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Francesco Teruggi

Francesco Teruggi

Scrittore e giornalista pubblicista. Direttore delle collane "Malachite" e "Topazio" presso Giuliano Ladolfi Editore. Autore del saggio divulgativo "Il Graal e La Dea" (2012), del travel book "Deen Thaang - Il viaggiatore" (2014), co-autore del saggio "Mai Vivi Mai Morti" (2015), autore del saggio "La Testa e la Spada. Studi sull'Ordine dei Cavalieri di San Giovanni" (2017), co-autore del saggio storico "Il Filo del Cielo" (2019) pubblicato in edizione italiana e in edizione francese. Presidente dell'Associazione Culturale TRIASUNT. Responsabile Culturale S.O.G.IT. Verbania (Opera di Soccorso dell'Ordine di San Giovanni in Italia).

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Venerdì, 02 Dicembre 2016 18:09

La roccia, i cavalieri, il répit

L'ARGENTIÈRE: UNA COMMENDA GIOVANNITA TRA I VALDESI E LA DOPPIA-MORTE

Alla confluenza delle valli della Durance, della Vallouise e del torrente Fornel, nell'alta Provenza alpina, esiste, almeno dall'anno mille, una ricca miniera di piombo argentifero (oggi dismessa).

Quando nel XII secolo era stata data in concessione al Delfinato, a protezione della stessa, che si apriva nelle pareti scoscese della gola del Fornel, era stato innalzato, all'imbocco della vallata, un poderoso castello, dal quale sorvegliare il “tesoro” della montagna e insieme presidiare il prezioso punto strategico sulla diramazione della via Francigena detta Via Alta. La strada, dalla Pianura Padana, attraverso il Monginevro raggiungeva Aix e Marsiglia, sul tracciato dell'antica via romana Domizia, chiamata Cottia per Alpem in questo tratto. Da qui era passato anche Annibale.

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Ma L'Argentière nascondeva di certo anche altri motivi di interesse, meno noti. Tant'è che, fin dal 1183, avevano trovato rifugio, nel villaggio e nei dintorni, i valdesi, dopo la scomunica pronunciata nei loro confronti durante il Concilio di Verona (1184). Inoltre, ai piedi della fortificazione, vicino al punto in cui il tumultuoso Fornel si gettava nella Durance, c'era un luogo sacro molto antico che ancora resisteva, con le sue tradizioni, alla Sacra Religione. Non era che una grande pietra di origine glaciale, con la sommità piuttosto piatta, presso la quale, presumibilmente si celebravano quei culti di vita e di vitalità che oggi riduciamo offensivamente all'idea dei “massi della fertilità”.

In epoca imprecisata, sulla roccia era stato eretto un edificio cristiano, forse una semplice cappella votiva o un piccolo oratorio. Sei gradini intagliati nella pietra viva, consentivano da tempo immemore di salire fino alla sommità dello sperone, sul lato orientale. Si ritiene che questa curiosa caratteristica sia all'origine del nome dato al luogo, “Gradis Caroli”, “i gradini di Carlo”, forse un riferimento simbolico al “primo imperatore” Carlo Magno e allo scranno della sua incoronazione in San Pietro, oppure (più difficilmente) a Carlo I conte di Fiandra, noto per la sua premura e generosità nei confronti dei bisognosi. Più probabilmente, però, “Carolo” potrebbe essere la corruzione latino-cristiana del nome dell'antico nume tutelare locale “Carrus”, la divinizzazione della “montagna”, che i Romani riconducevano a uno dei numerosi aspetti del dio Marte. Più precisamente, Carrus era il fuoco marziale” del sole, il fuoco della creazione stessa, “coagulato” nella roccia delle montagne.

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Intorno al 1208 i Cavalieri dell'Ordine di San Giovanni al comando di Guillaume de Faudon, insediati proprio presso quella roccia, fecero innalzare sul luogo da mastri costruttori italiani (Magistri Comacines) un nuovo edificio sacro (16,40 m di lunghezza per 7,70 di larghezza), in un austero stile romanico e un ospitale. La piccola commenda, fuori dalle mura fortificate e di difficile difesa, prese il nome di “preceptoria Saneti Johannis de Gradibus Caroli”.

La chiesa, in pietra brunita, si eleva dalla viva roccia, sul bordo orientale. È orientata verso il sorgere visibile del sole equinoziale a Est ed è dotata di un piccolo campanile a vela posto centralmente sopra l'abside. Le sei mensole scolpite, che reggono gli archi accoppiati di ciascuna ripartizione absidale, ripetono per ciascun arco la testa di un toro, ma con un diverso elemento di contrappunto: un drago cornuto, un viso umano con estremità appuntite simili a corna, una terza “testina” cilindrica ormai consunta che potrebbe di nuovo essere un toro.

La simbologia complessiva, con i riferimenti al Sole “marziale” (testa umana dotata di corna), alla Luna (drago) e ad un terzo astro, Venere (in astrologia pianeta “maestro” della costellazione del Toro e tramite fra la Luna e il Sole) e la ripetizione delle “corna” quale costante di tutto l'insieme, è un potente richiamo al sacrificio di ogni parte di sé quale atto necessario alla “rinascita spirituale” a nuova vita. I segni lasciati dai costruttori sono così, verosimilmente, una rinnovata codificazione del valore spirituale della roccia in cui furono intagliati i gradini.

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Chi ancora oggi si sofferma presso questo luogo non può, infatti, non notare la croce incisa profondamente nei mattoni bruni alla base esterna dell'abside, non esattamente in asse con il centro dell'emiciclo, ma proprio in corrispondenza con la scala scolpita. La particolare posizione fu scelta, con tutta probabilità per indicare il corrispondente punto della roccia sottostante, ma fu ovviamente realizzata dopo la costruzione della chiesa ed è contornata da altre due croci, più piccole e meno visibili, realizzate successivamente.

L'inevitabile conclusione è che la tradizione originaria e più antica del luogo si sia dunque mantenuta anche dopo l'arrivo dei Cavalieri giovanniti. L'ordine ospitaliero, non entrando in dispute teologiche e spirituali, ma prendendosi semplicemente cura dei viandanti e dei bisognosi e rispettandone le convinzioni, senza distinzioni religiose, razziali o politiche, mantenne in tal modo viva, la pratica rituale esistente.

La natura di tale usanza è riemersa inaspettatamente grazie ai recenti scavi archeologici (1999-2005). Sono state rinvenute tutt'intorno all'edificio, sepolture riconducibili ad almeno tre diverse fasi di utilizzo. Un gruppo di fosse rupestri sul lato sud dello sperone roccioso, vicino alla chiesa, ha restituito resti umani di sesso maschile, che potrebbero essere quelli dei Giovanniti responsabili della commenda.

La maggior parte delle fosse, invece, scavate nella roccia in forma di “loggette” antropomorfe e appartenenti a maschi e femmine di diverse età, è databile almeno al XI secolo. Tra queste le sepolture più stupefacenti sono quelle rinvenute in una zona più appartata, lungo il bordo tra sud e est, contenenti le membra (di incerta datazione) di almeno tre bambini prematuri, nati-morti (per lo più tra l'ottavo mese e il parto), inumati nella nuda terra. I corpi sono stati ritrovati proprio ai piedi della “scala” intagliata” nella roccia. Tali sepolture sono il segno inequivocabile di una tradizione ancestrale di “affidamento” degli sfortunati infanti alla “roccia sacra” che è riconducibile al fenomeno millenario del répit.

Saint Jean di L'Argentière, dunque, non solo si trovava su una trafficata via di pellegrinaggio, ma era evidentemente esso stesso un santuario, molto antico, al quale si ricorreva per ottenere il “ritorno effimero in vita” dei bambini “morti durante la nascita”, per il tempo di un solo respiro.

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I minuscoli cadaveri, dopo il lungo viaggio, venivano portati a braccia su per i gradini dalle madri che li salivano uno alla volta “ondeggiando” a destra e sinistra. La scala è infatti realizzata con superfici e pendenze che impongono, appunto, di spostarsi secondo una certa cadenza, così come accade quando ci si trova sul ponte di una barca scossa dalle onde. Giunti all'ultimo gradino venivano deposti sulla sommità della roccia nuda (più tardi proprio sotto la croce) affinché Carrus/Marte-Sole, “maestro” dell'Ariete, il segno della rinascita all'inizio della Primavera, concedesse quell'ultimo sospiro.

Non a caso il “battesimo sub condicione”, che era lo scopo finale del répit nella sua forma cristianizzata, era chiamato anche “ondoiemént”, ondeggiamento, proprio per ricordare la somiglianza simbolica dello stato “sospeso” del nato-morto (il limbo) che non può trovare pace, con il “mare in tempesta” per il quale unico sollievo è il “porto sicuro” del Battesimo (ben rappresentato dalla dedicazione del luogo a San Giovanni Battista).

