (poi chiamata Sant’Apollinare Nuovo), fu fondata nel 505 sotto Teodorico, che aveva conquistato la città, già capitale del regno degli Eruli, facendone il centro dell’impero Ostrogoto. Non dovrebbe sorprendere che proprio nell’anno in cui fu gettata la prima pietra dell’edificio e precisamente il 23 luglio, si verificò una congiunzione tra Marte e Saturno (in Leone a 11°52 e 11°45 rispettivamente): non è infatti un mistero che nelle sette cristiane di matrice monofisita, come quella ariana, cui l’Imperatore apparteneva, i Magi rivestissero un ruolo molto importante.

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Ma quando Giustiniano la riconquista e ne fa la città principale dell’Impero Bizantino in Occidente nel 539, i Magi ne diventano il vero e proprio simbolo, visibile quanto nascosto. La riaffermazione della religione cristiana a Ravenna passa per la costruzione della maestosa chiesa di San Vitale, i cui lavori iniziano tra il 526 e il 530 d. C. Il 9 febbraio del 527 si verifica di nuovo una congiunzione legata ai Magi, quella fra Marte e Giove (in Aquario, a 12°44 e 12°37 rispettivamente).

Mentre fervono i lavori, poi, si da inizio anche all’edificazione di Sant’Apollinare in Classe, la cui prima pietra viene posata fra il 532 e il 536 d. C. circa e di nuovo, proprio in questo periodo si verifica una congiunzione tra due dei tre pianeti “esterni” del Sistema Solare, Giove e Saturno, il 9 maggio del 531 d. C. (in Gemelli, a 21°46 e 21°00 rispettivamente).

Di fronte a coincidenze così particolari, non è difficile ipotizzare che i tre edifici siano stati progettati per essere ciascuno la rappresentazione di uno dei re Magi:

  • San Martino in Ciel d’Oro (S. Apollinare nuovo): Saturno (con Marte), Baldassarre, 1° decano

  • San Vitale, Marte (con Giove), Gaspare, 3° decano

  • Sant’Apollinare in Classe, Giove (con Saturno), Melchiorre, 2° decano

La soluzione finale dell’enigma si trova a San Vitale, presso l’altare maggiore dell’edificio. In alto sulla destra uno statuario Giustiniano occhieggia impassibile verso l’abside. Di fronte, in un mosaico quasi speculare, compare invece Teodora, con le sue ancelle. Sulla sua veste si intravvedono tra le pieghe i tre Re, ritratti con il peso spostato in avanti mentre offrono i loro doni.

Se si osserva bene, si può notare che anche Teodora mima con le braccia la medesima postura porgendo la “cesta” identica a quella dei magi che porta tra le mani.

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I tre sapienti, dunque, stanno tra le pieghe della veste dell’imperatrice così come, più in grande, si nascondono, visibilissimi eppure evanescenti “tra le pieghe” di Ravenna. Nonostante l’imperatrice sia indicata con il suo nome scritto in lettere scure, essa si presenta quindi anche come la personificazione della città. Ma le figure mistiche dei tre Magi, sottendono un significato che va ben oltre: Ravenna/Teodora racchiude i magi nella sua veste, come se ne fosse l’unione e si manifesta quindi come la nuova Stella destinata ad accendersi sul mondo. Ravenna bizantina “viene da oriente”, rispetto all’Italia, come i Magi rispetto a Betlemme.

Annuncia un nuovo “avvento”: ciò che, nelle intenzioni, doveva nascere era un nuovo Impero Romano, di matrice bizantina, il cui inizio corrisponde alla riconquista nel 533 di Ravenna, che diventa sede di governo in Italia.

Rimarrà un sogno. La guerra di Giustiniano contro i Goti durerà fino al 553, ma appena dopo l’Imperatore dovrà fronteggiare i Longobardi. La morte sopraggiunta nel 565 gli impedirà definitivamente di realizzare il sogno di un Impero Romano Universale.

Dell’aspirazione di Giustiniano di essere capo anche spirituale di questo Nuovo Impero, riunendo in sé entrambi i poteri, fu certamente “ambasciatrice” Teodora, le cui mire si spingevano ben oltre. Aveva “sposato” le idee monofisite mentre si trovava ad Alessandria, ben prima di conoscere Giustiniano e covava il desiderio di una restaurazione cristiana nel segno di tale dottrina. Arrivò perfino a ordire una congiura nel 537 per deporre il papa Silverio e far eleggere al suo posto il suo protetto Vigilio, diventato come lei monofisita. Il nuovo papa però si sarebbe presto rivelato un traditore e avrebbe innescato la lunga disputa detta Dei Tre Capitoli. L’imperatrice non portò a termine il suo disegno. Morì di malattia nel 548.

Di tutta la vicenda rimane, silenziosa testimone la Ravenna bizantina con i suoi tre luoghi mistici. Tra le mura di uno di essi si nasconde ben in vista l’ultimo indizio. Se si guarda per benino fra i piedi dei maestosi Magi di Sant’Apollinare Nuovo dai berretti rubicondi, si noterà – più di uno se ne è accorto – che spuntano alcune piantine in fiore. Sono due piante di Stramonio (Stramonium Datura), una di Giusquiamo nero (Hyoscyamus Niger, meglio conosciuto nell’antichità come Apollinarix) e una di Ladano (Ledum Palustre, Rosmarino selvatico). Sono tutte erbe psicoattive, inebrianti, capaci di provocare visioni. Figurano tra gli ingredienti fondamentali delle “pozioni” che si bevevano durante le celebrazioni dei Misteri eleusini, orfici, bacchici, dionisiaci, ma anche del leggendario “unguento delle streghe”. E sono tradizionalmente legate, rispettivamente, proprio a Saturno, Giove e Marte.


RAVENNA E I TRE DECANI è disponibile anche su Academia.edu in formato PDF


BIBLIOGRAFIA

C. Zaehner, Zurvain A zoroastrian Dilemma, Oxford 1955

A. Rucker, Zwei nestorianische Hymnen über Magier, in «Oriens Christianus» N. S. 10-11 (1920-1921)

J. Bidez e F. Cumont, Les Mages hellénisés. Zoroastre, Ostanès et Hystaspe d’après la tradition grecque, II (Les Textes), Paris 1938 (repr. 1973)

Alfredo Cattabiani, Florario: miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, Milano, 1996

Marcello Mignozzi, Il Viaggio dei Magi: origine e fortuna di un motivo iconografico, Agiografia e Iconografia nelle aree della civiltà rupestre – Atti del V Convegno Internazionale sulla civiltà rupestre, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto, 2013


 

Pubblicato in Personaggi
Domenica, 18 Dicembre 2016 16:35

Nostra Signora Delle Vite

Notre Dame De Vie a Mougins, tra le alture alle spalle di Cannes, è uno di quei casi per cui non c'é traccia certa di quali e quanti prodigi del répit si siano verificati. Eppure, la dedicazione del santuario è una conseguenza nota di quel particolare rito che qui si svolgeva. Si sa infatti con precisione che, in precedenza, la cappella nota dal 1514 come “Santa Maria” aveva il nome di “Notre Dame de Ville Vielle” (Nostra Signora del vecchio paese) e che esso fu poi modificato in seguito ai fatti prodigiosi della “doppia morte”.

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La “moderna” dedicazione “Notre Dame de Vie” (Nostra Signora di Vita), del resto, ben si addice al luogo e al suo ente: “protegge” e custodisce la vita, al punto da salvaguardarla, nei casi estremi del “rito della piuma”, perfino dalla morte. Nella lingua francese, però, “de vie” ha doppia traduzione: “della vita” oppure “delle vite”. È un'ambiguità che non può passare inosservata. Si potrebbe giustificare con l'idea che il “ritorno in vita effimero” dei bambini nati-morti fosse una sorta di “seconda vita”, anche se solo per il tempo di un singolo respiro. Ma la particolare condizione di questi infanti era quella del “nato (già) morto”, morto prima di nascere e quindi “mai nato”, per cui il répit era, di fatto, l'unica occasione di vita. Il termine che designa il “prodigio”, inoltre, è letteralmente traducibile come “sospensione”, con evidente riferimento non alla condizione stessa bensì alla morte. La “doppia morte” (non si parla mai di “doppia nascita”!) era dunque intesa come un temporaneo differimento, una “tregua”, un arresto dello stato di decesso insomma, che veniva poi “ripreso” definitivamente. Per identici motivi il riferimento a molteplici vite non può essere ricondotto neppure a vite diverse intese come quella “terrena” ed effimera provocata dal répit e quella successiva “nello spirito” guadagnata con il conseguente Battesimo.

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In considerazione delle origini chiaramente “pagane” e pre-cristiane di questa forma rituale, invece, l'ambigua intitolazione potrebbe essere un rimando ad una concezione ciclica dell'esistenza: “le vite” sarebbero così quella mai iniziata, quelle eventualmente precedenti e quelle future che attendono il bambino. In tal senso, il répit in quanto sospensione, potrebbe non indicare la “soluzione” ma il “problema”. L'arresto sarebbe insomma l'evento che impedisce all'essenza spirituale (“anima”) del bambino di fluire da una vita all'altra. La pratica della doppia morte permetterebbe dunque di risolvere l'infausto ostacolo alla rinascita in una vita futura.

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Notre Dame De Vie è certamente un luogo per natura coerente con tale visione, come confermano i ritrovamenti di cippi, lastre tombali gallo-romane e di elementi di reimpiego di un luogo /forse un tempio) precedente, usati per costruire la primitiva cappella (corsi inferiori delle porzioni di muro ritrovate e del campanile) sul colle e sotto la chiesa stessa, a testimonianza della sua lunghissima tradizione spirituale legata alla morte e alla rinascita.

La prima menzione del nuovo nome “popolare” del santuario risale a un documento del 17 Agosto 1656 in cui viene per altro messo in relazione proprio con la pratica dell' “ondoìement”.

Non è noto quanti “infanti” siano stati presentati” al santuario, né quanti di essi abbiano mostrato segni di vita e quindi beneficiato del répit. I lavori di ampliamento della cappella iniziati nel 1655 e che si concludono nello stesso anno e che trasformano la cappella in vera e propria chiesa con un ampio protiro frontale, suggeriscono però un rinnovato interesse per il colle.

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Il 05 Maggio del 1669, con l'aggiunta della navata minore settentrionale e del nuovo altare maggiore, monsignor Louis De Bernage si reca nuovamente in visita e annota negli atti alcuni dettagli importanti e che testimoniano la frequentazione assidua del luogo: “...nous sommes acheminés à l'église de Nostre Dame de Ville Vielle vulgairement appellée Nostre Dame de Vie... prés la porte de l'église il y a un couvert, et prés de couvert des tombes où l'on enterre les enfants sans bapteme” (siamo stati condotti alla chiesa di i Nostra Signora dell'Abitato Vecchio, popolarmente detta Nostra Signora delle Vite... vicino alla porta della chiesa c'é una struttura coperta, e accanto alla struttura coperta le tombe dove vengono sepolti i bambini [morti] senza battesimo).

La cappella è dunque diventata “chiesa” e dispone al suo esterno addirittura di una sorta di cimitero per i bambini nati-morti (quelli che non mostravano segni di vita dopo essere stati portati davanti alla Vergine), evidentemente simile a quello di un altro celebre santuario in piena attività all'epoca, quello di Notre Dame de Beauvoir a Moustiers-Sainte-Marie, a un centinaio di chilometri di distanza. La collocazione del cimitero è nota e conosciuta ancora oggi, poiché le sue dimensioni continuarono a crescere fino alla proibizione del rito.

È interessante la menzione, da parte del vescovo di una qualche struttura coperta, diversa dal portico frontale, di cui non specifica l'utilizzo, ma che asserisce si trovasse presso le “tombe degli infanti”. Non è più esistente né si conoscono altre testimonianze, ma la sua collocazione fa pensare che si trattasse di una “recevresse” come quella di Avioth, in Belgio, presso cui venivano, appunto, accolti i cadaveri dei bambini nati-morti in attesa del répit.

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Qualcuno asserisce che si trovasse presso la porta di ingresso sulla facciata della chiesa, ma una seconda porta esisteva lungo la parete nord. Le due porte sono già menzionate da monsignor Sdcipion De Villeneuve negli Atti di Visita del 15 Maggio 1634. Pertanto è possibile che la copertura in questione fosse una tettoia bassa all'esterno dell'abside o di fianco ad essa, in modo che gli infanti potessero essere deposti per la preghiera il più vicino possibile alla Vergine, rimanendo tuttavia fuori dalla chiesa.

Non va infatti dimenticato che, dagli albori del Cristianesimo e fino a non molto tempo fa, solo i battezzati erano generalmente ammessi all'interno delle chiese. Questo è uno dei motivi per cui i battisteri erano per lo più edifici separati oppure il fonte battesimale veniva posto di fianco all'ingresso.

Nel caso del répit, tale regola veniva puntualmente aggirata. Tant'è che spesso, negli atti con cui le curie giungevano a vietare la pratica, minacciando addirittura la scomunica, si specificava che era proibito non solo svolgere il rito ma anche di portare i bambini nati morti presso e dentro i santuari dove si credeva che il répit potesse avvenire.

Il 1669 è anche l'anno in cui viene “rivelato” il nome della preziosa reliquia custodita, almeno dal 1688 quando viene per la prima volta menzionata, a Nostra Signora delle Vite. Sono alcuni membri della comunità a fornire l'occasione, quando organizzano la prima “processione” della reliquia dal santuario alla parrocchiale del villaggio, che si trova sul colle accanto.

Così, Nostra Signora di Mougins torna al suo ruolo arcaico di “cappella pellegrina”, alla quale si recavano da secoli in solenne processione penitenziale i Penitenti Bianchi e i Confratelli di San Michele di Grasse, nell'occasione di pestilenze (come nel 1629) e di altri gravi pericoli per la città, circostanza più volte immortalata negli ex-voto. In occasione della traslazione temporanea della reliquia, dunque, ne viene svelata l'identità. Le sante ossa apparterrebbero a una certa “Innocenza”. Si ritiene che possa essere la martire sedicenne riminese uccisa nel 380 d.C. da Diocleziano di passaggio in quella città. Ma è quantomeno curioso che un nome così facilmente riconducibile all'innocenza perduta dei bambini nati-morti, che il répit prometteva di restituire loro, compaia proprio nel momento in cui la frequentazione del santuario, con la speranza di tale grazia, è all'apice.

Di chi possano essere in tal caso i frammenti ossei ancora oggi visibili nel reliquiario è un mistero. Potrebbero forse appartenere al primo nato-morto tornato in vita attraverso il répit a Mougins? Del resto l'unica altra reliquia che il santuario custodisce (dal 1788) è un frammento del braccio di Sant'Onorato di Lérins (Nostra Signora delle Vite era un possedimento della potente abbazia...), i cui resti, traslati a Ganagobie, erano diventati la personificazione del répit con il nome di San Trapasso. Perfino tra i dedicatari degli altari interni del santuario, insieme a Sant'Anna (madre della Vergine), Maria Maddalena e San Giuseppe (aggiunto tardivamente) compare Saint Claude, noto per essere uno dei più venerati intercessori del répit!

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Saint Claude e Saint Louis (anch'egli intercessore per la “doppia morte”) sono addirittura ritratti mentre reggono la corona sul capo della Vergine nell'ancora dell'altare maggiore. L'ancona risale al 1669 ed è minuziosamente descritta negli atti di visita vescovili di quell'anno.

E come se non bastasse, è eloquente anche la data scelta per la ricorrenza di Notre Dame De Vie. Come si legge nel Calendrier Historique des Fétes de la Sainte Vierge, redatto dall'abate Orsini, il 27 Gennaio è “celle de Notre-Dame-de-la-Vie à Venasque en Provence qui a soyent rendu la vie aux enfants morts avant le bapteme, afin qu'ils reçussent le sacrement” (quello di Notre-Dame-de-la-Vie a Venasque in Provenza che ha sovente restituito la vita agli infanti morti senza battesimo, affinché questi ricevessero il sacramento). Il 27 Gennaio è il giorno precedente quello dedicato a San Tommaso d'Aquino, che fu forse il primo santo intercessore noto proprio del répit.

Il 1674 segna la separazione definitiva fra rettori della parrocchia di Mougins e quelli del santuario, che si insediano nell'eremo appena costruito sul lato settentrionale della chiesa. La copertura, il cimitero dei bambini e l'altare esterno esistono ancora e sono molto frequentati. Negli anni successivi, infatti, la fiorente casistica di bambini nati-morti tornati brevemente alla vita, attira su Mougins l'attenzione ecclesiastica e le conseguenti reprimende. Nel 1678 il nuovo vescovo di Grasse Louis-Aube de Roquemartine, infatti, fa recapitare l'ordine di distruggere “l'altare fuori dalla cappella”. L'ingiunzione, che non fornisce ulteriori dettagli, conferma però che “qualcosa” si svolgesse all'esterno del santuario, specificando che esisteva addirittura un altare. Forse serviva per le celebrazioni cui accorreva troppa gente per la capacità dell'edificio. Non si può però escludere che, invece, l'altare si trovasse sotto la struttura menzionata dal precedente vescovo, allo scopo di “esporre” i fanciulli in attesa del répit.

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Quasi certamente l'ordine viene ignorato e trasgredito. Il rettore, fratello Jacques, eremita del santuario e un certo Estève Martin, carpentiere, di origini genovesi nel 1709 vengono sepolti all'interno della chiesa. Lo stesso onore verrà concesso a partire dal 1714 infatti a tre bambini dell'età di 7, 8, e 3 anni, tutti rampolli della famiglia Flour, una delle più in vista del paese e tra i “benefattori” del santuario”.

Negli stessi anni, intanto, prodigi del répit cominciano a verificarsi in altri santuari e chiese dell'oriente provenzale: presso le reliquie di Santa Roselina a Les Arcs, ai piedi della statua di Notre-Dame-de-la-Roquette (detta anche Notre-Dame-du-Spasme o Notre-Dame-des-Œufs) a Le Muy alla Chapelle Notre-Dame-des-Anges di Lurs. Un caso si verifica perfino all'interno della chiesa parrocchiale di Tourettes Sur Loup, appena fuori Grasse, di cui esiste testimonianza scritta: “Gasparde Agarde, femme de Germain s'etant accouché d'un enfant mort, et l'ayant recommandé au glorieux st Fauste, et porté dans l'éeglise et mis devant la ste relique, il a donné beaucoup de signes de vie, ce qu'ayant veu moy mesme, l'ay baptisé en présence du sir Giraud, mon curé, de Lucresse de Grimaldy, dame du Caire et de la sage femme. Signé Decormi, vicaire” (Gasparde Agarde, moglie di Germaine ha fatto venire alla luce un bambino morto e l'ha affidato al glorioso Saint Fauste, e portato nella chiesa e deposto davanti alla santa reliquia, ha mostrato molti segni di vita, tali che, dopo averli visti io medesimo, l'ho battezzato in presenza di Sir Giraud, il mio curato, di Lucrezia di Grimaldy signora di Caire e della levatrice. Firmato Decormi, vicario).

Una nuova ingiunzione, tremenda e definitiva viene inclusa negli Atti di Visita del 1730 (manoscritto G57, Archivio Dipartimentale delle Alpi Marittime) dal nuovo vescovo Charles Léonce D'Anthelmy che immediatamente recipisce il divieto promulgato l'anno precedente dalla Santa Sede. Ironia della sorte, il prelato ha per cognome un altro noto intercessore del répit, Sant'Antelmo.

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Le sue dure parole sortiscono l'effetto desiderato e il santuario comincia il suo inesorabile declino: “Sur l'avis qui nous a été donné qu'on portait de differents endroits du diocèse et d'ailleurs les corps des enfants morts qui n'avaient pas reçu le baptéme dans la chapelle Notre Dame dans la confiance qui pourraient recouvrer la vie et recevoir, à l'occasion del quelque signe équivoque qu'ils donnèraient, le sacrement de bapteme, nous déclarons qu'encore que l'on ne piosse pas avoir trop de confiance en la puissante intercession de la Sainte Vierge auprès de Dieu nous ne saurions autorizer un tel usage qui nous parait plutot un abus que le fruit d'un culte religieux et réglé envers la Mère de Dieu. Nous défendons en conséquence au prétre qui dessert cette chapelle et de célébrer en présence la sainte Messe ordonnant que la masure qui est hors du portique ou halle et où les enfants morts sans bapteme étaient mis ici devant sera abattue et rasée, permettant néanmoins aux marguilliers de ladite chapelle d'assigner une place gors d'i celle pour y mettre les corps des enfants morts sans bapteme qui sera fermée à clef et la clef gradée par le pretre de la chapelle auquel nous défendons expressément de l'ouvrir pour y mettre corps de petit enfant étranger sans étre assuré par un billet du curé du lieu du nom du père ou de la mère à qui l'enfant appartient, dont il tiendra lui-meme mémoire et nous en donnera avis pour prévenir toute sort d'abus et pourvoir aux inconvénients” (Su segnalazione che ci è stata data secondo la quale vengono qui portati da diversi luoghi della diocesi e da altri i corpi dei bambini morti che non hanno ricevuto battesimo nella cappella di Notre Dame nella convinzione che possano recuperare la vita e ricevere, all'occasione del manifestarsi di qualche segno equivoco, il sacramento del battesimo, noi dichiariamo che non abbiamo troppa fiducia in tale potente intercessione della Vergine Maria presso Dio, né possiamo autorizzare una tale pratica che ci sembra un abuso più che il frutto il frutto di un culto religioso e regolato alla Madre di Dio. Diffidiamo di conseguenza il prete che serve la cappella e di celebrare al presente la Santa Messa, ordinando che la mensa che si trova fuori dal portico coperto e presso la quale i bambini morti senza battesimo vengono deposti, sia abbattuta e spianata, né permettiamo ai consiglieri di detta cappella di affittare il posto fuori da essa per mettere i corpi dei bambini morti senza battesimo, che sarà chiuso a chiave e la chiave custodita dal sacerdote della cappella, al quale noi vietiamo espressamente di aprirla per mettere il corpo di bambino estraneo senza essere assicurato con una nota del parroco del luogo del nome del padre o della madre a cui il bambino appartiene, di cui egli stesso terrà documentazione e ci darà comunicazione per evitare qualsiasi tipo di abuso e prevenire inconvenienti).

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Tra il 1761 e il 1764 anche l'usanza dei pellegrinaggi a Nostra Signora delle Vite, si conclude e il santuario declina. Ma il répit, probabilmente, viene ancora praticato. Un solo ex-voto presente fra le sue mura e che risale forse al XVII secolo, è stato riconosciuto chiaramente come ringraziamento per un répit avvenuto. Ritrae una madre e un figlio in fasce, uno accanto all'altra, che sporgono dalle lenzuola in un grande letto. Il padre in atteggiamento di preghiera è ai piedi. Su tutto domina la Vergine.

Ma ci sono almeno altri due quadretti che mostrano elementi inequivocabilmente riconducibili alla “doppia morte”. In uno, racchiuso da una cornice tonda, ci sono una madre e una bambino in fasce in primo piano vicino a una culla, un angelo con qualcosa che parrebbe una piuma alle loro spalle e in alto, nel terzo e più profondo piano compositivo, la Vergine.

L'altro, in certo modo inquietante, mostra invece un bambino in fasce deposto in una culla avvolta dalle fiamme. Non è difficile riconoscere nelle lingue di fuoco quelle dell'inferno, quindi della condanna al limbo (che anche Dante aveva collocato negli inferi), evidentemente scongiurata.

I due ex-voto sono chiaramente “tardi” e il secondo riporta una data precisa, il 1852 che mostra come, più di un secolo dopo l'interdizione del rito, il répit ancora si svolgesse a Notre Dame De Vie, probabilmente in clandestinità.

La riscoperta del santuario avvenne soltanto negli anni '30, quando la famiglia Guinness (i celebri produttori irlandesi di birra), proprietaria dei terreni circostanti il complesso (tra cui anche l'area dove si trovava il cimitero e il giardino dietro l'abside), decise di rendere nuovamente fruibile la collina. In seguito al decesso della moglie di Benjamin Seymour Guinness nel 1931 e alla volontà di tumularla in una nuova tomba costruita accanto al santuario, i corpicini dei nati morti furono tutti esumati e raccolti nell'ossario interrato sul lato nord. Su di esso fu posta una lastra che recita: “ici reposent des petits innocents morts dés leur naissance”, letteralmente “qui riposano i piccoli innocenti morti nella loro nascita”.

 

 


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BIBLIOGRAFIA

Aa. Vv., Autur de notre-Dame de Vie – Actes de la journée d'études du 26 novembre 2011, Société Scientifique et Littéraire de Cannes, Cannes, 2013

Froeschlé-Chopard, Marie-Hélène, Tourrettes sur Loup au XVIII siécle. Héresie et scandale au village, Editions Serre, Nice, 2009

Gélis , Jacques, Les enfants des limbes. Mort-nés et parents dans l’Europe chrétienne, Audibert, Paris, 2006

Casalini, Fabio e Teruggi, Francesco, Mai Vivi Mai Morti, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2015


 

Pubblicato in Europa
Martedì, 04 Ottobre 2016 17:58

Il sator di Aosta: Saturno Regna!

Questa mia idea ha un inizio semplice: il centro del "sator circolare" della Collegiata di Sant'Orso ad Aosta non c'é un leone e tantomeno la raffigurazione si riferisce a Sansone.

Senz'altro molte volte rappresentazioni con tali caratteristiche (un personaggio a cavalcioni di una fiera nell'atto di spalancarle le fauci), sono state indicate come "Sansone che smascella il leone". Alcune presentano addirittura un titolo riferito all'eroe biblico (a Modena ad esempio). Per lo più si ipotizza una convergenza di miti pre-cristiani ( Ercole e il leone Nemeo) e biblici (Sansone).

Il dettaglio curioso, però, è che né SansoneErcole vengono mai descritti nell'atto di "aprire la bocca" al leone. Il primo lo squarta (quindi gli apre il ventre), il secondo lo percuote e poi lo strangola.

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Procedendo di particolare in particolare, a Sant'Orso la "bestia", a ben guardarla, del leone ha solo la corporatura e il muso. Le peculiarità del felino "maschio" (la criniera ad esempio) sono assenti. Potrebbe essere una leonessa, allora, ma sul suo capo sono ben evidenti due lunghe corna e la coda è innaturalmente lunga, sembra più un serpente...

L'animale mitico cui più si avvicina è la chimera, così descritta da Omero nell'Iliade (VI, 223-226): "...Era il mostro di origine divina, lion la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco: e nondimeno, col favor degli Dei, l'eroe la spense...".