Determinante era poi il “sacrificio necessario” (quello del toro, ripetuto in ben tre delle sei mensole d'arco absidali) rappresentato dal pellegrinaggio stesso, lo sforzo consapevole senza il quale il prodigio non si sarebbe potuto compiere.

La prosecuzione dell'usanza rituale, conservata e mantenuta anche dai Cavalieri di San Giovanni, nonostante la forte avversione della Chiesa, è testimoniata da almeno altre 25 sepolture di fanciulli di età variabile (non solo prematuri) più discoste dalla roccia e databili al XVI secolo grazie anche al rinvenimento, in una di esse, di due monete effigiate con il duca Carlo II di Savoia) e di alcune ceramiche dipinte.

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Non sono noti documenti comprovanti la pratica del répit a L'Argentiére. L'unico accenno potrebbe essere quello contenuto negli atti del processo a Chaterine Charbonelle, originaria di Val des Prés, condannata per stregoneria nel 1445, in cui la stessa “strega” testimonia di aver incontrato il diavolo mentre si recava in pellegrinaggio a San Giovanni di L'Argentiere insieme ai suoi bambini.

Le parole dell'imputata contengono almeno due elementi interessanti. La donna afferma di essersi recata a L'Argentière “in pellegrinaggio”, quindi con l'intento di ottenere presso la chiesa di Saint Jean una qualche grazia. Specifica inoltre, senza alcuna necessità, di averlo compiuto “insieme ai suoi bambini”. Potrebbero essere sibilline indicazioni del fatto di aver preso parte al répit? I bambini citati erano realmente i suoi figli, oppure si riferiva ad alcuni “nati-morti” di cui si era presa cura in quanto forse era una levatrice (come gran parte delle “streghe” perseguite dagli inquisitori)?

L'elemento più sorprendente, poi, è l'incontro che avrebbe avuto, presso il santuario, con il diavolo in persona! Era davvero il demone degli inferi quello con cui si era intrattenuta o un qualche altro ente ritenuto “diabolico” da Santa Romana Chiesa? In effetti, come detto, la testina umana cornuta posta come mensola d'arco all'esterno dell'abside maggiore di San Giovanni, potrebbe davvero essere descritta come un'immagine diabolica. Ciò si rivelerebbe, per altro, assai coerente con la partecipazione al “pellegrinaggio del répit” e alla presenza di certi bambini. Del resto, il “dio delle streghe”, identificato proprio con Satana, era un dio cornuto, il misterioso Cernunno.

Non esistono allo stato attuale elementi sicuri per confermare o meno tale ipotesi. La precettoria di San Giovanni De Gradibus Caroli rappresenta comunque un caso unico nel suo genere, quello di un santuario ancestrale sostituito da un primo edificio cristiano e successivamente dalla chiesa ospitaliera, presso il quale continuò a perpetuarsi lo stesso rituale e di cui la roccia continuò a essere l'intercessore.

La sua importanza spiega di certo anche la presenza a L'Argentière di ben due ospitali, quello giovannita già citato e quello indicato in alcune fonti come “Saint-Sépulcre-de-la-Pierre-Sainte”, esistente fin dal 1264, quando ne era precettore Pierre de la Blache, passato poi in gestione alle monache di Boscodon con il nome di “Hôpital Sainte-Marie de Boscodon de la Pierre Sainte”.

La “Pietra Santa” indicata nell'intitolazione è, di nuovo, la roccia su cui sorge la Chiesa di Saint Jean e ha fatto ipotizzare, in un primo momento, che l'ospitale delle monache fosse quello giovannita anziché una struttura distinta, ipotesi che oggi è stata abbandonata.

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Le due istituzioni, ben distinte, erano probabilmente necessarie per gestire non solo l'afflusso dei viandanti di passaggio ma anche e soprattutto quello dei pellegrini in visita al santuario. Ancora nel 1501 il notaio di Gap François Farel constatava in forma scritta, essendosi recato a L'Argentière per seguire certi affari della commenda, che erano almeno duemila le persone provenienti dalle vallate vicine a portare candele accese nella chiesa ospitaliera, in onore di San Giovanni, nei giorni della sua ricorrenza.

Meno di cinquanta anni più tardi, però, soltanto uno dei diciotto “testamenti di Cervières”, contenenti una richiesta di pellegrinaggio, quello di Jean De Borrel, datato 17 Aprile 1523, menziona la cappella di Saint Jean a L'Argentière: la fama del luogo si è spenta.

Intorno al 1380-90, a poche decine di chilometri, sono giunte al Priorato di Ganagobie le preziose reliquie di Sant'Onorato, qui traslate da Lerìns per preservarle dagli invasori Saraceni. Sistemate sul ballatoio sospeso sopra il portale d'ingresso della chiesa abbaziale e protette da un enigmatico “transitus” (scultura cadaverica sul coperchio del sarcofago), hanno cominciato ad attrarre fedeli e curiosi. Tra i prodigi che elargiscono c'é quello di ridare la vita ai bimbi nati-morti per il tempo di un respiro.

Carrus/Marte ha ora il corpo mortale di un santo cristiano e un nuovo luogo riservato alla sua adorazione...

 

 


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BIBLIOGRAFIA

P. Guillaume (abbé), Notice historique sur l’Argentière, in Bulletin de la Société d’études des Hautes-Alpes, 1883

J. Roman, Monographie du mandement de l’Argentière. Paris, Picard, 1883

S. Tzortzis e I. Séguy, Pratiques funéraires en lien avec les décès des nouveau nés. À propos d'un cas dauphinois durant l'Époque moderne: la chapelle Saint-Jean à l'Argentière-la-Bessée (Hautes-Alpes), in Socio-anthropologie, n° 22, 2008

G. Giordanengo, L'Église de L'Argentière, in Congrès archéologique de France, 130e session, 1972, Dauphiné, Paris, 1974

F. Casalini e F. Teruggi, Mai Vivi Mai Morti, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2015


Martedì, 04 Ottobre 2016 17:58

Il sator di Aosta: Saturno Regna!

Questa mia idea ha un inizio semplice: il centro del "sator circolare" della Collegiata di Sant'Orso ad Aosta non c'é un leone e tantomeno la raffigurazione si riferisce a Sansone.

Senz'altro molte volte rappresentazioni con tali caratteristiche (un personaggio a cavalcioni di una fiera nell'atto di spalancarle le fauci), sono state indicate come "Sansone che smascella il leone". Alcune presentano addirittura un titolo riferito all'eroe biblico (a Modena ad esempio). Per lo più si ipotizza una convergenza di miti pre-cristiani ( Ercole e il leone Nemeo) e biblici (Sansone).

Il dettaglio curioso, però, è che né SansoneErcole vengono mai descritti nell'atto di "aprire la bocca" al leone. Il primo lo squarta (quindi gli apre il ventre), il secondo lo percuote e poi lo strangola.

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Procedendo di particolare in particolare, a Sant'Orso la "bestia", a ben guardarla, del leone ha solo la corporatura e il muso. Le peculiarità del felino "maschio" (la criniera ad esempio) sono assenti. Potrebbe essere una leonessa, allora, ma sul suo capo sono ben evidenti due lunghe corna e la coda è innaturalmente lunga, sembra più un serpente...

L'animale mitico cui più si avvicina è la chimera, così descritta da Omero nell'Iliade (VI, 223-226): "...Era il mostro di origine divina, lion la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco: e nondimeno, col favor degli Dei, l'eroe la spense...".

Certo, quella di Sant'Orso non è una figurazione classica: manca la testa caprina e il muso da canide, sostituiti da lineamenti leonini e vistose corna. Ma è altrettanto singolare che sia una "presenza" ricorrente ad Aosta: una sua raffigurazione inequivocabile (con tanto di didascalia) fu infatti inserita anche nella pavimentazione del duomo della città (XIII sec.).

La sua nemesi è Bellerofonte, figlio di Glauco. Pare che l'avesse infilzata con la sua lancia dalla punta di piombo la quale, scaldandosi con il fuoco delle fiamme che erompevano dalle fauci del mostro, si sarebbe sciolta colando nella sua gola fino a soffocarlo. La strana "lama" triangolare su cui la veste dell'eroe, a Sant'Orso, sembra essersi impigliata lo identificherebbe proprio con il nobile di Efira.

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La lotta con il mostro è incorniciata da un triplo cerchio. In quello mediano scorrono le lettere del quadrato magico". La croce che separa l'inizio e la fine dell' "acrostico" si trova proprio sopra alla testa dell'eroe. Il palindromo rotas-sator alla destra e alla sinistra della croce, finisce così per identificarsi con il nome proprio del personaggio sottostante.