Certo, quella di Sant'Orso non è una figurazione classica: manca la testa caprina e il muso da canide, sostituiti da lineamenti leonini e vistose corna. Ma è altrettanto singolare che sia una "presenza" ricorrente ad Aosta: una sua raffigurazione inequivocabile (con tanto di didascalia) fu infatti inserita anche nella pavimentazione del duomo della città (XIII sec.).

La sua nemesi è Bellerofonte, figlio di Glauco. Pare che l'avesse infilzata con la sua lancia dalla punta di piombo la quale, scaldandosi con il fuoco delle fiamme che erompevano dalle fauci del mostro, si sarebbe sciolta colando nella sua gola fino a soffocarlo. La strana "lama" triangolare su cui la veste dell'eroe, a Sant'Orso, sembra essersi impigliata lo identificherebbe proprio con il nobile di Efira.

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La lotta con il mostro è incorniciata da un triplo cerchio. In quello mediano scorrono le lettere del quadrato magico". La croce che separa l'inizio e la fine dell' "acrostico" si trova proprio sopra alla testa dell'eroe. Il palindromo rotas-sator alla destra e alla sinistra della croce, finisce così per identificarsi con il nome proprio del personaggio sottostante.

Sator è Saturno (Saturno da satus, "semenza" e sero, "seme"). Ma anche saturare (saziare). La preziosa informazione, sulla quale non ci si sofferma mai troppo, la regalò al mondo suo malgrado il noto esoterista Samuel Liddel MacGregor Mathers già nell'Ottocento, nella pur scarsa traduzione del quattrocentesco “The Sacred Magic of Abramelin the Mage”, in cui senza indugio identifica l'enigmatico nome con il dio-pianeta.

Ora l'immagine sembra farsi più nitida: è Saturno che "apre la bocca" alla chimera, la "invita" a sputare, a rigurgitare qualcosa. Sulla natura saturnina di Sansone e di Ercole esistono diversi studi...

Astrologicamente Saturno è il maestro del Capricorno, il suo "governatore" e la chimera con le corna caprine e la coda serpentiforme (il serpente che vive nell'acqua?) ricorda molto tale segno zodiacale.

Le membra leonine ne sottolineano la potenza (il tema è perfettamente rappresentato dalla XI carta dei Tarocchi), l'energia che da essa si sprigiona: Saturno è l'unico che può “tenerle aperta la bocca” e quindi gestire tale forza, senza pericolo.

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Il sesto pianeta era nell'antichità (prima della "scoperta" dei tre pianeti "moderni") il più esterno del sistema solare. Il suo particolare moto di rivoluzione intorno al sole è di 28 anni terrestri (7 x 4). Ogni anno si sposta di circa 7° sull'orizzonte e ogni 7 anni di circa 49°. Gli antichi astrologi ritenevano che il "ciclo di Saturno", suddiviso in settenari fosse il ciclo celeste fondamentale, quello che (essendo il più esterno di tutti) regolava tutti gli altri. I cerchi, sei in totale (Saturno è il sesto pianeta per distanza dal sole), che contornano l'enigmatica immagine di lotta a Sant'Orso, forse richiamano proprio l'idea dei cicli cosmici... così si spiegherebbe anche la particolare disposizione ad anelli concentrici del Sator dell'abbazia templare di Valvisciolo (LT).

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L'identificazione copta e bizantina dei cinque termini del quadrato del Sator con le Cinque Piaghe (o con i nomi propri dei Cinque Chiodi) di Cristo, fornisce un ulteriore spunto. Quattro sono "periferici" (le due mani, la ferita dei piedi e quella del capo causata dalla corona di spine), una è centrale (la ferita del costato): non è difficile immaginarsi una ruota definita proprio dal chiodo centrale (il mozzo) e da quattro punti sulla circonferenza che definiscono i due assi di una croce.

Saturno è un'allegoria del piombo da trasformare in oro di cui favoleggiano alchimisti, ma è anche il piombo del filo del muratore (il sole), che fornisce la misura.

Perciò è detto "aratro": il solco che traccia è quello in cui poi si ordineranno i semi della vita. Ma quel solco è anche la divisione fra la vita e la morte, il taglio netto del tristo mietitore.

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"Saturno, l'aratro, governa i cicli della vita".

Questa forse è la più semplice traduzione del celeberrimo quadrato magico. L'aratro è la scansione del tempo. Più precisamente: "Saturno con il suo ciclo (tempo) regge (governa) i cicli della vita (dell'esistenza universale)".

Nel Sator circolare di Aosta, Saturno tiene il Capricorno: poiché questo è il primo segno zodiacale dopo il Solstizio Invernale (il momento in cui "il sole muore"), Saturno, che è il suo pianeta "maestro", è il "regolatore" di tutto ciò che ri-nasce.

Gli elementi che contornano Saturno al governo del Capricorno, sono la "quadratura del cerchio". I quattro animali agli angoli, anziché essere i quattro emblemi degli evangelisti (leone, uomo alato, toro, aquila, ovvero Marco, Matteo, Luca e Giovanni), sono creature mostruose, di un ordine diverso.

Il "piccolo leone" e l' "uomo in bocca al pesce" sono rispettivamente la costellazione zodiacale del Leone e dell'Aquario (astrologicamente equivalgono alla posizione in cui Saturno è in Esilio e in Domicilio), mentre il "drago" e l' "aquila a due corpi" sono i due segni zodiacali che precedono il Toro (Luca) e L'Aquila/Angelo (Giovanni). Corrispondono all'Ariete e alla Bilancia e sono, di nuovo, due posizioni chiave di Saturno, Caduta ed Esaltazione!

Insieme rappresentano i quattro momenti cruciali del ciclo di Saturno.

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Ma non finisce qui. Le gambe di Saturno a cavalcioni della chimera sono di un color rosso mattone piuttosto acceso, come se l'autore avesse voluto evidenziarvi un particolare senso. Fin dai tempi di Sparta la gamba piegata all'altezza del ginocchio è un simbolo di forza, di dominio e insieme di appartenenza sociale.

Le due gambe rossastre e piegate ad angoli diversi del Sator di Sant'Orso sono in qualche modo collegate, tramite il medesimo colore, al collo (la testa) dell' "aquila a doppio corpo" e con la pinna caudale (i piedi) dell' "uomo inghiottito dal pesce". Le gambe sono dunque il doppio ritmo che collega la testa ai piedi: un richiamo alla ciclicità e alla doppia spirale del tempo, di cui Saturno è ìl fulcro.

Per calcolarne la posizione in cielo è sufficiente osservarlo in rapporto all'Orsa Maggiore, detta appunto Aratro e "trainata" dai Septem Triones, i sette buoi che sono le sue sette stelle maggiori.

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Perfino lo spiritualista russo Gurdjieff nei suoi libri potrebbe averlo citato come signore del tempo, anagrammandone la qualità di "arepo" (aratro, solco) in "(h)eropa(s)".

Saturno è il "Signore del Mulino (del cielo)", l'antico dio arabico Hubal, che dimora nel pozzo presso la Ka'aba. La Pietra Nera incastonata nel luogo più sacro della Mecca è essa stessa Saturno. Egli è dunque la "pietra angolare", l'origine e misura di ogni cosa.

È il mesopotamico Enki-Ea e l'egizio Ptah, gli dei creatori. Ed è anche il mitico Imperatore Giallo orientale, "inventore" della medicina cinese e di tutte le arti ad essa collegate.

Nella mitologia celtica è Fearn-Foroneo, detto Bran-il-Benedetto, la testa oracolare che restituisce responsi e vaticini, poiché conosce il passato e il futuro.

Ma Saturno è il "tempo" dei pagani. Perciò fu nascosto sotto il pavimento della collegiata di Sant'Orso (sorgeva forse su un tempio dedicato al dio Sator?), ma non dimenticato.

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Sulla sua testa (quella di Adamo, il Golgotha) il Cristo piantò la sua croce, spodestandolo. La vita però aveva bisogno di lui. Come i "celti" percuotevano l'ontano a lui caro cantando "vieni fuori dalla tua pelle!", così il Crocifisso lo privò della sua, gli mise in mano un coltello al posto della falce/aratro e gli diede il nuovo nome di Bartolomeo.

Perfino il curioso rituale del "passar sotto l'altare" nella cripta della chiesa, richiama nella sua ciclicità il trascorrere del tempo e di conseguenza una qualche usanza per "annullarlo". Si dice che si tratti di un "rito di fertilità". Ma, poiché, il complesso sorge su una antichissima e assai vasta necropoli, sembrerebbe piuttosto indicare una volontà diversa: rivolgersi al tempo-Saturno per "trascorrere", "passare attraverso" e procedere verso la "rinascita"...

Conoscere i ritmi di Saturno, il ciclo che è alla base di tutti i cicli e che tutti li governa, come l'anello dei romanzi di Tolkien, è anche l'inizio di un cammino di conoscenza.

Il Quadrato del Sator, perciò, forse non era un qualche simbolo di potere o un talismano miracoloso, bensì il segno di appartenenza di quelli che, quel cammino, decidevano di intraprenderlo, che fossero streghe silvestri (che lo chiamavano Cernunno), probi viri romani o prodi cavalieri Templari.

Era il sovrano della Festa dei Folli, che intonando "il Canto dei Cervi" invitava i sudditi al sollazzo, così come già era accaduto molti secoli prima durante i Saturnalia. Così, le differenze, ritualmente si annullavano in ricordo della vita terrena di Saturno: "Orfeo ci rammenta che Saturno visse apertamente sulla terra e tra gli uomini" (frammento orfico).

I rilievi hanno evidenziato come il mosaico del Sator sia stato ricavato (nel XIII secolo) sopra e al centro del vano funerario più importante dell'intero complesso. La nicchia era confinante con la parete della cripta ancora visibile attraverso un muro in cui erano ricavate tre finestrelle opportunamente polarizzate: due monofore (plus e minus) e una bifora centrale (neutro), che consentiva di "vedere", almeno simbolicamente, i "corpi santi". Quali ossa ospitasse esattamente non si sa. Il complesso è da sempre intitolato ai santi Pietro e Orso. Che quest'ultimo giacesse sotto al Sator, quasi a farne le veci?

 

 


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BIBLIOGRAFIA

Cammilleri, Rino, Il quadrato magico, Rizzoli, Milano, 1999

Chevalier, Jean e Gheerbrant, Alain, Dizionario dei Simboli, Bur, Milano, 1999

De Santillana, Giorgio e Von Dechend, Ertha, Il Mulino di Amleto, Adelphi, Milano, 1983

Granatelli, Rosella, Del Latercolo Pompeiano, Simple, Macerata, 2010

Graves, Robert, La Dea Bianca, Adelphi, Milano, 2009

Guarducci, Margherita, Il misterioso “Quadrato Magico”, l'interpretazione di Jérome Carcopino e documenti nuovi, in Rivista di archeologia classica, XVII, Istituto di Archeologia dell'Università di Roma, Roma, 1965

Iannelli, Nicola, Sator - Epigrafe del culto delle sacre origini di Roma - la genesi e il significato del quadrato magico svelati nella teoria della correlazione astronomica, Bastogi, Foggia, 2009

Perinetti, Roberto e Pasquini, Laura, Il mosaico del coro della chiesa dei santi Pietro e Orso ad Aosta, in Actes du IX Colloque de l'Association Internationale pour l'Etude de la Mosaïque Antique (AIEMA), Roma, 6-11 novembre 2001, éd. H. Morlier, Roma 2005

 


Pubblicato in Cose
Sabato, 11 Luglio 2015 18:39

Noi siamo legione, Noi siamo dei

Ho domandato la verità di quei fatti a uomini capaci di farmela conoscere” (Eucherio di Lione)

 

Mediolanum, anno 342. Atanasio di Alessandria, grazie all'intervento del suo grande amico e difensore Protaso, ottavo vescovo della città, viene ammesso al cospetto dell'Imperatore Costante. Il regnante ascolta con attenzione l'esule mediorientale, bistrattato campione di fede e strenuo difensore dell'ortodossia. Infine decide di intercedere presso il fratello affinché venga reintegrato nella sede vescovile di Alessandria, da cui era stato sollevato anni prima dopo i contrasti con i “meleziani”.

È forse durante questa visita che Protaso, con la precisa volontà di cristianizzare la Gallia cisalpina e in particolare il Vallese, si rivolge al suo pari. Non può occuparsi personalmente della faccenda e la Religione, anche se ormai “liberalizzata” ancora non dispone in terra italica di uomini coraggiosi, di comprovato intelletto e abituati a confrontarsi con gli stranieri sulle questioni spirituali, come ne esistono invece in oriente. Inoltre, l'arianesimo si sta diffondendo oltralpe e nessuno meglio di Atanasio che, ancora diacono, aveva partecipato al concilio di Nicea, indetto proprio per risolvere la questione di Ario, lo conosce e sa come affrontarlo.

Forse è così che un certo Teodoro fu inviato dopo poco a convertire i Galli recalcitranti del Vallese. Il suo nome è di chiara origine orientale e viene associato per omonimia ad un soldato facente parte della legio XII fulminata, nota soprattutto per i 40 martiri di Sebaste (tra i quali si annovera appunto un Teodoro/Teodulo), che fu di stanza anche in Egitto. Poteva dunque il missionario inviato nel vallese essere di origini greco-egizie?

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Incamminatosi lungo la via romana, dopo una sosta tra i fasti di Augusta Pretoria, Teodoro sale fino al passo del Mons Iovis per poi puntare deciso verso il castrum Tauredunense, passaggio obbligato verso le terre germaniche e sede amministrativa del territorio presso il quale avrebbe dovuto svolgere la sua attività di predicatore.