Sator è Saturno (Saturno da satus, "semenza" e sero, "seme"). Ma anche saturare (saziare). La preziosa informazione, sulla quale non ci si sofferma mai troppo, la regalò al mondo suo malgrado il noto esoterista Samuel Liddel MacGregor Mathers già nell'Ottocento, nella pur scarsa traduzione del quattrocentesco “The Sacred Magic of Abramelin the Mage”, in cui senza indugio identifica l'enigmatico nome con il dio-pianeta.

Ora l'immagine sembra farsi più nitida: è Saturno che "apre la bocca" alla chimera, la "invita" a sputare, a rigurgitare qualcosa. Sulla natura saturnina di Sansone e di Ercole esistono diversi studi...

Astrologicamente Saturno è il maestro del Capricorno, il suo "governatore" e la chimera con le corna caprine e la coda serpentiforme (il serpente che vive nell'acqua?) ricorda molto tale segno zodiacale.

Le membra leonine ne sottolineano la potenza (il tema è perfettamente rappresentato dalla XI carta dei Tarocchi), l'energia che da essa si sprigiona: Saturno è l'unico che può “tenerle aperta la bocca” e quindi gestire tale forza, senza pericolo.

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Il sesto pianeta era nell'antichità (prima della "scoperta" dei tre pianeti "moderni") il più esterno del sistema solare. Il suo particolare moto di rivoluzione intorno al sole è di 28 anni terrestri (7 x 4). Ogni anno si sposta di circa 7° sull'orizzonte e ogni 7 anni di circa 49°. Gli antichi astrologi ritenevano che il "ciclo di Saturno", suddiviso in settenari fosse il ciclo celeste fondamentale, quello che (essendo il più esterno di tutti) regolava tutti gli altri. I cerchi, sei in totale (Saturno è il sesto pianeta per distanza dal sole), che contornano l'enigmatica immagine di lotta a Sant'Orso, forse richiamano proprio l'idea dei cicli cosmici... così si spiegherebbe anche la particolare disposizione ad anelli concentrici del Sator dell'abbazia templare di Valvisciolo (LT).

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L'identificazione copta e bizantina dei cinque termini del quadrato del Sator con le Cinque Piaghe (o con i nomi propri dei Cinque Chiodi) di Cristo, fornisce un ulteriore spunto. Quattro sono "periferici" (le due mani, la ferita dei piedi e quella del capo causata dalla corona di spine), una è centrale (la ferita del costato): non è difficile immaginarsi una ruota definita proprio dal chiodo centrale (il mozzo) e da quattro punti sulla circonferenza che definiscono i due assi di una croce.

Saturno è un'allegoria del piombo da trasformare in oro di cui favoleggiano alchimisti, ma è anche il piombo del filo del muratore (il sole), che fornisce la misura.

Perciò è detto "aratro": il solco che traccia è quello in cui poi si ordineranno i semi della vita. Ma quel solco è anche la divisione fra la vita e la morte, il taglio netto del tristo mietitore.

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"Saturno, l'aratro, governa i cicli della vita".

Questa forse è la più semplice traduzione del celeberrimo quadrato magico. L'aratro è la scansione del tempo. Più precisamente: "Saturno con il suo ciclo (tempo) regge (governa) i cicli della vita (dell'esistenza universale)".

Nel Sator circolare di Aosta, Saturno tiene il Capricorno: poiché questo è il primo segno zodiacale dopo il Solstizio Invernale (il momento in cui "il sole muore"), Saturno, che è il suo pianeta "maestro", è il "regolatore" di tutto ciò che ri-nasce.

Gli elementi che contornano Saturno al governo del Capricorno, sono la "quadratura del cerchio". I quattro animali agli angoli, anziché essere i quattro emblemi degli evangelisti (leone, uomo alato, toro, aquila, ovvero Marco, Matteo, Luca e Giovanni), sono creature mostruose, di un ordine diverso.

Il "piccolo leone" e l' "uomo in bocca al pesce" sono rispettivamente la costellazione zodiacale del Leone e dell'Aquario (astrologicamente equivalgono alla posizione in cui Saturno è in Esilio e in Domicilio), mentre il "drago" e l' "aquila a due corpi" sono i due segni zodiacali che precedono il Toro (Luca) e L'Aquila/Angelo (Giovanni). Corrispondono all'Ariete e alla Bilancia e sono, di nuovo, due posizioni chiave di Saturno, Caduta ed Esaltazione!

Insieme rappresentano i quattro momenti cruciali del ciclo di Saturno.

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Ma non finisce qui. Le gambe di Saturno a cavalcioni della chimera sono di un color rosso mattone piuttosto acceso, come se l'autore avesse voluto evidenziarvi un particolare senso. Fin dai tempi di Sparta la gamba piegata all'altezza del ginocchio è un simbolo di forza, di dominio e insieme di appartenenza sociale.

Le due gambe rossastre e piegate ad angoli diversi del Sator di Sant'Orso sono in qualche modo collegate, tramite il medesimo colore, al collo (la testa) dell' "aquila a doppio corpo" e con la pinna caudale (i piedi) dell' "uomo inghiottito dal pesce". Le gambe sono dunque il doppio ritmo che collega la testa ai piedi: un richiamo alla ciclicità e alla doppia spirale del tempo, di cui Saturno è ìl fulcro.

Per calcolarne la posizione in cielo è sufficiente osservarlo in rapporto all'Orsa Maggiore, detta appunto Aratro e "trainata" dai Septem Triones, i sette buoi che sono le sue sette stelle maggiori.

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Perfino lo spiritualista russo Gurdjieff nei suoi libri potrebbe averlo citato come signore del tempo, anagrammandone la qualità di "arepo" (aratro, solco) in "(h)eropa(s)".

Saturno è il "Signore del Mulino (del cielo)", l'antico dio arabico Hubal, che dimora nel pozzo presso la Ka'aba. La Pietra Nera incastonata nel luogo più sacro della Mecca è essa stessa Saturno. Egli è dunque la "pietra angolare", l'origine e misura di ogni cosa.

È il mesopotamico Enki-Ea e l'egizio Ptah, gli dei creatori. Ed è anche il mitico Imperatore Giallo orientale, "inventore" della medicina cinese e di tutte le arti ad essa collegate.

Nella mitologia celtica è Fearn-Foroneo, detto Bran-il-Benedetto, la testa oracolare che restituisce responsi e vaticini, poiché conosce il passato e il futuro.

Ma Saturno è il "tempo" dei pagani. Perciò fu nascosto sotto il pavimento della collegiata di Sant'Orso (sorgeva forse su un tempio dedicato al dio Sator?), ma non dimenticato.

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Sulla sua testa (quella di Adamo, il Golgotha) il Cristo piantò la sua croce, spodestandolo. La vita però aveva bisogno di lui. Come i "celti" percuotevano l'ontano a lui caro cantando "vieni fuori dalla tua pelle!", così il Crocifisso lo privò della sua, gli mise in mano un coltello al posto della falce/aratro e gli diede il nuovo nome di Bartolomeo.

Perfino il curioso rituale del "passar sotto l'altare" nella cripta della chiesa, richiama nella sua ciclicità il trascorrere del tempo e di conseguenza una qualche usanza per "annullarlo". Si dice che si tratti di un "rito di fertilità". Ma, poiché, il complesso sorge su una antichissima e assai vasta necropoli, sembrerebbe piuttosto indicare una volontà diversa: rivolgersi al tempo-Saturno per "trascorrere", "passare attraverso" e procedere verso la "rinascita"...

Conoscere i ritmi di Saturno, il ciclo che è alla base di tutti i cicli e che tutti li governa, come l'anello dei romanzi di Tolkien, è anche l'inizio di un cammino di conoscenza.

Il Quadrato del Sator, perciò, forse non era un qualche simbolo di potere o un talismano miracoloso, bensì il segno di appartenenza di quelli che, quel cammino, decidevano di intraprenderlo, che fossero streghe silvestri (che lo chiamavano Cernunno), probi viri romani o prodi cavalieri Templari.

Era il sovrano della Festa dei Folli, che intonando "il Canto dei Cervi" invitava i sudditi al sollazzo, così come già era accaduto molti secoli prima durante i Saturnalia. Così, le differenze, ritualmente si annullavano in ricordo della vita terrena di Saturno: "Orfeo ci rammenta che Saturno visse apertamente sulla terra e tra gli uomini" (frammento orfico).