L'insediamento fortificato sorge nei pressi di una parete rocciosa, dalla quale sgorga una copiosa fonte d'acqua pura. Idoli pagani, statue e cippi testimoniano la perversione di queste genti, non solo dei selvaggi galli, ma anche dei Romani che vi si sono insediati. Alcuni sono ignoti, mostruosi. Altri li riconosce. Li pensava sepolti, distrutti. Invece sono vivi e adorati dai locali. Si informa, chiede, osserva, studia e si rende subito conto che solo la presenza di un vero “testimone della fede”, anzi uno per ogni idolo pagano, può condurlo alla vittoria in questa battaglia contro la miscredenza.

I giorni passano. C'é un sepolcro in un angolo della necropoli presso la rupe, vicino al ninfeo con le sue acque cristalline. Pare sia il più antico. I gallici gli tributano i massimi onori. Attende ancora. Predica. Poi, quando tutto è pronto, con l'appoggio del senatore, risolleva i futuri “martiri” dalle tombe. Non trova le loro teste ma, accanto ai loro resti, rinviene lunghe spade...

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Sappiamo poco di come andò veramente. Fu Eucherio di Lione, molti anni dopo, a scrivere la storia, leggendaria, di certi soldati martirizzati per aver rifiutato di uccidere poveri cristiani. Il vescovo era solo l'ultimo di un nutrito gruppo do asceti francesi che, folgorati dalla vita monastica avevano tentato di trasfeirsi in Egitto, e precisamente in tebaide, dove l'eremitaggio era nato. L'idea probabilmente gli era venuta frequentando Ilario, il futuro arcivescovo di Arles, a Lerìns. Il monastero era stato fondato dal predecessore e parente di Ilario, Onorato, dopo aver invano tentato di imbarcarsi per l'Egitto e raggiungere Tebe, dove intendeva abbracciare la regola monastica del pagano convertito Pacomio.

Eucherio, pur avendo rinunciato a viaggiare verso l'Egitto, si era ritirato in una grotta non lontano da Arles. La nostalgia per la vita eremitica e per la lontana terra dei faraoni, però, non l'aveva lasciato neppure quando era stato eletto alla cattedra lionese. Sempre accanto al maestro ed amico Ilario, nutriva evidentemente la certezza che gli insegnamenti dei padri del deserto fossero la soluzione a tutti i problemi cui dovevano far fronte, dalla regolamentazione dell'attività vescovile, alla cristianizzazione delle zone ancora pagane, alla feroce disputa con i pelagiani. È in questo contesto che Eucherio scriverà il più celebre dei testi, Passio Acaunensium Martyrum, in cui ripercorre la storia leggendaria dei soldati martirizzati, la Legione Tebea, e la riscoperta dei loro corpi per opera di Teodoro. Sull'effettiva storicità del racconto e dei suoi successivi rifacimenti ancora si discute. Un contingente militare che però, a quanto pare, di tebano non aveva nulla, fu effettivamente invitato sul finire del III secolo nella zona per soffocare la rivolta dei Bagaudi. Erano tuttavia esistite alcune unità militari romane “tebaiche” per titolo onorifico, non certo perché i componenti erano stati arruolati nei deserti nilotici e una di queste era stanziata in Italia al tempo della riscoperta dei corpi santi.

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Stando al vescovo di Lione, il contingente contava 6600 soldati. In fasi successive e per ripetute decimazioni (pratica in realtà in disuso da secoli) sarebbero stati tutti uccisi per decapitazione. Ma di essi ci restituisce soltanto tre nomi certi Maurizio, Essuperio, Candido (quelli di cui Teodoro avrebbe ritrovato i resti), cui aggiunge Vittore e in successive versioni Orso “secondo la tradizione popolare” (e di cui evidentemente non erano state rinvenute reliquie). Attualmente la “lista” dei tebani conta almeno 500 nomi, che si aggiunsero nel corso dei secoli, ritrovati prodigiosamente e sovente indicati come quelli che, inverosimilmente, sarebbero riusciti a fuggire dal massacro, ripiegando in piemonte e in Francia, dove sono per lo più localizzati.

L'archeologia, al già complesso e intricato problema ha aggiunto ulteriori misteri. Gli scavi effettuati fin dagli anni Cinquanta, ma soprattutto a metà degli anni Novanta, sotto e intorno all'Abbazia di San Maurizio ad Acauno/Agauno (nome tributato da Sant'Ambrogio al castrum Tauredunense proprio in onore dei legionari martiri) hanno riportato alla luce le vestigia dei primi edifici cristiani, risalenti al III sec. Sei tombe, vuote, sono state individuate sotto il pavimento della chiesa più antica.

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Soprattutto sono riemersi dal passato utensili dell'età del bronzo, resti di templi, di are votive, di cippi e di lapidi che restituiscono un'immagine di Agauno ben diversa da quella di un semplice castrum romano. Da sempre frequentata, prima dell'avvento dei tebei la rupe rocciosa era un luogo “NYMPHIS SACRUM”. La fonte che sgorgava da un anfratto nella viva roccia, alimentava probabilmente un “ninfeo”, tempio delle divinità benefiche dell'acqua greco-romane, di cui è però stato rinvenuta solo parte dell'arco di accesso e l'altare con l'iscrizione che lo ricorda (II sec. circa). Le acque dello stesso furono poi usate per alimentare il battistero costruito nei pressi della parete rocciosa.

Altri cippi testimoniano che uno dei numi tutelari di Agauno era certamente Mercurio, cui un esattore di nome Montano avrebbe consacrato, dopo averlo restaurato, un tempio “decadente per la sua antichità”. E ancora un altro esattore, Daphnus elevò un monumento al dio [Jupiter] Optimus Maximus. Il duumviro Vinelio Vegetino addirittura dedicò un cippo al misterioso Sedatus, il dio-cavaliere nero della Pannonia.

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I ritrovamenti riecheggiano le parole di Giulio Cesare: “Il dio che essi [i Galli] onorano di più è Mercurio: le sue statue sono le più numerose, essi lo considerano come l’inventore di tutte le arti, è per essi il dio che indica la rotta da seguire, che guida il viaggiatore, è colui che maggiormente è capace di far guadagnare denaro e di proteggere il commercio. Dopo di lui, adorano Apollo, Marte, Giove e Minerva. Hanno di questi dèi pressappoco la stessa idea che ne hanno gli altri popoli: Apollo guarisce le malattie, Minerva insegna i princìpi delle opere e delle tecniche, Giove è il signore degli dèi, Marte presiede alle guerre” (De Bello Gallico, VI, 17).

Non sarebbe strano se il Mercurio di Montano e il Giove di Daphnus fossero la romanizzazione di dèi locali. La convivenza delle divinità di ogni regione dell'impero è ben testimoniata nelle ville romane e proprio sul finire del IV sec. (392-393 d.C.) l'usurpatore Eugenio occupa l'italia e dopo aver raggiunto Roma, fa riaprire i templi pagani (chiusi ma non distrutti).

Non va poi dimenticato che O.M., acronimo di Optimus Maximus e sempre riferito al “dominusGiove, veniva usato per rinominare la massima divinità di ogni regione o città conquistata Così il Baal libanese era Juppiter Optimus Maximus Helipolitanus (Heliopoli è Baalbek) e Amon, dio egizio di Tebe, Juppiter Optimus Maximus Hammon.

Teodoro, giunto ad Agauno, si sarebbe dunque trovato a dover “competere” con uno stuolo di divinità locali “presiedute” da Giove. Costui era facilmente trasmutabile nel dio unico cristiano, così come era avvenuto in altri luoghi (ancora oggi D.O.M. antico epiteto di Giove è ben visibile su innumerevoli chiese cristiane!), gli altri déi dovevano invece necessariamente essere ridotti a santi, meglio se martiri i cui corpi erano lì sepolti. Ma erano tanti.

Se il futuro primo vescovo del vallese era davvero egiziano, forse li avrebbe presi per divinità egizie, a partire da Giove con la corazza, così simile a Giove Ammone e fino a Sedatus, con la mantella nera e in sella a un cavallo nero, colore che in Egitto è quello della pelle degli dei.

Ritrovò, come detto, alcuni corpi presso la parete rocciosa. Erano probabilmente antichi sacerdoti-druidi sepolti con spade rituali. Non ci sono evidenze storiche che i celti vallesani fossero grandi guerrieri ma spesso sono state trovate lunghe lame nelle sepolture. Lo stesso è accaduto in Ossola, dove, altrettanto, i cosiddetti Leponti non hanno mai avuto fama di essere grandi guerrieri, eppure le loro necropoli sono state trovate piene di spade... è curiosa a tal proposito una annotazione di Plinio, secondo il quale vallesani e lepontini erano “imparentati”.

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Forse erano lunghe spade rituali, segno del “viaggio” spirituale dei loro possessori, sacerdoti che avevano “tagliato” e “reciso” ogni legame per incamminarsi lungo la strada dello spirito. La dedicazione alla ninfe e la sicura presenza di un ninfeo, collegano poi le spade al culto delle acque (in Cina si piantava nel terreno una spada in corrispondenza di una falda acquifera per far sgorgare una nuova sorgente e forse così facevano anche i legionari romani. In alcuni casi anche i menhir megalitici potrebbero essere stati usati per tali scopi).

Ma agli occhi di un egiziano quelle divinità mezzo celtiche e mezzo romane (è sempre Plinio a notare una certa somiglianza tra l'Egitto e la Gallia, unici paesi in cui si coltivava con successo il lino) sarebbero sembrate proprio entità della religione pagana dei faraoni. Occorreva decapitarli (tale fu non a caso la sorte dell'intera Legio Angelica o Tebea), privarli della loro parte più divina, per poterli ridurre a semplici corpi santi umani. Quanto alle spade, essi sarebbero stati i “militi” della fede grazie ai quali Teodoro avrebbe cristianizzato il Vallese e nessun soldato poteva essere migliore di un soldato vero che aveva rinunziato alle armi della guerra per abbracciare quelle della religione!

L'unico “problema” era la loro origine egiziana. Ma proprio in quegli anni in Italia nord occidentale era stanziata una unità militare (non una legione!) romana che secondo la Notitia Dignitatum portava l'appelativo di “Thebeorum”.

Ecco dunque... soldati martiri arruolati in Egitto e portati a combattere nel Vallese! Quelli riportati da eucherio per bocca di Teodoro sono giusto quattro.

Il dio tebano Knum: Maurizio, “primicerius”, cioè cavaliere, com l'Apollo-Sedatus dio solare (è caso che san Martino di Tours, forse un alterego dello stesso Sedatus, si “recò a omaggiare” i Martiri Tebei ad Agauno dopo la loro riscoperta?).

Il dio Seth: Vittore, il veterano di guerra, il caos antico, come il signore del caos Saturno (necessario però alla vita. Minerva è, al femminile la “guerra giusta e necessaria”)

Il dio Thot: Esuperio,explorator”, il viaggiatore/messaggero Mercurio.

Il tebano Montu: Candido,senator militum”, il signore della guerra Marte.

Ben presto anche nei territori limitrofi le divinità celto-egiziane sarebbero state “arruolate” nella Legione...

 

 

 


BIBLIOGRAFIA:

Henri Michele, Saint-Maurice: aperçu sur le site archéologique du Martolet, in Les Echos de Saint-Maurice tome 84, Abbey de Saint Maurice, 1998

David Woods, The Origin of the Legend of Maurice and the Theban Legion, in “Journal of Ecclesiastical History”, Vol. 45, No. 3, July, 1994 Cambridge University Press

Massimo Centini, Martiri Tebei, Priuli e Verruca, Ivrea, 2010

Van Berchem, D. Le Martyre de la Légion Thébaine: Essai sur la formation d'une légende, Basle, 1956

John Arnott MacCulloch, The religion of the ancient celts, T. & T. Clark, Edinburgo, 1911

Thomas W. Rolleston, Myths and Legends of the Celtic Race(1911), Digireads.com Publishing, 2010

Ernest Alfred Wallis Budge, The gods of the Egyptians or studies in Egyptian mithology, 2 voll, Open Court Publishing Co., Chicago, 1904

Beniamino M. Di Dario, La 'Notitia Dignitatum'. Immagini e simboli del Tardo Impero Romano, Edizioni AR, Padova, 2006

 


 

Pubblicato in Personaggi
Sabato, 18 Luglio 2015 17:26

Divine incorporazioni

Nel lontano 525, l'asceta norcino Benedetto, dopo aver rischiato più volte l'avvelenamento da parte di certi suoi confratelli a Subiaco, parte per Cassino e attraverso il bosco consacrato a Venere, sale fin sulla cima del monte che domina l'abitato, dove sorge un tempio di Apollo. Qui, come racconta San Gregorio Magno nei Dialoghi, “fece a pezzi l'idolo, rovesciò l’altare, sradicò i boschetti e dove era il tempio di Apollo eresse un oratorio in onore di san Martino [di Tours] e dove era l’altare sostituì una cappella che dedicò a san Giovanni Battista”.

Dove c'era l'ara dunque, Benedetto ci mise il battistero, facendo poi vate del nuovo edificio il vescovo gallico. Perché?

Riecheggiano in questa scelta del futuro fondatore dei benedettini, le parole proto-cristiane del “padre della chiesa” San Girolamo: “Rivolto agli idoli il culto è esecrabile, consacrato ai martiri è da accettare”. Così dunque fece anche il grande monaco: rese accettabile un culto che non lo era.