I rilievi hanno evidenziato come il mosaico del Sator sia stato ricavato (nel XIII secolo) sopra e al centro del vano funerario più importante dell'intero complesso. La nicchia era confinante con la parete della cripta ancora visibile attraverso un muro in cui erano ricavate tre finestrelle opportunamente polarizzate: due monofore (plus e minus) e una bifora centrale (neutro), che consentiva di "vedere", almeno simbolicamente, i "corpi santi". Quali ossa ospitasse esattamente non si sa. Il complesso è da sempre intitolato ai santi Pietro e Orso. Che quest'ultimo giacesse sotto al Sator, quasi a farne le veci?

 

 


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BIBLIOGRAFIA

Cammilleri, Rino, Il quadrato magico, Rizzoli, Milano, 1999

Chevalier, Jean e Gheerbrant, Alain, Dizionario dei Simboli, Bur, Milano, 1999

De Santillana, Giorgio e Von Dechend, Ertha, Il Mulino di Amleto, Adelphi, Milano, 1983

Granatelli, Rosella, Del Latercolo Pompeiano, Simple, Macerata, 2010

Graves, Robert, La Dea Bianca, Adelphi, Milano, 2009

Guarducci, Margherita, Il misterioso “Quadrato Magico”, l'interpretazione di Jérome Carcopino e documenti nuovi, in Rivista di archeologia classica, XVII, Istituto di Archeologia dell'Università di Roma, Roma, 1965

Iannelli, Nicola, Sator - Epigrafe del culto delle sacre origini di Roma - la genesi e il significato del quadrato magico svelati nella teoria della correlazione astronomica, Bastogi, Foggia, 2009

Perinetti, Roberto e Pasquini, Laura, Il mosaico del coro della chiesa dei santi Pietro e Orso ad Aosta, in Actes du IX Colloque de l'Association Internationale pour l'Etude de la Mosaïque Antique (AIEMA), Roma, 6-11 novembre 2001, éd. H. Morlier, Roma 2005

 


Giovedì, 08 Settembre 2016 12:06

Varchignoli: orti del cielo, giardini di gioia

Salendo la stretta strada che da San Bartolomeo penetra nella valle Antrona, laterale dell'Ossola, si incontrano quasi subito piccoli borghi aggrappati alla montagna che una volta erano abitati da vignaioli.

Gran parte del declivio montuoso è stato trasformato, in tempi passati, in terrazze delimitate da poderosi muri a secco, nei quali si aprono decine di ambienti di ignota destinazione e sotto i quali scorrono canalizzazioni d'acqua.

Solo negli anni '80 e '90, però, gli studiosi si sono accorti che l'intera struttura era molto più antica di quanto si pensasse. È un piccolo tesoro di mura megalitiche, buie camere sottofascia e strutture riferibili ad attività agricola, che potrebbe essere stato concepito almeno dieci o venti secoli prima di Cristo.

 “Io, Assur-na¯sir-apli,

non smetto di cogliere frutti

nel giardino della gioia”

(stele di Assurbanipal)

 

A cosa poteva servire? Poiché fino a poco tempo fa, a Varchignoli si coltivava la vite, che cresceva proprio su alcuni di quei terrazzamenti e veniva fatta correre su pali tenuti dai “palanghér”, la spiegazione che gli studiosi hanno dato é, appunto, che già millenni fa l'uomo svolgesse la medesima attività. Tale conclusione è però non più che un'ipotesi. Per loro stessa ammissione, infatti, se fosse vero, l'apparizione della viticoltura a Varchignoli sarebbe avvenuta con un difficilmente spiegabile “rilevante anticipo sui tempi”.

Sorvolando sull'inevitabile e deplorevole abbandono in cui versa il sito (dopo gli iniziali interventi e la costituzione di un piccolo museo, la comoda incertezza che erode l'autorevolezza e l'indolenza atavica che affossa ogni slancio hanno avuto la meglio!) molti sono i dubbi e le domande che rimangono aperti. Ma più di questo non sembra possibile dire, a meno che futuri ritrovamenti offrano nuovi spunti.

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Casa de' Conti (Varchignoli): nicchia con copertura a tòlos (probabile tomba)

usata come "inceneritore" per gli sfalci del bosco

Così, non si riesce ancora a motivare le conoscenze dei suoi realizzatori, la particolare localizzazione dell'insieme o la presenza e l'utilità delle camere sotterranee, che hanno manifestamente un aspetto “cultuale”, oppure ancora delle innumerevoli doppie-scale monumentali addossate ai muri o da essi emergenti, visibilmente in esubero rispetto alla reale necessità di spostarsi da una balza all'altra e di solito affiancate a formare doppie scalinate opposte convergenti o divergenti.

Invero, se ci si perde per un po' tra le balze terrazzate, respirando l'aria umida che fluisce dalle vetuste condotte idriche ormai prosciugate e sostando in silenzio accanto alle mura poderose, il sospetto che non si tratti di un semplice impianto agricolo, alla fine viene.

Da buon curioso ma “non addetto ai lavori” dopo ripetuti pomeriggi in solitudine trascorsi a Varchignoli, mi sono fatto “la mia idea”, attingendo alla mia povera sensibilità. E qui umilmente, come sempre, la propongo.

Cardine di tutto l'insieme, sembra siano i “palanghér”, null'altro che fori praticati in una lastra orizzontale di pietra lungo i muri di pietra, in modo da inserirvi la base di un palo, fatta poi appoggiare su una mensola al di sotto, o fissata con cunei. Sui pali si poteva poi far crescere la vite. E non solo quella. Almeno è così che fin dal medioevo la coltivazione viticola si sarebbe sviluppata.

Sembra che esistessero due tipi di “buche da palo”: quello più antico formato da due metà avvicinate, come fosse una tenaglia; quello più “moderno”, a foro unico praticato in una pietra piatta.

Ho guardato bene... i tipi potrebbero essere invece tre, se non quattro. I palanghér a foro unico, infatti, presentano spesso curiose (e oserei dire “volute”) svasature del foro, più aperto a volte verso il basso, a volte verso l'alto.

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Sono insomma “polarizzati”, come se dovessero raccogliere qualcosa dal basso (o dall'alto) per convogliarlo (e addensarlo filtrandolo) dalla parte opposta. Lo stesso può dirsi del “tipo vecchio” in cui le due “braccia” sono sempre dissimili per dimensioni.

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E quando capita di scorgere diversi di questi dispositivi, ad altezze differenti e polarizzazioni varianti, la mente li riconosce intuitivamente come una sorta di enorme “tastiera”, fatta per suonare suoni invisibili e soavi.

Posizionati sulla verticale della bocca di una canalizzazione, ai piedi di una delle scalinate ad aggetto lungo i muri, poi, paiono proprio comporre la sezione longitudinale di uno di quegli incredibili pozzi sardi, con un piccolo buco svasato sulla sommità, quasi un invito al Cielo a “buttarsi in acqua” passando da quello stretto foro.

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E le scale... le scale... troppe, ridondanti e disagevoli. Lo spazio per scalinate più ampie e sicure non mancava di certo! Sono quasi sempre a coppie, divergenti o convergenti secondo la necessità. Di nuovo i paralleli con altre culture non mancano. Pare di vedere l'interno del meraviglioso pozzo Chand Baori ad Abhaneri, nel Rajastan, risalente al VII secolo. L'invaso circondato da scale divergenti/convergenti consente di raggiungere l'acqua sul fondo, che le scalinate rendono “nettare della gioia” (come la dea cui il pozzo è dedicato).

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C'é anche un particolare sito a una manciata di chilometri da Cuzco, in Perù, che fa il paio con Varchignoli. Fu ricavato terrazzando una conca a Tipòn. Non si sa con certezza quando. Doppie scale punteggiano le mura di contenimento e le acque incanalate dalle sorgenti della montagna vi scorrono accanto. Di nuovo, in questo caso, i gradini ad aggetto non paiono avere un'effettiva funzionalità, anche in considerazione della presenza di ben più comode scalinate frontali che collegano i terrazzamenti. Anche di Tipòn si dice che fu un'installazione ad uso agricolo.

L'immagine più vivida che queste doppie scale richiamano è però quella dei fregi sopra gli ambienti trogloditici della meravigliosa Petra, in Giordania. Nella capitale dei Nabatei, per molto tempo fiorente e strategico snodo commerciale del medioriente, la decorazione sul fronte delle case sembra fosse un'indicazione imprescindibile dei suoi occupanti. Dicono gli archeologi che, in città, case e tombe di oriundi egizi fossero sormontate da piramidi, mentre le doppie scale incoronassero le case e le tombe dei Nabatei: la doppia scala convergente indicherebbe le sepolture, mentre la variante divergente le abitazioni o comunque ambienti riservati ai viventi.

Così, a distanza di migliaia di chilometri e di anni da Varchignoli, ricompaiono gli stessi simboli polarizzati: le scale divergenti a indicare “vita” e quelle convergenti l' ”altro mondo”. Ma a Petra è per lo più l'unica traccia che si può seguire per tentare di collocare le grandiose facciate scolpite nella roccia rosata e le camere che custodiscono.