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Tagliò dunque tutti gli alberi del bosco sacro, rovesciò l'altare pagano, mise al suo posto una nuova cappella dedicata al Battista, che senza dubbio fu usata come battistero e dedicò ad un santo il nuovo oratorio. In tal modo nessun avrebbe più potuto far uso di quel luogo per culti “superstiziosi” e l'altare del dio cristiano, elevato sulle rovine di quello pagano, avrebbe testimoniato il trionfo della nuova religione sulle altre.

Ma per far questo, bisognava esser certi che la popolazione si “arrendesse” docilmente e il tempo delle persecuzioni inquisitorie era ancora lontano. E neppure esisteva uno “stato cristiano” o “pontificio” con un proprio esercito armato in grado di imporre una nuova regola, una nuova legge, una nuova tassa sulla popolazione. I “cristianizzatori”, perciò, dovettero scatenare la loro fantasia in quei primi secoli, ricorrendo a stratagemmi e soluzioni a volte estremamente ingegnose. Lo scopo era sempre lo stesso... far vestire a una divinità antica, a un luogo, a un idolo, a un venerato oggetto di culto, a una festività abiti nuovi, coerenti con il messaggio della religione cristiana.

Bisognava agire d'astuzia: gli dei antichi, specie quelle nordici e barbari, erano entità vive, che si manifestavano apertamente al mondo. Tuoni, fulmini, saette, acque, alberi e boschi, oceani, onde erano tutte loro gesti e azioni. La novella religione invece aveva fatto piazza pulita di ogni simulacro, riconducendo tutto ad un solo dio e condannando ogni altra forma cultuale come idolatria. Affinché il passaggio fosse possibile, non era sufficiente “inventare” semplicemente un abito. Andava preparato, studiato e cucito su misura e doveva essere altrettanto vivo, simile e insieme diverso dal “nemico”. Ci voleva un vero e proprio “esercito” di “incorporazioni” e “personificazioni” capace di agire spiritualmente come una vera milizia.

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Per Benedetto, l'antichissimo vescovo santo di Tours -non a caso un legionario “pentito”- funzionò a meraviglia. Di certo un Martino, figlio di un soldato di Roma e fatto vescovo doveva essere vissuto un paio di secoli prima del monaco. Ma la sua vita, grazie alle provvidenziali “legendae” si era quasi subito arricchita di particolari attentamente studiati.

Il nome di origine romana, che letteralmente, è traducibile come “sacro a Marte”, potrebbe trarre in inganno. Ben più interessante invece l'insieme dei suoi attributi, perfettamente ricalcati sull'antico eroe-dio germanico Wigalois e sul suo alter ego senza nome ungherese/bulgaro di origini trace, il “dio-cavaliere” di Madara con il mantello corto. È il “sol invictus” dei Romani, che morendo alla sera, vince la morte e risorge il mattino dopo dagli inferi; ed è anche Apollo che, appunto, avvolto dal mantello, conduce il cocchio del sole. Forse è quel misterioso “sedatus deus”, il dio assiso noto solo attraverso alcune epigrafi ritrovate per lo più in Pannonia e nelle zone limitrofi (terra di origine, guarda caso, di San Martino).

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Ma Gesù era il nuovo sole vincitore sulla morte, “il sole di giustizia”! Nessun altro “sole” poteva essere suo pari e andava quindi immediatamente abbattuto, cancellato... a meno che non diventasse un docile servitore del Cristo fatto uomo...

Curiosamente il “miracolo” del mantello per cui il vescovo Martino fu poi riconosciuto come santo, viene collocato ben prima della sua conversione al cattolicesimo. Anzi, pare che proprio il miracolo sia indirettamente all'origine della sua adesione alla nuova religione. Quale “miracolo”? La sua versione poetica e fiabesca racconta che avrebbe “ceduto parte del suo mantello” a un vagabondo mendicante (nel quale viene generalmente riconosciuto Gesù), per poi ritrovare il mantello integro il mattino seguente al risveglio. Ma non è difficile leggere tra le righe, la storia leggendaria di come il dio-sole-cavaliere fu “fatto santo” in cambio della sua rinuncia ad essere “dio”. Cedendo “la metà del cielo” al nuovo dio, sarebbe entrato a far parte della schiera dei suoi “eletti”. Con la metà rimasta avrebbe infatti continuato a servire il nuovo che giungeva. Il mantello corto della leggenda si chiama “cappella” e con tale nome sarebbero poi state chiamate le strutture religiose cristiane: cappelle (chiesa-ecclesia, oratorio, cattedrale, ecc. si riferiscono non tanto alla “struttura” quanto a chi vi si “raduna” all'interno e ne fa uso).

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Tutto, in verità era cominciato all'indomani delle persecuzioni di Diocleziano. La riabilitazione costantiniana della “setta giudaica” poi resa religione da Teodosio, non esitò a usare i corpi degli Apostoli, almeno quelli delle cui sepolture conservava memoria, come strumenti di propaganda e affermazione. Era stato proprio Costantino a inaugurare tale usanza, erigendo il “vaticano d'oriente” nel cuore dell'Impero Bizantino riunificato (la prima basilica di Santa Sofia a Bisanzio diventata Costantinopoli, proprio dove erano custodite le più importati reliquie della vita di Cristo) e il futuro Vaticano “d'occidente” a Roma, sulla tomba dell'apostolo Pietro.

Ben presto, alla stregua del rinnegatore, tutti i corpi dei martiri sotto Diocleziano avevano seguito la stessa gloriosa sorte. Infine, la riscoperta di alcune catacombe cristiane avrebbe reso “martiri” tutti quelli che vi erano sepolti. Così le “nuove reliquie” cominciarono a sostituire quelle antiche, rendendole vive al pari degli “enti” di cui prendevano il posto. Si avverava quanto già aveva scritto Sant'Agostino nel De Civitate Dei: “Così i miracoli degli dei sono stati sconfitti dai miracoli dei martiri” che, però, aveva anche precisato: “Quando noi offriamo il Sacrificio presso i sepolcri dei martiri non è forse a Dio che l'offriamo ? Senza dubbio i Santi martiri hanno un posto d’onore tuttavia essi non sono adorati al posto di Cristo”.

Ma l'abuso di tale pratica costrinse a prendere provvedimenti rigidi. Si stabili dunque nel 401, durante il Concilio di Cartagine che luoghi di culto potevano sorgere solo dove il corpo del martire, la sua “memoria” fosse presente per “fidelissima origine”, con assoluta certezza. Allo stesso modo fu istituito il canone “Item placuit” che imponeva che tutti gli altari consacrati dovessero contenere una reliquia.

Così, fatta la legge, fu fatto anche l'inganno. Se, per dirla con Teodoreto di Ciro: “I martiri hanno cancellato dalla memoria degli uomini tutto ciò che ricordava gli dèi. Infatti, il Signore ha messo i propri amici al posto loro”, già all'indomani del Concilio emersero invece dal buio della storia i primi santi non-martiri, primi fra tutti San Martino e Sant'Antonio, appositamente destinati a perpetuare la memoria delle entità pre-cristiane. Le reliquie antichissime rinvenute nei luoghi sacri “pagani”, sotto gli altari rovesciati, venivano infatti prontamente ricondotte a un santo “cristiano” la cui vita veniva per lo più cucita su misura a partire da quella di un personaggio (preferibilmente battezzato!) realmente esistito. Quando ciò non era possibile si procedeva a costruire una biografia adatta, come dimostrano le numerosissime “vite dei santi” stereotipe e riconducibili ad un modello comune e consolidato.

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Certo, rendere cristiana una divinità greca, romana o orientale già rappresentata in forme umane non era difficile. Tuttavia, mentre grazie all'esercito “spirituale” il cristianesimo si espandeva, le ripetute incursioni barbare e l'estendersi della “nuova religione” oltre Roma rilanciò nuove sfide.

A volte erano i “missionari” invitati a cristianizzare, più spesso erano gli stessi “pagani” a prodigarsi nel nascondere sotto mentite spoglie i loro dei, curandosi che il travestimento non “rovinasse” in alcun modo l'ente cui, in tal modo potevano continuare a rivolgersi, sicuri di “ricevere risposta”.

Ma era difficile ricondurre a volti umani entità germaniche, gote, nordiche spesso incorporate in pietre infisse nel terreno, in grotte o in fonti, come era ben più difficoltoso dare fattezze umano a una ricorrenza, a un mese dell'anno o a una pianta; peggio ancora quando a dover prendere un vestito era una malattia o il suo rimedio, oppure quanto molti elementi eterogenei erano compresenti.

Alcune volte si “rese” persona” uno specifico aspetto di una divinità pagana o una sua particolare capacità taumaturgica. Apollo “sol invictus”, come detto, diventò San Martino, ma in quanto “Efebo”, guaritore, fu incorporato nelle fattezze di Sant'Efebo. Altre volte, come nel caso di Santa Lucia, venne “fatto santo” un rimedio, una malattia o una medicina. Rocce e menhir si trasformarono nelle spade conficcate a terra e negli scudi dei martiri legionari.

Addirittura certe ricorrenze furono “incorporate”, dalle Idi di Marzo romane diventate Santa Ida, ai Saturnalia trasformati in San Saturnino, al capodanno celtico Samhain sdoppiato in Giuda (l'inizio della festa) e Leonardo (la fine).

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Il recupero della figura mariana, poi, risolse di certo molte difficoltà...

L'esercito “spirituale” continuò a crescere e ad espandersi, grazie anche ai primi missionari che sarebbero diventati santi a loro volta. Neppure le invasioni barbariche riuscirono a fermarlo. Sembrarono riuscirci, in parte, soltanto i discendenti lontani di Maometto, quando conquistarono Gerusalemme a metà circa del VII secolo privando il cristianesimo delle sue origini. Si cominciò a desiderare che la “milizia” spirituale diventasse un vero esercito, in grado di riconquistare la terra santa. Quattro secoli abbondanti più tardi, finalmente, cristiani armati penetrarono di nuovo nel Santo Sepolcro. Molti di essi si costituirono successivamente in gruppi più o meno organizzati sottoposti a regole monastiche. Templari e Cavalieri di San Giovanni furono da molti ritenuti, se unificati sotto uno stesso comando, proprio la realizzazione dell'antico sogno.

Forse per questo Jacopo da Varazze, arcivescovo di Genova, le cui navi avevano fornito il legno per le torri d'assedio grazie alla quali Gerusalemme era stata riconquistata dalla cristianità nel 1099, aveva cominciato nel 1260 circa a scrivere la preziosa raccolta agiografica nota come “legenda aurea”. Forse cercava di ricostruire un legame tra le “legione” spirituale dei santi martiri e il futuro esercito cristiano. Portò a termine l'immane lavoro, ricostruendo la vita reale e/o mitica dei santi e i rapporti di ciascuno con il calendario e i mesi. Ma il sogno si infranse miseramente nel 1291. I musulmani si ripresero Gerusalemme. I Giovanniti ripararono a Cipro, poi a Rodi e infine a Malta. I Templari, troppo ricchi e troppo distanti dalla regola su cui erano stati fondati, furono brutalmente sciolti.

Con la disfatta gerosolimitana e gli scismi, si sarebbe presto affacciata anche la Riforma, le eresie e il ritorno dei culti antichi che non erano mai stati veramente dimenticati e avevano continuato ad agire sotto mentite spoglie.

La minaccia ormai non bastava più. Solo le esecuzioni esibite sulla pubblica piazza sortivano un qualche effetto. Allo stesso modo, bisognava dare una testimonianza ancor più visibile della vera religione attraverso i suoi eroi. Così, i martiri cominciarono ad uscire dalle loro tombe per essere mostrati nella loro santa incorruttibilità agli occhi sgranati e sgomenti dei fedeli: ““Il Santo Concilio [di Trento] comanda ai vescovi e a coloro che hanno la funzione e l'incarico di insegnare [...] di istruire con cura i fedeli sugli onori dovuti alle reliquie [...], mostrando loro che i corpi santi dei martiri e degli altri santi, che vivono con il Cristo e che furono membra viventi di Cristo e tempio dello Spirito Santo [...], attraverso cui benefici numerosi sono accordati da Dio agli uomini, devono essere venerati dai fedeli”.

Ma molte chiese sorgevano su “tombe vuote”. Erano piene di cadaveri senza nome e “pronti all'uso”, invece, le catacombe romane...

 

 

 


BIBLIOGRAFIA

San Gregorio Magno, Dialoghi, VII-VIII sec.

Margarethe Riemschneider, La religione dei celti. Una concezione del mondo, Rusconi editore, 1997

San Girolamo, De viris illustribus, IV sec.

Iacopo da Varazze, Legenda Aurea, Testo critico riveduto e commento a cura di Giovanni Paolo Maggioni, SISMEL Edizioni del Galluzzo, Firenze, 2007

Aviad Kleinberg, Storia di santi - Martiri, asceti, beati nella formazione dell'Occidente, Bologna, Il Mulino, 2005

 


 

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Martedì, 23 Giugno 2015 11:06

Audesia e lo stregone

Nella penombra degli archi e delle volte intonacati ma cadenti, quando la prima lama di luce s'infila nel vano appena schiuso del portoncino d'ingresso, vescovi e madonne sgranano gli antichi occhi affrescati. Finalmente un raggio di sole buca la polverina sottile sospesa nell'aria, finalmente qualcuno si è ricordato di loro.

L'ultima frequentazione è di non più di due decenni fa. Poi di nuovo l'oblio. Si decise di scavare nel pavimento di San Lorenzo e quel che ne venne fuori... Ci si affrettò a sostenere e celebrare la fondatezza della leggenda, quella del diacono cristianizzatore che, insieme al fratello, poi approdato all'Isola di Orta, aveva rovesciato le are degli Agoni, sostituendole con gli altari del dio cattolico.