Anche a Varchignoli non esiste un'indicazione chiara e valida del motivo per cui numerose camere furono ricavate sottofascia. Diverse per dimensioni, impianto e tipologia costruttiva, presentano coperture megalitiche realizzate con lastroni (forse già presenti e sotto i quali furono ricavate), con lastre e pietre più piccole oppure “a tòlos”, una sorta di “cupole” ante-litteram spesso adottate per gli ambienti di sepoltura. Ciò farebbe propendere per un uso “cultuale” almeno di alcune.

In certi casi internamente sono state ricavate “panche” la cui funzione è ignota, oppure nicchie.

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Per parte mia, ho constatato quanta perizia sia stata messa nelle loro impostazione e non solo nella loro costruzione. Se, dunque, nulla fu “fatto a caso”, l'orientamento, le dimensioni, la tecnica, lo stile potrebbero rappresentare validi indizi sulla loro reale funzione.

Una delle più ampie, quella contrassegnata con i numeri di rilevamento 171-172 (località “Valin Bianch”), è comodamente raggiungibile dalla parte più occidentale del muro in cui è ricavata, confinante con terrazzamenti piuttosto ravvicinati e larghi, anche se crollati. In posizione opposta, dove il muro è più elevato c'é l'immancabile scala discendente in direzione dell'ingresso.

Il muro in cui si apre la camera non è rettilineo, bensì curvo: una doppia curva studiata, come quella di certi “oranti” rinvenuti nei pittogrammi rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio, non lontano da qui.

e ci si pone a questo punto con le spalle all'ingresso della camera, si nota subito un particolare: è orientata perfettamente verso il punto in cui il sole scompare dietro le montagne al tramonto del Solstizio Invernale (21 dicembre).

La parete di fondo però é inclinata, si rivolge ad un punto diverso, l’ovest, che la cima più alta del panorama contrassegna perfettamente e che corrisponde al tramonto equinoziale. 26° circa più a nord-ovest il sole tramonta al Solstizio Estivo, disegnando, a partire da alcuni gradi a nord dell’ovest un cono d’ombra nella camera, che si estende fino all’unica pietra infissa verticalmente nella parete di fondo.

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Al tramonto Solstizio Invernale mentre la “bocca” inquadra il punto in cui il sole viene occultato dalle montagne (stagliandosi sul Capricorno), la via lattea, in verticale sulla direzione ovest si “riflette” sulla pietra infissa verticalmente nella parete di fondo.

Al tramonto Equinoziale mentre Il sole, stagliandosi sull’Ariete, si riflette sul fondo della camera e la “bocca” indica la costellazione dell’Aquario.

Al tramonto del Solstizio Estivo, infine, la parete di fondo inquadra la costellazione del Leone, mentre la “bocca” abbraccia la Vergine.

Così accadeva nel 1350 a.C. circa, la data approssimativa nella quale secondo gli studiosi, sarebbe stato costruito in complesso di Varchignoli.

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La mia ipotesi è che, perciò, questa struttura (e di conseguenza anche le altre) sia una “camera di risonanza” attraverso cui richiamare, condensare e avvicinare una certa porzione zodiacale del cielo alla terra. Ciò non contraddice l'idea che Varchignoli possa essere nato come impianto agricolo, piuttosto riveste di una nuova importanza i frutti della terra che qui si coltivavano.

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Se la mia ipotesi è corretta, qui non si coltivava soltanto la vite. Inoltre, se erano importanti i periodi di semina individuabili attraverso i movimenti solari (le camere funzionavano forse anche come “orologi”) e probabilmente anche lunari, altrettanta importanza dovevano avere i legami di ciascuna specie seminata con il rispettivo “maestro” celeste e il corrispondente “nume” ipogeo.

Di tali misteriose associazioni, che potremmo impropriamente definire “astrologiche” in effetti qualche traccia documentale si è trovata. Il controverso “La Dea Bianca” di Robert Graves, ad esempio, mal compreso da molti e travisato da molti altri, ne è un notevole compendio.

Forse Varchignoli e le aree circostanti erano un insieme unico e altamente organizzato, suddiviso in aree delle giuste dimensioni, in cui era presente il “richiamo” a una precisa parte del cielo e nella cui terra veniva seminato il vegetale che si riteneva corrispondervi.

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L'acqua pura sapientemente incanalata vivificava il suolo, scale e “palanghér” (almeno quelli che non sostenevano nulla) aumentavano l'effetto, ricomponendo gli eccessi e riequilibrando i difetti.

Così, i frutti della terra diventavano “pomi d'oro”, cibi celestiali, il nutrimento da offrire agli dei.

Alcuni ambienti sotterranei non è escluso fossero destinati alla sepoltura dei custodi di quel luogo che, in tal modo, avrebbero potuto continuare a vegliarlo anche dall'aldilà. Altri ambienti infine, potevano essere “di riequilibrio” per gli esseri umani sullo stesso principio di corrispondenza fra gli astri e i diversi “tipi” umani.

Forse Varchignoli era simile ai leggendari “giardini pensili di Babilonia”.

L’acqua incanalata scendeva dall’alto fino ai giardini; i viali sono odorosissimi, le cascatelle brillano come gli astri del cielo in questo giardino di delizie. I melograni, coperti di grappoli di frutti come la vite di uva, ne aumentano il profumo. Io, Assur-na¯sir-apli, non smetto di cogliere frutti nel giardino della gioia...”. Così si legge nella stele di Assurbanipal.

I giardini babilonesi, avevano anche un altro nome: “Al suo palazzo egli fece ammassare pietre su pietre, fino ad ottenere l’aspetto di vere montagne, e vi piantò ogni genere di alberi, allestendo il cosiddetto «paradiso pensile»”.

Erano un “paradiso” in terra, un giardino di delizie riservato ai re, agli dei e agli eroi, come quello delle Esperidi.

Forse lo era anche Varchignoli.

 


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BIBLIOGRAFIA:

AA.VV., Megalitismo in Ossola?, Atti del convegno, in Oscellana XX, Domodossola, 1990

Bertamini, Tullio, E dalla pietra il vino, in Oscellana XXIII, Domodossola, 2003

Bianchetti, Gian Franco, Varchignoli: il contatto con le origini, in Oscellana XXIII, Domodossola, 2003

Caramella, Pierangelo e De Giuli, Alberto, Archeologia Alto Novarese, Antiquarium Mergozzo, Mergozzo, 1993

Chevalier Jean e Gheerbrant, Chevalier, Dizionario dei Simboli, Bur, Milano, 1986

Copiatti, Fabio e De Giuli, Alberto, Sentieri antichi. Itinerari archeologici nel Verbano, Cusio, Ossola, Grossi, Domodossola, 1997

Copiatti, Fabio, De Giuli, Alberto, Priuli, Ausilio, Incisioni rupestri e megalitismo nel Verbano Cusio Ossola, Grossi, Domodossola, 2003

De Santillana, Giorgio e Von Dechend, Hertha, Il mulino di Amleto, Adelphi, Milano, 1983

Gaspani, Adriano, Astronomia e antica architettura sull'arco alpino, Priuli&Verruca, Ivrea, 2009

Graves, Robert , La Dea Bianca, Adelphi, Milano, 1992

Negri, Paolo, Varchignoli: l'affermazione del megalitismo in Ossola, in Oscellana, XXIII, Domodossola, 2003

Piana Agostinetti, Paola, Il vino dei Leponti. Ipotesi sull’inizio della coltivazione della vite nelle Alpi Centrali, in Oscellana XXIII, Domodossola, 2003


Sabato, 11 Giugno 2016 10:19

PORTOFINO INCONTRA AUTORI 2016

Con il mio libro DEEN THAANG - IL VIAGGIATORE a questa importante kermesse benefica

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Giovedì, 09 Giugno 2016 18:15

Santa Cazzuola

Raccontano le agiografie che all'alba del Cristianesimo nel Nord Italia, sulle rive del Lago d'Orta erano giunti due fratelli predicatori dalla lontana Grecia. Le gesta dei fantomatici Giulio e Giuliano sono piene di accadimenti prodigiosi. Tra le tante, è curiosa la storia di come, mentre l'uno erigeva San Lorenzo a Gozzano e l'altro la futura Basilica sull'isola in mezzo al lago, si lanciassero l'un l'altro l'unica cazzuola e l'unico piccone che possedevano. Gli arnesi volavano dunque di continuo per chilometri, cascando alternativamente nella mani di questo e di quello che, in tal modo portarono avanti contemporaneamente i due divini progetti. Si dice che una volta Giuliano non si sarebbe accorto dell'arrivo volante del piccone e che si sarebbe di conseguenza ferito una mano per cercare di acchiapparlo. Lo schizzo di sangue lasciato su una pietra diventò oggetto di intensa devozione.

Identica faccenda pare essere accaduta anche sulle rive del Lago Maggiore, poco più a est. Qui sorge, sulle alture varesotte di Ranco, una placida, millenaria chiesa dedicata a San Quirico. Si racconta che fu edificata da un qualche “monaco errante”, che aveva viaggiato insieme ad un confratello, il quale aveva proseguito fino al Monte San Salvatore sopra Massino Visconti, sull'opposta riva del lago.

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San Quirico al Monte (Ranco di Angera) - fonte: Wikipedia

Mentre l'uno innalzava San Quirico, l'altro costruiva la primitiva chiesa che probabilmente pre-esisteva al santuario benedettino che vi sarebbe sorto nell'anno Mille.

Di nuovo, a causa della mancanza di attrezzi, si vide per diverso tempo una cazzuola sfrecciare fischiando di traverso al lago, da una chiesa all'altra. Di tale mirabolante prodigio sarebbe stata ripetutamente testimone tale Servilia, rifugiatasi nei boschi circostanti insieme all'anziano padre per sfuggire ai dominatori longobardi.

Più tardi le leggende finirono per sovrapporsi e i due santi monaci cristiani di Angera (Ranco) e San Salvatore diventarono Giuliano e Giulio, i quali vi sarebbero arrivati dopo essere passati dalla vicina Brebbia e prima di giungere ad Angera. Dei due, ovviamente, Giulio si sarebbe occupato di San Salvatore, “andando avanti” lungo la strada, come poi avrebbe fatto anche tra Gozzano e Orta.

Una volta di più è valido ciò che ormai molti storici confermano e cioè che le agiografie dei santi furono creazioni molto più tarde di quando i supposti santi sarebbero vissuti, confezionate ad arte su modelli stereotipi ben definiti. Del resto, a parte quella leggendaria storia che le accomuna, le due chiese non sembrerebbero avere nulla a che fare l'una con l'altra.

Cambia il lago, cambiano i protagonisti e la faccenda si ripete. Ma l'ispirarsi ad una medesima fonte per redigere le agiografie, forse, non spiega ogni cosa. Dovrebbe essere quantomeno sospetto che sia stato inserito un evento tanto strano e poco rappresentativo in luoghi diversi e differenti storie di santi.

 

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Monte San Quirico (Ranco di Angera), vista dalla riva occidentale del Lago Maggiore

San Quirico Al Monte è dedicata a un santo bambino. Senz'altro è essa stessa una chiesa-bambino. Però Quirico è di solito accompagnato dalla figura materna. Essendo questo un caso in cui la dedicazione è riferita soltanto a lui e non a “Quirico e Giulitta”, la “madre” dove può trovarsi?

Il “lancio della cazzuola” avanti e indietro, come a tessere una tela invisibile, conduce inevitabilmente a San Salvatore. Non è difficile immaginare che tale Santo non sia probabilmente la dedicazione originaria. La “Salvezza”, il Cristo evangelico, venne dal grembo della “Madre”, Maria e forse proprio a lei fu intitolata, prima dell'arrivo dei Benedettini la sommità del monte. Come già intonava una celebre preghiera mariana orientale, Sub Tuum Praesidium: «Proteggici o Madre di Dio / sotto la Tua ala da ogni pericolo: / Tu sei il nostro rifugio, la nostra massima speranza...». La Theotokos è dunque anche la fonte della “speranza di salvezza”.

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Abbazia/Santuario di San Salvatore (Massino Visconti)

Del resto il monte, prima dell'arrivo dei benedettini, si chiamava “Biviglione”, con il significato di “(montagna) delle grandi betulle”. L'albero in questione è di certo di natura femminile e femminili erano le “vesti” con cui veniva adornato nei giorni della Pentecoste (mese di Maggio, il mese della Vergine Maria) prima di essere gettato nel fiume per propiziare la pioggia. Nelle saghe europee e soprattutto nordiche è infatti un albero della vita, un veicolo della creazione e precisamente l'entità arborea che dona la luce al mondo.

 

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Affresco absidale (particolare) - Abbazia/Santuario di San Salvatore, Massino Visconti

Non a caso, dal XV secolo, quando il monastero passò agli Agostiniani, proprio questi ultimi vi portarono (o riportarono) il culto della Madonna, quella detta “della Cintura”, di origini bizantine. L'originale, la reliquia della cintola, una sorta di fascia indossata sopra i fianchi per reggere le vesti, pare fosse custodita a Bisanzio-Costantinopoli nella chiesa di Santa Maria Chalchoprateia, in un prezioso reliquiario, la Santa Cassa.

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Madonna della Cintura (statua moderna) - Abbazia/Santuario di San Salvatore, Massino Visconti

C'é poi un curioso legame con la femminilità e l'atto creativo nascosto nelle “absidi da celebrazione” del complesso di San Salvatore. Questi curiosi ambienti semicircolari sovrapposti voluti dai benedettini e la cui funzione non è chiara, hanno infatti dedicazioni non casuali: Santa Margherita di Antiochia, Maria Maddalena e lo stesso San Quirico! La prima è la patrona delle partorienti, l'ultimo dei fanciulli ed è fanciullo egli stesso e ciò porta a supporre che nella loro presenza fu codificata una vera e propria venerazione per l'atto spirituale e terreno di “creazione e manifestazione della vita” nelle sue tre fasi salienti.

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Affresco absidale (particolare) - Abbazia/Santuario di San Salvatore, Massino Visconti

Ecco dunque la chiesa “madre”, in cui il bambino è presente e la chiesa “bambino” sull'altra sponda del lago. La cazzuola parrebbe dunque una sorta di legame invisibile tra i due luoghi, mantenuto vivo attraverso il suo andirivieni “sul filo della cintola”. Il “dono della cintura” fatto dalla Vergine a Santa Monica (madre di S.Agostino), all'origine di tale culto, era infatti un chiaro simbolo di appartenenza e di fiducia insieme, come già era stato scritto in Isaia 11,5: “Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia / cintura dei suoi fianchi la fedeltà”.

 

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Scala santa e ingressi delle absidi da celebrazione - Abbazia/Santuario di San Salvatore, Massino Visconti

Quanto allo strumento attraverso cui viene indicata la “cintura invisibile”, un attrezzo da costruttore, è facile ricondurlo ai simbolismi del compagnonage libero-muratorio, per lo più come indicazione di una volontà precisa e studiata, appannaggio di pochi sapienti.

Se poi si cerca un motivo per cui la cazzuola sarebbe stata messa nelle mani di Giulio e del suo fantomatico “fratello” Giuliano, di nuovo San Salvatore offre uno spunto curioso nella figura di una delle dedicatarie delle cappelle da celebrazione. Prima di Giulio, già Santa Margherita di Antiochia era stata una “ammazzatrice di draghi”, una “sauroctona”.

Infine vale la pena soffermarsi su un dettaglio del Libro di Isaia. Due sono le “cinture” ricordate. Una è quella chiamata dai greci “zone”, la cintura vera e propria annodata soprai fianchi, che è il segno della fedeltà, della fede che è come un “filo” che “mantiene” un legame, una promessa come quella dei Templari che indossavano, per tale motivo, un filo di candido lino in vita, sopra l'armatura... la promessa della salvezza, appunto, su cui fu edificato il Monte San Salvatore.

L'altra è invece quella indicata in Grecia come “strophinon” ed è la fascia che avvolge il seno, annodandosi nella zona renale/lombare, segno di giustizia, secondo Isaia. Forse anche questa “fascia invisibile” esiste sul Lago Maggiore.

Poco più a nord di San Quirico al Monte, sorge infatti l'antico Eremo di Santa Caterina del Sasso, fondato, si racconta, come ex-voto dal mercante Antonio Besozzi, scampato ad una violenta tempesta mentre attraversava il lago.

Esattamente di fronte, sull'opposta sponda, fra le alture di Stresa, esiste un altrettanto antico oratorio, quello della Madonna di Passera, la cui leggenda di fondazione è identica a quella dell'eremo: di nuovo ne è protagonista un mercante, di vini questa volta, salvatosi miracolosamente anch'egli da un nubifragio mentre attraversava le acque del Lago Maggiore.