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Ma su come davvero la Religione si fosse diffusa tra i pagani ai piedi dei laghi alto-piemontesi, mancavano -e in parte mancano- studi efficaci. Quanto agli scavi autunnali del lontano 1996, sono stati dati alle stampe soltanto resoconti tecnici. Una ricerca che, finalmente, ritessendo coraggiosamente i fili della storia, accordi le informazioni, le storie e le leggende, ancora tarda a nascere.

Di certo c'é che, tra il settembre e il dicembre di quell'anno, molte sorprese vennero fuori dal pavimento della malconcia chiesa dedicata al martire Lorenzo. Si sapeva, così narrano le cronache, che l'aveva fondata un missionario giunto da Egina nel V sec. circa. Giuliano, poi, si era costruito al suo interno -o lì accanto- una tomba per sé.

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Le reliquie vi rimasero per alcuni secoli finché, in data ignota, furono tolte da quel sepolcro -si presume per proteggerle dagli invasori longobardi- e nascoste nella nuova Basilica del paese.

Di recente resti del castrum antico, di vetusti selciati e di vecchie cripte colme di ossa sono comparsi inavvertitamente nel corso di lavori di manutenzione sul colle che domina il paese. Avrebbero potuto “colmare molti vuoti” se non fossero stati frettolosamente ricoperti e riconsegnati all'oblio e al silenzio per colpa del solito, immancabile disinteresse e fastidio per le nostre origini, mascherato da “mancanza di fondi”.

Della presunta “traslazione” conosciamo solo il giorno, 24 Ottobre, come racconta il Diploma del 919 di Berengario I, che concede di organizzare in tale giornata una fiera annuale in onore del “santo” a Gozzano. All'epoca, come testimonia lo stesso documento, i resti del missionario si trovavano già da qualche parte nella chiesa pievana del paese.

Ma sarebbero venute alla luce quasi miracolosamente, poiché il punto esatto in cui furono inizialmente sepolte non è tutt'oggi noto, molto più tardi, poco prima della costruzione della cripta in cui sono ancora esposte.

Di chi sono davvero quelle ossa? Gli scavi a San Lorenzo avrebbero dovuto rispondere affermativamente a quella semplice domanda. Invece, hanno sollevato, insieme alle lapidi e a tre diversi pavimenti, una gran quantità di domande.

 

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Sulla tomba primitiva di Giuliano sorsero almeno quattro edifici. La pavimentazione di quella attuale copre un intero cimitero che la occupa tutta. Voci non confermate, relative a saggi effettuati all'esterno, insinuano che l'area sepolcrale si estendesse ben oltre la prima chiesa, che vi fu poi costruita al di sopra.

Molte delle fosse, si è infatti scoperto, furono ricavate riutilizzando materiali provenienti da sepolture precedenti... precedenti al Cristianesimo. La lapide utilizzata come copertura di una di queste, la cui dedica si riferisce a una dea pagana, è ancora prudentemente conservata in qualche buio magazzino torinese.

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Autesai.kar/nitus.Petua [...]” recita il fregio, che sovrasta una ruota a quattro raggi e un simbolo composto da due semicerchi vicendevolmente tangenti, molto simili a certe figurazioni rupestri.

ad Autesa eressero Petua [...]”: è la dedica di una donna, Petua -forse insieme ad altre- a una dea, come anche i simboli suggerirebbero, il cui nome è Autesa, non di certo un nome di luogo, anche se richiama da vicino denominazioni come Autessiodurum o Auxerre.

L'unico altro indizio appartiene a millenni più tardi e precisamente al 1612. È una notizia da fonte non confermata, riportata dal Bascapé nella sua “ Novaria seu de ecclesia Novariensi”, secondo cui quella chiesa era inizialmente dedicata non a San Lorenzo e neppure a San Giuliano, bensì a Maria.

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Curiosamente, in effetti, il primo dedicatario noto, Lorenzo, viene festeggiato il 10 agosto, pochissimi giorni prima della festa dell'Assunta, della Vergine. Che questo fosse all'inizio un “luogo della terra”, successivamente romanizzato (come lasciano supporre diversi reperti ritrovati nelle tombe) ed infine cristianizzato?

Sotto al cenotafio che la tradizione racconta essere il sepolcro del “diacono”, è stata trovata una fossa voltata ben costruita. Altre due la fiancheggiano disponendosi come raggi intorno al perimetro esterno di una struttura semicircolare che non racchiude un altare.

 L'identificazione dell'insieme come un “synthronon” bizantino (i primi esempi sono quelli della post-teodoriana nord di Aquileia e della pre-eufrasiana sud di Parenzo), una sorta di gradinata semicircolare di pietra su cui sedevano i prelati, è un tentativo che lascia aperti numerosi dubbi. Il “synthronon” era concepito per privilegio e auto-celebrazione dei vivi, la strana struttura sotto San Lorenzo pare invece una conseguenza delle sepolture sulla parte convessa.

 

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Le tre tombe, pressoché coeve -del resto sono le più antiche- esistevano già prima della primitiva chiesa e i suoi occupanti erano semplici riutilizzatori delle fosse già presenti, come testimoniano le cassettine ritrovate in almeno due delle tre. I resti nelle cassette dovevano essere così importanti, che non erano stati tolti dalle fosse e sepolti altrove per far posto ai nuovi corpi, ma erano stati radunati e lasciati al loro posto.

Quando poi la prima chiesa fu costruita al di sopra di questo insieme, l'abside fu impostata in modo da inglobare le tombe, ma erano già così antiche che, non essendone visibili le parti terminali, l'emiciclo finì sovrapposto ai piedi degli occupanti di quelle laterali.

Il particolare “emiciclo”, inoltre, diversamente da un syntronon è chiuso sul fronte da un muro, in cui però si aprono ben due probabili ingressi, come lascia supporre la traccia di pavimentazione. Esternamente, in linea con il muro di chiusura, sono ancora visibili sui due lati le basi di due colonne o pilastri o forse basamenti, che sembrano una sorta di “guardiani” dell'insieme.

C'é poi una certa somiglianza tra questa struttura e il “sacellum” romano, oppure con i monumenti sardi detti “Tombe di giganti”. Ufficialmente vengono ritenuti tombe collettive. Ma la quantità di corpi ritrovati, per quanto abbondante, non suffraga appieno l'ipotesi che si trattasse di sepolcreti comunitari. Piuttosto, erano categorie specifiche di persone a essere seppellite, a più riprese, al loro interno.

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Nella loro struttura simbolica, che sarà poi ripresa anche dal Cristianesimo, il grande emiciclo frontale delle “tombe” è la volta celeste, mentre i “sacerdoti” venivano tumulati nel lungo tunnel retrostante, “oltre il cielo”. Forse è lo stesso tunnel in cui dicono di trovarsi coloro che sperimentano gli stati di “pre-morte”. I “sepolti” erano così un medium, un tramite continuo tra il mondi dei vivi e quello dei morti.

A San Lorenzo le tre tombe si trovano altrettanto “oltre il cielo”. I corpi inoltre avevano la testa appoggiata su un “cuscino” ricavato da una pietra e orientato a est. Si ritiene che questo fosse un “privilegio” sacerdotale, ecclesiastico. Anche oggi, la cassa con il morto, in chiesa, viene per lo più posizionata con i piedi verso l'altare, che di solito si trova ad est. Il cielo, con il trapasso, diventa infatti la “nuova terra” su cui il defunto poserà i piedi.

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Il “gigante” in senso spirituale, nelle “tombe” sarde e in San Lorenzo, fu invece posto con il capo e con il cuore nell'alto dei cieli, ma con i piedi ancora saldi su questa terra, cosicché potesse continuare a “benedire” i “fedeli” raccolti nell'emiciclo, esercitando le proprie “virtù” anche dopo la morte.

Le “legendae” in effetti, magnificano le capacità taumaturgiche del diacono gozzanese e del “fratello”, che vengono definiti “grandi medici”. Ma, curiosamente, il biografo non spende parole sui prodigi operati. Certo, sarebbe stato difficile attribuire a un solo individuo le guarigioni operate dalla terra stessa attraverso un “collegio” di sacerdoti pagani morti, gli stregoni della dea Audesia...

Ma potrei anche sbagliarmi.

 

 

 


BIBLIOGRAFIA

 

Aa. Vv., Novara e la sua storia nel secoli XI e XII, Novara, 1980

Aa. Vv., Gozzano nella memoria di San Giuliano e nella storia degli uomini, Parrocchia di Gozzano, 1982

Aa. Vv., VI centenario della traslazione del corpo di S. Giuliano patrono di Gozzano, Parrocchia di Gozzano, 1961

L. Pejrani Baricco, Edifici paleocristiani nella diocesi di Novara: un aggiornamento, in cantino Wataghin et al., 1999

L. Pejrani Baricco, Chiese e insediamenti tra V e VI secolo: Italia settentrionale, Gallia meridionale e Hispania, in Brogiolo 2003

M. Perotti, La “legenda” dei santi Giulio e Giuliano e gli inizi del Cristianesimo nel territorio novarese, in Novarien 19, 1989

 


 

Pubblicato in Italia

Cosa pensate mai, levando lo sguardo verso l'alto della volta ombrosa dalla quale penzolo?

Sapete forse come ci son finita?

Mo' ve lo racconto...

Tutto iniziò con un certo missionario che veniva da oriente in compagnia di alcuni suoi discepoli.

Passò da Roma per meditare sulla tomba di San Paolo. Poi fu chiamato verso settentrione dalla curia milanese. A Novaria c'era già un tale Gaudenzio, che imperversava nelle campagne, al soldo del signor vescovo, cercando di accomodare la fede silvestre, contadina con la nuova Religione di Costantino.

Convincendo i pagani a chiedere il battesimo, facendoli insomma Cristiani, questo indigeno saziava il suo afflato mistico e rendeva insieme un gran servigio al suo padrone che, proprio per questo, riceveva dall'imperatore copiosi benefici fiscali.

Al senatore-vescovo Audenzio, invece, Ambrogio ed Eusebio avevano caldeggiato un certo Iulius di origini greche, che, appunto, giunse presto da Milano all'Isola in mezzo al lago.

Non mi credete? Aspettate, ve lo spiego meglio.

  SG SLorenzoGozz

 

Tra la reggenza di Costantino e quella di Teodosio, il Cristianesimo, che era stato duramente combattuto, da setta diventa religione e i benefici riconosciuti a coloro che si dedicano a tempo pieno alla celebrazione dei nuovi culti, ne favorisce la diffusione. Sono i “possessores”, i possidenti terrieri, i primi ad approfittarne, erigendo cappelle accanto alle loro abitazioni e affidando la cura delle anime a “preposti” appositamente scelti.

Comincia così la cristianizzazione delle campagne e della valli, anche quelle del Verbano, del Cusio, dell'Ossola e del Novarese. Dove si formavano comunità più vaste, nuovi vescovi venivano eletti e si aggiungevano a quelli già esistenti. Oltre a Novara erano sedi vescovili, in quei secoli lontani, almeno Domodossola (o forse l'antica Vergonte), Orta e Gozzano.

La predicazione era affidata a “missionari”, arruolati anche da terre lontane che, di villaggio in villaggio, edificavano chiese, portavano la nuova Religione agli abitanti e soprattutto li legavano al vescovo attraverso il battesimo. Cureggio, Agrate, Quarona, Montorfano, San Remigio, Pieve Vergonte sono solo alcuni dei luoghi in cui subito sorsero battisteri per adempiere all'indispensabile rito.

Fautore della conversione dei “Leponti” e degli “Agoni” al cristianesimo, si racconta sia stato uno di questi, originario di Egina, placida isola ellenica del golfo ateniese. Difficile che questo Giulio, da solo, possa aver oltrepassato tutti i passi alpini e costruito tutte le chiese che la tradizione gli attribuisce, ma alcune, molto antiche per fondazione, trovandosi proprio sul percorso che si racconta abbia fatto, potrebbero davvero essere opera sua o di suoi simili. È il caso di Brebbia (V sec.), presso cui il missionario, se davvero veniva da Milano, avrebbe riattaccato il pollice a un falegname che se l'era tranciato di netto. Potrebbe pure essere il caso di Sant'Agata a Novaglio, del XI-XII secolo, ma forse costruita su un'oratorio risalente al V secolo.

 SG Brebbia

 

Il predicatore, dopo essere passato da Roma per pregare sulla tomba di San Paolo, giunge dunque alle terre novaresi, passando forse per la capitale del Ducato. Le leggende raccontano che il suo percorso aveva l'inverosimile forma di una croce. Si ferma poco prima del Lago di Orta, extra-moenia (fuori dalle mura di) Gaudiani (Gozzano), e qui comincia, con tutto il fervore che ha in corpo, a convertire i popolani al Cristianesimo. Se non aveva viaggiato da solo, chi lo accompagnava era per lui come un fratello. È a costui o forse al più preparato del gruppo di cristiani che aveva convertito nel Gozzanese, che il missionario affida il proseguimento dei lavori presso la piccola chiesa che ha cominciato a costruire. Nasce così la leggenda del fratello di Giulio, Giuliano, colui che poi vi sarà sepolto.