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Leggenda di fondazione (miracoloso salvataggio da naufragio) - Oratorio della Madonnadi Passera, Stresa

La coincidenza dei fatti non è passata inosservata. Più nascosto invece il legame tra i due luoghi e le rispettive dedicatarie. Da una parte vigila la santa alesandrina -forse mai esistita, forse confusa con l'eroica Ipazia- patrona dei giuristi, degli uomini di giustizia; dall'altra parte si venera la Presentazione della Vergine al Tempio. Tale è la denominazione esatta dell'oratorio. Ma la Madonna fanciulla presentata al Tempio ha anche un altro nome: Madonna della Salute.
La salute è integrità. L'integrità è giustizia. E una fascia sottile, la stessa che tenne sollevati i mercanti naufraghi dalle onde del Lago, è ancora tesa fra le due.

 


BIBLIOGRAFIA

Aa.Vv., Ranco, civiltà e storia del Lago Maggiore, Nicolini, Gavirate, 1991

Manni E., Massino Visconti e il Santuario di San Salvatore, Capelli, Varallo, 1975

Vincenzo De Vit, Il lago Maggiore, Stresa e le isole Borromee: notizie storiche, A.F. Alberghetti, Prato, 1875-1878

Lucia Sebastiani, Culto dei Santi, feste religiose e comunità della Lombardia post.tridentina, in Verbanus nr.VII, Alberti Libraio, Intra, 1986

Piero Orlandi e Gian Carlo Botti, Monasteri e conventi in Lombardia, Celip, 1988

Luciano Besozzi, De Besutio, Lulu.com, 2012

James Frazer, Il ramo d'oro. Studio della magia e della religione, 2 voll., Torino: Einaudi, 1950

Robert Graves, La Dea Bianca, Adelphi, Milano, 1992

Alfredo Cattabiani, Florario: miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, Milano, 1992

Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Bur-Rizzoli, Milano, 1999


Giovedì, 07 Aprile 2016 08:37

Gli occhi della Sfinge

Il Cairo, “La Soggiogatrice” è la moderna capitale egizia e la più grande metropoli africana, sorta su precedenti insediamenti arabi ai tempi dei Fatimidi, impegnati a restaurare il califfato. Appare fatiscente, fumosa, inquinata ma anche in continuo fermento, come una cittadina di frontiera, da cui si parte per nuove conquiste.

Il suo simbolo è Grande Piramide. La sua enormità mi schiaccia. È una sensazione a cui non si riesce fare l’abitudine: milioni di blocchi squadrati ed impilati accuratamente, ai quali Napoleone stesso si ispirò per l’arringa finale ai suoi soldati, in vista della celebre “Battaglia delle Piramidi” del 1798.

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Molto si dice, si è detto e si dirà di questi monumenti. Qualcuno ha scomodato perfino extraterrestri e atlantidei per cercare di spiegare come e perché i faraoni della IV dinastia costruirono le piramidi. Se ne parla come di tombe, di grandiosi mausolei, ma nessuno è mai stato sepolto al loro interno. I sarcofagi ritrovati nei loro recessi, infatti, erano tutti miseramente vuoti. Non svuotati, bensì mai utilizzati e di questi faraoni – Cheope, il figlio Chephren ed il nipote Micerino – non è mai stata scoperta alcuna sepoltura. Essi vivono come fantasmi, figure mitiche e semi-divine nel calcare delle loro piramidi e nei vaghi ricordi, non sempre benevoli, lasciati da qualche storico antico.

La storia di quel Khufu, Cheope, cui è attribuita la più grande e perfetta piramide egiziana è una manciata di parole, la prova della sua esistenza una statuina alta non più di quindici centimetri, che è ancora possibile vedere, se si riesce a trovarla, al Museo Egizio Del Cairo, che custodisce le più incredibili produzioni artistiche dell’Antico Egitto.

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La prima volta che si entra in questa secolare istituzione vengono quasi le vertigini per la quantità di reperti di ogni dimensione e forma strizzati, ammassati in ogni centimetro di spazio disponibile.

Aggirarsi per il museo è un po’ tornare bambini e scoprire un nuovo tesoro ad ogni passo, sotto lo sguardo attento del “sorvegliante”, la lignea figura di Ka-Aper, primo sacerdote di Saqqara, la cui effige in legno è talmente realistica da sembrare viva. I suoi occhi vivaci e guizzanti, realizzati con pasta di vetro e ceramica, ancora scrutano con attenzione chi si mostra al suo cospetto.

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Al piano superiore la principale attrazione sono le incredibili meraviglie del corredo appartenuto al faraone fanciullo Tutankamon, che rilucono d’oro, di gemme e di pietre dure. Tutto si è conservato mirabilmente, dai sarcofagi, alla splendida maschera funeraria, alle vesti, ai giochi, ai bastoni da passeggio, ai bauli e ai ricchi corredi del bambino che fu re.

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In un angolo, una porta si schiude sul luogo più misterioso del museo, la Sala Delle Mummie Reali, dove riposano i grandi sovrani, nell’immortalità dei loro corpi, mirabilmente conservati. Tra le altre è sicuramente degna di nota quella del potente faraone biblico Ramsete II che, posizionata nel museo nel 1881, dopo aver vagato a lungo, secondo le cronache dell’epoca avrebbe addirittura alzato un braccio in segno di ringraziamento.

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Lontano dal Museo, a poca distanza dalla Piramide di Cheope, su tutta la città e oltre vigila la Sfinge. Chissà, sempre che sia vero, quali immensi segreti cela sotto la sua zampa destra, laddove si apre un vasto antro, una grande camera che conterrebbe la sapienza perduta di Atlantide. Quante cose avrà mai visto questo plurimillenario e muto testimone del tempo?

Il suo viso di pietra, forse quello di Chephren, con il mento alto e lo sguardo ieratico, sfida il mondo intero, contemplando il sole all’orizzonte. Attende risposta al millenario enigma: “Cos’è che al mattino cammina a quattro gambe, al mezzodì con due e al tramonto con tre?”.

 

Fotografie: Yuri Minghini

Testo: Francesco Teruggi


 

Fin dal XVI secolo esisteva in Valstrona una nobile famiglia di conti, detti «Gozzano», la cui residenza dominava l'abitato di Luzzogno. La stirpe diede parroci al paese e vescovi alla cristianità. Nell'edificio, ancora esistente, al piano alto, sulla parete del loggiato nella quale si apre la porta di accesso alla camera da letto patronale, è ancora presente un complesso ed enigmatico dipinto allegorico.

Poche o pressoché nulle sono le informazioni su questo «gioiello», che è tale non tanto per stile e qualità artistica, quanto per la sua profondità sapienziale e la sua vastità simbolica. Se le poche ricerche sull'argomento ne hanno individuato i tratti essenziali, bisogna spingersi in direzioni nuove per riuscire ad afferrarne i preziosi segreti.

CasaGozzanoL 5Luzzogno: Santuario della Colletta

Il dipinto si presenta come una sorta di tabella, di tavola ben spaziata in quattro quadri, separati a coppie in senso verticale da una colonna, avvolta in spire da un drappo e terminante in un «sole» con la Madonna e il Bambino Gesù al centro.

I due riquadri bassi presentano ciascuno una teoria di personaggi femminili, allegorie dei vizi e delle virtù. I due alti presentano invece schiere angeliche con tratti maschili. Una linea di cartigli o forse di tende separa le immagini angeliche da quelle femminili, come a oscurare le une dalla vista degli altri.

Le due teorie maschili e femminili sono senz'altro un riferimento alla terra (femminile e umano) e al regno celeste (maschile e angelico). In senso orizzontale, le figure femminili delle due teorie sono le stesse, ma ritratte ciascuna in comportamenti antitetici: lo specchio che induce prudenza, il guardare bene dentro sé stessi è anche lo specchio della vanità che genera superbia. Così, il bene e il male terreni si fronteggiano, ma esistono insieme, sono aspetti di una stessa cosa.

Ma, appunto, bene e male sono soltanto terreni; nel regno celeste non c'é spazio alcuno per il male. Infatti, sono angeli anche quelli che si avvicendano sopra ai vizi e sono precisamente quei 7 vittoriosi, di cui parlano i profeti biblici e l'Apocalisse, ciascuno sopra ogni afflizione. Gli angeli più esterni portano emblemi eloquenti che si rifanno ai Vangeli: il velo della Veronica, che fu «sollecita» nel soccorre Gesù, la croce del Cireneo che fu suo «alleato» nella salita al Golgota, ecc.

Se poi facciamo caso alla scelta di porre i vizi alla sinistra della Madonna e le virtù a destra, otteniamo una precisa direzione di lettura, aiutata anche dagli sguardi reciproci di tutti i personaggi: dai 7 angeli guardiani con gli sguardi verso il basso, l'occhio viene condotto ai vizi, da questi alle virtù e di nuovo in alto verso i 7 «angelici» Doni dello Spirito. Lo sguardo e il corpo del Bambino Gesù sono rivolti a chi «lo segue», quelli della Madre a chi è lontano e ancora deve percorrere il «sentiero irto di ostacoli». Si compie con gli occhi una spirale, discendente e poi ascendente, quella della fallacità umana che, con l'aiuto del cielo può diventare virtù e attraverso questa ci può portare al cielo e ai suoi doni spirituali.