Potrebbe infatti essere stato un nome proprio, “Iulianus ”, ma anche un epiteto per indicare gli “eredi” o i membri della cerchia cristiana di Giulio da Egina. Del resto, nelle prime “Vitae Sancti Iulii” non compare mai un suo fratello, né il nome Giuliano. Paolo Diacono, addirittura, secoli dopo, citando la presenza di un duca longobardo presso l'Isola di Orta (VI sec.), Minulfo, la chiama “Isola di San Giuliano”.

Giulio invece prosegue per il lago. L'eresia ariana sta dilagando e l'Isola è stata fortificata. Chiunque la abiti, che siano uomini o “serpi”, ha gettato le peggiori paure sui barcaioli che, alla richiesta del predicatore di traghettarlo, si rifiutano. Così, scrive l'autore della “Vita”, il futuro santo stende sulle acque il mantello e raggiunge, usandolo come una zattera, lo scoglio in mezzo al lago, per “liberarlo” dalle malvagie presenze.

SG Squirico

Non si fa fatica – l'han già detto in molti – a riconoscere nei serpenti e nei draghi le fattezze del credo pagano, così come, nel mantello steso, l'abbraccio della Religione che tutti accoglieva benevola.

Eppure, ad abitare l'isola è proprio quel “cattolicissimo” senatore Audenzio che aveva richiesto al vescovo milanese la presenza di Giulio sulle sponde del lago. È forse lui il rettile da ammansire? Con quale mano, vien da chiedersi, costui regge i suoi possedimenti, se tutti lo temono al punto di non volersi avvicinare allo scoglio presso cui dimora?

Il missionario, dice la leggenda, riesce nel suo intento e costruisce proprio sull'isola la centesima chiesa, dove si fa seppellire insieme ad Audenzio. Ad occuparsene, prendendone poi il posto come capo della comunità, ci pensa l'ex vescovo di Sion, Elia, giunto tempo prima a rifugiarsi presso il predicatore di Egina, per sfuggire alle persecuzioni ariane.

Nel secolo successivo, il nuovo vescovo Filacrio riedifica la chiesa primitiva, erigendo al suo posto un nuovo edificio a croce greca, in cui farsi tumulare a sua volta insieme agli illustri predecessori (553 d.C.).

Vent'anni dopo, l'arrivo dei Longobardi guidati da Alboino riporta le serpi e soprattutto i draghi, tanto cari ai conquistatori germanici, devoti al Santo Michele, sull'isola, dove rimarranno fino a Carlo Magno. Poi, la destituzione dei nobili discendenti dei Winnili, dopo il 774, stimola una nuova opera di cristianizzazione operata dai vescovi locali, per compiacere l'imperatore e mantenere il proprio status.

 scurolo1

Il vescovo vittorioso che ha piegato il “drago” alla sua autorità e l'antico ed eroico missionario, così, convergono creando, la figura del santo evangelizzatore, codificata nella “Vita Sancti Iulii”. A un “San Giulio” da quel momento viene attribuita gran parte delle opere di predicazione e di edificazione di chiese della zona.

Quasi novecento anni dopo, i resti di Giulio da Egina vengono ritrovati sotto l'altare della Basilica dell'Isola di Orta. Il loculo è chiuso da una lapide che ne porta il nome, fugando qualsiasi dubbio iniziale.

Sfortunatamente, oggi sappiamo che, invece, la tomba ospitava le ossa di Filacrio, confuse con quelle del predicatore di Egina, poiché i resti della sua sepoltura erano stati fatti riutilizzare dallo stesso vescovo per la propria nel VI secolo.

Altre ossa erano poi vengono rinvenute alla rinfusa. Si pensa subito che siano di Audenzio e di Elia, così, si decide di metterle tutte insieme, senza neppure distinguere uno dall'altro... Successivamente ricomposte come un unico corpo da esporre alla venerazione dei fedeli, sono quelle che ancora oggi occhieggiano nello scurolo sotto la Basilica.

E tra di loro, forse, non ci sono neppure quelle del “giuliano”, Giulio di Egina, che fu fatto santo.

 SGvertebra

 

Ecco, questa è tutta la storia. Non è certo quella di cui si favoleggia, lo so bene. Ma, del resto, cosa posso saperne io? Sono quelle stesse ossa, quei teschi dalle orbite vuote e quelle mandibole slogate e senza denti ad avermela raccontata, da buoni testimoni, in questi lunghi secoli.

Come son finita qui, poi, è presto detto. Tutta colpa di quel chierico furbacchione che, per far soldi sulla faccenda di quel Giulio, non trovò di meglio che barattarmi da un mercante per una falsa indulgenza.

Così, il truffaldino portava i pellegrini presso le povere spoglie del missionario e poi, per meglio invogliarli a sganciar denari, li trascinava qui a rimirarmi. L'ingordo, allora, si faceva scuro in volto, sgranava gli occhi e con fare da teatrante si prodigava a narrare, con dovizia di particolari, che io son tutto ciò che resta del mostro dell'isola, scacciato insieme alle serpi dal buon missionario di Egina... menando per drago un pezzo d'osso di balena!

 

 

 

 


BIBLIOGRAFIA

 

Battista Beccaria, Le Culture Preromane e Romane del Territorio Novarese, in Novarien 22, 1992

Giambattista Beccaria, Sulle origini cristiane novaresi. In margine a quattro conferenze del gruppo di studio sulle culture preromane, romane e barbariche del Novarese, Novarien 25, 1995

Giambattista Beccaria, Sulle Origini cristiane novaresi. Nuove acquisizioni. In margine alle conferenze del Gruppo di studio sulle Culture preromane, romane e barbariche del Novarese negli anni 1996 e 1997, in Novarien 27, 1997

Giambattista Beccaria, Note in margine al convegno e agli atti su Il cristianesimo a Novara e sul territorio: le origini, Novarien 28, 1998

Aa. Vv., VI Centenario della traslazione del corpo di S. Giuliano patrono di Gozzano, tip. S. Mora, 1961

Aa. Vv., Gozzano nella memoria di San Giuliano e nella storia degli uomini, tip. Testori e C., 1982

Aa. Vv., Una luce che non tramonta sulla rocca di San Giuliano, Parrocchia di Gozzano, 1987

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Lunedì, 30 Marzo 2015 17:22

La fabbrica dei santi immaginari

Anno 776. Un messaggero trafelato sfreccia lungo i ciottolati di Novaria fino alla sede vescovile. Smonta dal cavallo schiumante e corre, strabuzzando gli occhi per lo sforzo, su per le scale. Carica a testa bassa come un toro infuriato tutte le porte che gli ostacolano il cammino, finché raggiunge la stanza del vescovo. Stremato si getta ai suoi piedi, bacia l'anello con le labbra secche e ansimando gli consegna una pergamena che tiene con pugno incerto.

Sicardo veglia sulle anime di quelle terre da diversi anni. Ha faticato tanto per mantenere la sua posizione e il suo status, ha trattato con potenti e sovrani, ha accettato ogni sorta di compromessi. Ma questo no! Mentre legge i suoi occhi si fanno piccoli, le mani tremano. Chiude di scatto la pergamena e la getta di lato con tutta la violenza che ha in corpo. Il messaggero è ancora ai suoi piedi, attende.

Il re dei Franchi, quel Carlo di Aquisgrana, dopo che il fratello e co-reggente era morto, si era messo in testa di diventare imperatore di mezz'Europa. A quanto pare ci stava anche riuscendo. Da una manciata di mesi aveva sottomesso le terre dei Longobardi e si era nominato loro re. Poco male: nobili, possessores ed ecclesiastici erano stati lasciati al loro posto.

Ma l'anno precedente quell'infame traditore senza cervello di un Tassilone, dopo aver lasciato che il nuovo re spodestasse suo suocero Desiderio, aveva cercato di riprendersi il regno appoggiando Rotgaudo e gli altri duchi ribelli. E aveva scoperto troppo tardi di essersi sbagliato di grosso. Il “franco” era un osso duro.

La rivolta era stata definitivamente sedata, questo si sapeva. Ma l'infausta missiva che Sicardo aveva scagliato in un angolo conteneva la peggiore delle notizie. Il nuovo re stava sostituendo con vassalli propri, scelti nelle élites d'oltralpe, franche, bavare, alemanne, burgunde, tutti i precedenti dignitari longobardi rivoltosi. Adesso giungeva voce che aveva cominciato a rimuovere anche quelli delle terre adiacenti e c'era chi giurava che avrebbe proceduto così in tutto il regno longobardo.

Presto sarebbe toccato anche a Novara. Maledizione! Che Iddio lo perdoni per quell'imprecazione, ma non c'è tempo da perdere!

Solo chi aveva dimostrato fedeltà al nuovo re e dimostrato l'utilità strategica di essere lasciato al proprio posto, era stato risparmiato. Secondo l'informatore di Sicardo, gli ecclesiastici che avevano conservato il loro status erano quelli che avevano potuto contare sull'appartenenza ad una lunga tradizione facente capo ad un qualche antico “santo” portatore della Religione.

Ecco! Il vescovo fa chiamare con urgenza lo scrivano e finalmente congeda il povero messaggero.

 CarloMagno2

 

Dev'essere andata più o meno così, in quel periodo incerto per la conoscenza, durante il quale nacque ufficialmente il culto di molti “santi” cristianizzatori. I vescovi e i vassalli locali terrorizzati dall'ondata “riformatrice” di Carlo Magno che intendeva sostituirli con suoi fedeli rappresentanti, si salvarono ritrovando le origini quasi mitiche del loro potere, a suon di “vite” confezionate su misura e santificazioni forzate.

Com'era giunta infatti la Religione nelle valli più remote? Come si era diffusa fin nel Novarese, tra i laghi e in Ossola? Dopo la promulgazione dell'Editto di Milano del 313 il Cristianesimo era diventato religione “di stato”. Il processo per la verità richiese molto tempo, ma fu il santo imperatore “vescovo dei vescovi” a gettarne le basi.

Senza dubbio tra i motivi che avevano immediatamente destato l'interesse di nobili e potenti per la nuova Religione, c'erano le disposizioni che lo stesso Costantino aveva stabilito e in particolare quella per cui i chierici cattolici dovevano essere esonerati da tutti i munera civilia (oneri fiscali, tasse, servizio militare, obblighi statali, ecc...). La loro esistenza, infatti, doveva essere necessariamente dedicata a officiare il culto a Dio, affinché potesse procurare tutti i possibili benefici divini alle genti.

 

costantino

 

Accattivarsi Costantino e accedere ai benefici fiscali connessi all'adesione al Cristianesimo, fu dunque una buona motivazione che subito avvicinò i possessores di tutto l'impero e soprattutto di quelle zone che non erano sotto il controllo diretto di uno dei pochi vescovi fino ad allora esistenti. I nobili possessori dei terreni non esitarono, per motivi “politici” a radunare intorno a sé le prime comunità di nuovi credenti, affidandole poi a predicatori appositamente reclutati.

I primi edifici di culto altro non furono che le cappelle fatte costruire dai “possessores” accanto delle loro abitazioni. Accade proprio così nel Novarese e in Ossola. A Sizzano (Sitianum o anche Siccianum, forse da Sitius, nome del probabile possessor del luogo) gli scavi archeologici hanno portato alla luce un'antica villa o domus romana del I secolo d.C. Annesso alla struttura principale è stato rinvenuto un oratorio di 12 metri per 12 metri, risalente proprio al IV secolo.

 

BattMontorf

 

Ma Costantino, non si era fermato al riconoscimento di certi benefici. Li aveva vincolati: solo i chierici che amministravano correttamente i riti e diffondevano i culti della nuova Religione potevano vederli riconosciuti. Per gli altri, per gli immeritevoli immeritevoli, aveva invece coniato uno specifico termine giuridico apposito:haereticus”, attraverso il quale riconoscerne la mancanza di virtù e addirittura spodestarli al bisogno come era accaduto per la faccenda dei “donatisti” irretiti dal vescovo di Numidia.

Perciò fu premura di ogni possessor assegnare la propria cappella nel pagus a un preposto, itinerante, con l'incarico non solo di celebrare e battezzare ma anche di recarsi nei villaggi a predicare e diffondere la “lieta novella”. Il legame tra ogni nuovo battezzato e il suo battezzatore fu, all'inizio, l'elemento su cui si strutturarono le chiese proto-pievane. Non contava dove si chiedeva il battesimo, ma a chi lo si chiedeva.

I primi predicatori venivano “assunti” da lontano, forse convincendoli ad abbandonare gruppi cristiani già precostituiti in cui al preposto già si affiancava una sorta di “collegio” simile a quelli sacerdotali romani. Il “possessor” di Novaria, fondata la cappella presso la sua grande casa l'aveva affidata a un certo Lorenzo. Ma affinché la Religione si diffondesse e i privilegi si consolidassero, serviva un predicatore vero. Così, consigliato forse dal vescovo di VercelliEusebio per tramite del milanese Ambrogio, aveva convinto a scendere nelle sue terre un celta di nome Gaudenzio, che si prodigava da tempo a far accettare il Vangelo ai popolani delle campagne di Eporedia.

SanGaude

 

Intanto, in quegli stessi tempi, tra il IV e il VI secolo, il senatore romano Audenzio, possessor delle terre intorno al Lago di Orta destinato alla santificazione, aveva assoldato, con identici fini, un predicatore errante fatto venire da oriente e precisamente da un isola del Golfo Sarnico, tra l'Attica e l'Argolide. Nato su un'isola, sarebbe stato sepolto, su un'altra, quella del lago, alimentando innumerevoli speculazioni su di sé e sui suoi seguaci.

 

scriptusGaudi

 

Due colpi secchi alla porta. Un grugnito di assenso. Lo scrivano entra in tutta fretta, gli occhi ben a terra e si prostra davanti al vescovo assorto nei suoi pensieri. Ha portato con sé un rotolo sgualcito, come Sicardo gli aveva chiesto di fare. Ad un cenno, con voce tremula, comincia a leggere.

 

... beati Gaudentii novariensis civitatis, quae gaudet eum plebs universa patronum. His gestis beati viri ut si indignis quibuscumque explicata sunt dictis, nunc tempore congruo terminus dare disponimus, ori manum imponimus, introrsus ad coscientiam redire festinamus.Et quidem indigni famuli dum imitari non possumus, patroum nobis fieri precibus postulemus, ut eius meritis adiuvemur...

 

Non basta. I pochi versi redatti tempo prima dal suo predecessore Leone sono quasi inutili. I ministri dell'imperatore non accetterebbero mai di mantenerlo vescovo solo per quelle poche parole. Ci vuole ben altro.

Lo scrivano attende a membra contratte, temendo l'ennesimo violento scatto d'ira del presbitero. La rabbia che cova dentro non si fa - come sempre - aspettare, concentrandosi tutta nel terribile pugno che Sicardo abbatte sul tavolo. Il colpo è talmente forte che la brocca colma d'acqua prende a tentennare pericolosamente, fino a rovesciarsi, spargendo ovunque il liquido che contiene.

E mentre le gocce stillano sui piedi del malcapitato scrivano, il vescovo ha un'improvvisa illuminazione.

La mancanza di notizie sul primo vescovo di Novaria può giocare a suo favore. Quel che manca verrà fabbricato! E poiché non è mai esistito prima, nessuno potrà mai dire che è falso. Ma, affinché sia più vero del vero, dovrà essere ispirato alle leggende di altri vescovi ben più illustri. Anzi, sarà vescovo pure Gaudenzio, il primo di tutti. Meglio ancora, sarà santo!

Al tramonto lo scrivano è di nuovo ai suoi piedi. Sul tavolo, ripulito dal piccolo disastro ha appena srotolato le pergamene che contengono le “legendae” di San Martino, Sant'Eusebio Sant'Ambrogio e Sant'Agabio, Gli acta di San Dionigi e il Passio di San Lorenzo, da cui trarre tutti i necessari spunti.

E mentre il sole si fa rosso come il sangue prodigioso dei santi, Sicardo comincia a dettare.

 

 

 

NOTA: Se si esclude un accenno al vescovo Leone, che ne retrodaterebbe la stesura (almeno in parte) al principio del VIII secolo, la vita di San Gaudenzio viene per lo più ascritta la periodo in cui era vescovo di Novara Sicardo. Nulla si sa di questo ecclesiastico. È invece certo che il suo successore Tito Levita abbia ordinato la trascrizione della raccolta di canoni conciliari della diocesi di Novara meglio nota con il titolo di Collectio Novariensis. A quell'epoca di riscoperta della storia di Novara risale l'invenzione dei santi novaresi che, più o meno, furono fabbricati così.

 PREDICATORE

 


BIBLIOGRAFIA

Battista Beccaria, Le Culture Preromane e Romane del Territorio Novarese, in Novarien 22, 1992

Giambattista Beccaria, Sulle origini cristiane novaresi. In margine a quattro conferenze del gruppo di studio sulle culture preromane, romane e barbariche del Novarese, Novarien 25, 1995

Giambattista Beccaria, Sulle Origini cristiane novaresi. Nuove acquisizioni. In margine alle conferenze del Gruppo di studio sulle Culture preromane, romane e barbariche del Novarese negli anni 1996 e 1997, in Novarien 27, 1997

Giambattista Beccaria, Note in margine al convegno e agli atti su Il cristianesimo a Novara e sul territorio: le origini, Novarien 28, 1998

Gianni Colombo, San Gaudenzio - Edizione critica della “Vita Sancti Gaudentii”, Novara, 1983

 


 

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Mentre i lavori fervono, però, sono costretti a partire per combattere a Novara, a Carpignano, a Vercelli, al passo di Paglino, alla Rocca di Angera. La guerra termina soltanto nel 1617: il Duca sabaudo ha preso il Monferrato. I miliziani tornano ai loro paesi e rimettono mano alla Gurva e alla Madonna della Neve, ora anche in segno di ringraziamento alla Madre della valle, che ne ha guidate le gesta.

Nel 1622 l'oratorio della Madonna della Neve di Bannio è pronto. Ma la peste manzoniana è alle porte. Non resta che affidarsi alla Vergine e far voto di difendere in Suo nome sé stessi e gli abitanti di Anzino e di Bannio, come già gli antichi legionari romani avevano fatto molti secoli prima, presidiando le viscere dell'abitato ricolme di oro. Quel 5 di Agosto viene proclamato festa perpetua della Milizia1.

 BannioNeve

La Gurva vede invece il suo compimento e la sua inaugurazione solo dopo che la peste è un ricordo, nel 1641. Tutti i reduci anzaschini della campagna 1614-1617 vengono invitati, in quel 15 di Agosto, giorno dell'Assunta, alla solenne consacrazione della nuova chiesa che, per molti anni sarà il fulcro delle milizie della valle.

Quando nel 1701 l'invasore ispanico, nella persona di Carlo I muore e si scatena la Guerra di Successione, forse per un attimo i legionari dell'Anzasca vendono il termine del loro impegno militare. Ma la cessione del ducato agli Asburgo infrange le loro speranze. Trent'anni dopo si ritroveranno annessi – e sempre pronti all'intervento militare – proprio ai sabaudi per combattere i quali erano stati creati.

GuerraSuccSpagn 

Poi, nella seconda metà del 1700, qualcosa cambia per sempre. L'istinto di ribellione e il desiderio di libertà si stanno diffondendo come un profumo in Europa. La Rivoluzione Francese è alle porte. Le Milizie della Terra devono essere risvegliate. Non saranno più difensori, ma attaccanti. La Terra che li ha visti nascere ora non deve trattenerli.

Servono nuovi patroni che li spronino a scendere in battaglia. A Bannio, la pelle di quel San Bartolomeo che provvidenzialmente è già il nume della Parrocchia, diventerà, insieme al suo pugnale, la pelle... i confini del “corpo” della valle... che i miliziani venderanno cara – combattendo – al nemico. Tra il 1774 e il 1776 infine, giungono da Roma per opera del frate cappuccino Francesco Maria Ballotta, che li ha appena ritrovati nelle catacombe di San Lorenzo, i martiri guerrieri San Felice e San Vincenzo. Agghindati da combattenti quali sono, i loro corpi, insieme alle ampolle contenenti il loro sangue, vengono posti nella parrocchiale, per difendere il corpo e lo spirito della valle e dei suoi frutti.

 BANNIO1

Alla milizia di Calasca, sul lato opposto della valle, viene forse assegnato un compito diverso e con esso, un potere inatteso. E il potere, si sa, logora e porta a compiere le più atroci nefandezze. Come la Madonna della Neve, la Gurva non può più essere il nume tutelare dei legionari. Continueranno dunque ad onorarla quale luogo d'origine, ma i tempi sono cambiati.

La costruzione di un nuovo “santuario” in cui possa riconoscersi un guerriero, grande abbastanza da contenere non più una milizia ma un vero esercito, è ora necessaria. Nel 1791 comincia infatti la costruzione di quella sontuosa chiesa che verrà poi soprannominata “Cattedrale nei boschi”.

Calasca1 

Intanto giungono da Roma le reliquie di San Valentino2. Vestite con paramenti militari vengono poste nel terzo altare sinistro dall'entrata. Il guerriero martirizzato ora domina incontrastato. Se a Bannio i capi “spirituali” della milizia, credendo di diventare reliquie essi stessi, si fanno seppellire all'esterno del muro, proprio dove riposano Felice e Vincenzo, ad Antrogna sono i capi militari che, con lo stesso pensiero, ordinano di essere sepolti tra i mattoni che giungono fino San Valentino. Dicono che va fatto poiché essi vogliono servirlo pure nell'aldilà ma, in verità, questi sedicenti “eletti” aspirano così a condividere la sua stessa forza e continuare a comandare.

Calasca2x

Sulla volta della chiesa, poi, esprimono il loro sdegno e la loro ansia di libertà. La Madre-valle li ha benedetti e tenuti vicino a sé, in un abbraccio pieno di tenerezza. Ma, secondo loro, quella tenerezza ha infine spento la loro indole guerriera. Ad essa, alla dea, scelgono dunque di ribellarsi ponendo nella volta Prometeo, il “bastian-contrario”, che rubò il fuoco agli dei, ritenendo che l'uomo, degli dei, può farne a meno.

 Prometheus

È il loro grido di battaglia: il fuoco è nelle loro mani. Prometeo prese il fuoco dagli dei, il fuoco che alimentava le fucine di Efesto e che produceva le armi di Ares/Marte. Sant'Antonio Abate, cui l'edificio viene intitolato, è colui che quel fuoco lo prese: “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto , ed esso vi sarà dato3. E tale era il fuoco della guerra che la Milizia avrebbe diffuso, il fuoco perpetuo e indomabile della guerra, il fuoco dei moschetti, che si scatena come un incendio e che nessuno può fermare.

Nel 1797 il nuovo sacrario della milizia è pronto. Il fuoco del Santo Antonio arde nei miliziani. La milizia diffonderà le fiamme della guerra e solo la milizia sarà in grado di domarle. Perciò, qualche anno dopo (1805) giungerà ad Antrogna anche una reliquia di quel San Defendente4, guerriero come gli altri, ma della Legione Tebea, che del fuoco e degli incendi è guardiano.

SanDef

La Madre-Valle è già stata dimenticata. Da lì la milizia viene, ma il suo destino è verso i martiri guerrieri, verso il Santo Antonio, egiziano ed esoterico come Defendente. Qualcuno si premura di segnalarlo. Inforca la porticina a sinistra dell'affresco della Gurva e imprime per sempre, nella roccia che sostiene il masso errante, come fosse uno sfregio, la ribellione della milizia alla Madre che l'ha generata, mettendola via, a riposo, congedandola.

SfregioGurva

Ma il tempo, quello della storia, è tiranno. Mentre ancora la milizia sogna la guerra e la ribellione, la Rivoluzione Francese è già finita. Defendente deve ancora arrivare ad Antrogna e già un nuovo despota straniero rifonda l'Impero che, con la Rivoluzione, si pensava estinto.

Napoleone è inarrestabile, nessuno si oppone e quei pochi che osano vengono sconfitti.

I sogni di gloria della Milizia si sciolgono, come si scioglie la neve del Rosa al sole. Anche se il Bonaparte, dopo il disastro in Russia, viene sconfitto, ormai è tardi. I legionari di Anzasca non hanno portato guerra, non hanno conquistato, languono nella valle. La compagine, nel 1743, è ormai ridotta a 27 anime, reduci di una guerra che non hanno mai combattuto.

 miliziavalleanzasca-vi

Della gloriosa e intricata storia non rimane che il ricordo sbiadito, qualche segno nella roccia e il fastoso rituale d'agosto. Dapprima si festeggia la Vergine, madre della milizia, alla Gurva. Ma subito dopo si festeggia San Valentino, il nuovo patrono, con una festa che è identica, poiché solo il luogo (la parrocchiale di Antrogna) è diverso. A quel punto, tutto è cambiato. La Madonna va messa a dormire, ridotta al silenzio nella sua teca dorata, va “lugà la Madona”, va messa via...

 

- Francesco Teruggi -

 

AveMariaGurva

 

 


1Si conserva ancora nell'oratorio l'ex-voto di quell'evento.

2Da non confondersi con i suoi più famosi omonimi, è un oscuro “martire” ritrovato nelle catacombe romane, la cui agiografia è scarna se non pressoché inesistente. Giace nella parrocchiale di Antrogna con indosso vesti da legionario.

3Cfr. S. Antonio Abate, Lettera 8

4Il corpo di San Defendente (quasi completo) è però custodito nella “Basilica” omonima a Romano di Bergamo. Le sue reliquie ad Antrogna, sempre che si tratti dello stesso “martire”, come quelle del misterioso San Valentino, non sembrano essere state ancora riconosciute pienamente dalla Diocesi. Cfr. ad esempio gli elenchi dell'Archivio Diocesano di Novara in cui i due “santi” non figurano.

 


BIBLIOGRAFIA

 

Andrea Primatesta, Calasca e Spigolature di Valle, 2005

Sandretti Agostino, Calasca Zibaldone 1 e 2, 1948-1950

Adriano Antonioletti e Carlo Colombo, La Madonna della Neve e la sua Milizia, ed. privata

Enrico Bianchetti, L'Ossola Inferiore, 1872

Massimo Centini, Martiri Tebei, storia e antropologia di un mito alpino, 2010

Oliviera Calderini e Alberto De Giuli, Segno e simbolo su elementi architettonici litici nel Verbano Cusio Ossola, 1999

Fabio Casalini, Il santuario costruito sulla roccia, 2014 (Viaggiatoricheignorano.blogspot.it)

Fabio Casalini, Il sacro fuoco della Cattedrale nei Boschi, 2014 (Viaggiatoricheignorano.blogspot.it)

Fabio Casalini, Quando le pietre raccontano una storia, 2014 (Viaggiatoricheignorano.blogspot.it)

Fabio CasaliniIl mistero delle Milizie della Valle Anzasca, 2014 (Viaggiatoricheignorano.blogspot.it)

 


DE LA GURVE: LUOGHI FORTI E MILIZIE DELL'ANZASCA è disponibile come documento completo su academia-logo

 


 

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