L'albero al centro, rifà lo tesso movimento, di discesa attraverso le spire del drappo, di risalita attraverso l'albero vero e proprio, avvolto all'interno... il sole che alimenta le foglie e il nutrimento delle radici che, grazie alla luce si trasforma e risale fino alle fronde, facendo germogliare nuova vita.

Potremmo definire quindi questa rappresentazione un «viaggio dell'anima» per immagini o una «mappa dello spirito», che trae certamente ispirazione dal genere letterario-artistico-teologico di cui la Divina Commedia dantesca è senz'altro il più elaborato rappresentante occidentale.

CasaGozzanoL 2Luzzogno

Il destino dell'uomo e della sua anima dopo la morte è uno dei quesiti esistenziali fondamentali e ha prodotto in tante culture ed epoche opere che cercano di spiegarlo con mirabile bellezza, dall'Apocalisse di San Paolo ai testi sufi (ad esempio il «Libro della Luce» di Bistami o il «Cammino degli uomini verso il loro ritorno» di Sanai, il «Racconto di Hayy Ibn Yaqzan» di Avicenna, il «Libro del viaggio notturno verso la maestà del Generoso» e «L’Alchimia della felicità» entrambi di Ibn Arabi), dalla «Navigazione di San Brandano» (VII sec.) ai poemetti medievali cui si ispirò con buona probabilità anche Dante («La Gerusalemme Celeste e Babilonia città infernale» di Giacomino da Verona o il «Libro delle tre Scritture» di Bonvesin della Riva), alle «visioni» (quella di Alberico di Settefrati e quella di Tugdalo sono forse le più celebri), fino al trecentesco «Libro dei Vizi e delle Virtù» di Bono Giamboni.

Se quest'ultimo può essere stato di ispirazione per parte del dipinto in casa Gozzano, ce n'é però uno soltanto dal quale l'ignoto pittore può aver tratto l'idea generale della composizione. Ben noto già al tempo di Dante, è il testo islamico, di autore anonimo, noto come «Libro della scala di Mometto», che narra del «miraj», il viaggio nell'aldilà compiuto dal profeta, solo accennato nel Corano.

Nel capitolo VI, Maometto, salendo la scala verso l'altro mondo, guarda in alto e vede ciò che lo attende: «...guardando in alto vidi un grande angelo assiso in trono, il quale reggeva tra le mani una tavola che si stendeva da oriente a occidente. Alla destra di quell'angelo ce n'erano molti altri, coi volti rilucenti come luna piena, per lo splendore della grazia di Dio. E tutti quegli angeli indossavano vesti verdi, più splendenti dello smeraldo, e avevano profumi più soavi del muschio e dell'ambra. E a sinistra c'era una schiera di angeli più neri dell'inchiostro, con gli occhi rosso fuoco, e puzzavano e avevano voci più forti del tuono e il loro aspetto era immensamente spaventoso».

Così si presenta il dipinto di casa Gozzano a Luzzogno: La Madonna che regge la «tavola» della nuova legge, il Bambino Gesù (che ne è il portatore), angeli lucenti alla sua destra e angeli «tenebrosi» alla sinistra.

La composizione stessa è una tavola, coperta di numerose epigrafi che, fingendo di spiegare il contenuto delle immagini, traggono in inganno l'occhio inesperto e spalancano invece nuovi livelli di lettura a chi ne è meritevole.

Si legge, in basso sotto i vizi un duro monito: «Ai cattivi non giova avere buone conoscenze, se non onorano il Dio vero e santo». Poiché il bene e il male sono governati dalle stesse leggi (le buone conoscenze), non è cosa buona che esse cadano nelle mani di chi vuol compiere il male. Questo non soltanto perché è un'offesa a Dio, ma anche perché «non giova» a loro stessi. Il male che potrebbero fare, su di loro si ritorcerebbe.

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Queste parole dunque, alludendo a certe «conoscenze» ne indicano la presenza nascosta nel dipinto stesso. L'epigrafe gemella, sul lato opposto, prosegue, seguendo sempre il percorso a spirale, a svelare il mistero: «Se c'é qualcosa che conviene ai bambini, giovani e vecchi, cogli con chiarezza tutta la forza delle virtù». Quelle «buone conoscenze» sono, con una perifrasi sibillina, «la forza delle virtù» ed esse sono invece buona cosa (sono convenienti) per i «bambini», per i puri di cuore, siano essi giovani o anziani. La pratica delle virtù è ciò che li porterà al cielo.

Solo a questo punto l'albero, la palma, al centro ci rivela il successivo livello di comprensione. Volano via, uno dopo l'altro, i veli che coprono la verità. Il primo era già alzato, il secondo si è scostato, ora si solleva il terzo, donando nuovi significati anche al primo e al secondo.

Indubbiamente potremmo identificare la pianta nel dipinto come quella che stava al centro del Paradiso Terrestre. Ma nella Genesi, come più volte è stato fatto notare, gli alberi sono ben due, quello della «Vita» e quello della «Conoscenza del bene e del male». Uno sta, appunto, al centro, l'altre accanto ai cancelli. Da quello della Vita, su cui sta il serpente, Eva coglie il frutto. Soltanto quando lei e Adamo verranno cacciati, invece, s'accorgeranno di quello della Conoscenza e non ne potranno più avere beneficio alcuno!

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Luzzogno: affreschi del Santuario della Colletta

Nel dipinto l'Albero che vediamo e che adesso possiamo riconoscere è quello della Vita, il cui tronco è avvolto dal serpente, non il tentatore, ma la sua antitesi, il «serpente celeste», la parola saettante di Dio che scende verso la terra. Le brevi epigrafi che saltano sul tronco, di nuovo, cercano di trarre in inganno lo sprovveduto, ma regalano altre preziose verità ai più puri di cuore.

«Questa è la celeste pianticella», proclamano. È l'albero che ha in cielo le proprie radici e che «supera le piante sabee». Così, ritroviamo lungo il cammino Dante e la sua Commedia e precisamente il Canto XXXI dell'Inferno in cui è contenuta una sibillina frase attribuita al gigante biblico Nimrod: «Raph el mai amech zabi almi» (Contra chi [vieni] all’acqua del Gigante, al profondo del Zabio?).

«Zabio», sabeo, è l'epiteto con cui il sommo poeta definisce il leggendario primo re di Babilonia. Non è difficile scorgere per questo semplice motivo, nella «pianta sabea» spiraleggiante, simile all'albero del dipinto, la mitica Torre di Babele. Secondo il patriarca alessandrino Eutichio, infatti «...al dire d’alcuni, chi prima aveva istituito la religione degli Zabi, era stato nel numero di coloro che avevano edificato Babele». Ma qui non si indica la sola torre biblica, la perifrasi è infatti utilizzata al plurale. Potrebbe sottintendere che la «celeste pianticella», che di per sé è anche un «tempio mistico» è più alta, cioè elevata (in senso spirituale) di qualunque altro tempio.

In termini di «buona conoscenza», quella da cui è iniziato il percorso nel dipinto, l'epigrafe potrebbe dunque suggerire che la sapienza di cui si parla è la più elevata di tutte, anche di quella dei «Sapienti». A tal proposito, un controverso e oscuro testo arabo-spagnolo del XI secolo, il Ghàyat al-Hakìm (conosciuto anche come Picatrix Latino), contiene un'interessante chiave di lettura, poiché indica i sabei come «servi nabatei (copti) dei Caldei» e li indica come «sottomessi alla luna» e come fabbricatori di amuleti, esperti di magia e dediti al culto dei sette pianeti e dell'Orsa Maggiore. I sabei, a quanto pare erano «sapienti» pagani, come i re Magi. Ma neppure questo risolve il problema del termine «piante», plurale nell'epigrafe.

CasaGozzanoL 4Luzzogno: affreschi del Santuario della Colletta

C'é però anche la possibilità che l'idea di riferirsi a questo popolo leggendario sia di nuovo stata ispirata da testi islamici. Dei «sabei» parla infatti il Corano in ben tre sure, tra cui la II e la V, in cui sono annoverati al terzo posto tra le Grandi Religioni. Il primato ovviamente spetta all'Islam, ma la religione sabea risulta «migliore» di quella ebraica, ma non elevata quanto quella cristiana, sebbene sia ad essa la più prossima.

Sheba o Saba è il mitico regno della sposa di Salomone. Il suo popolo avrebbe dunque ben ragione di essere definito «sabeo». Nel periodo di maggior espansione il popolo Nabateo controllava pressoché tutta la penisola arabica compresi i territori delle tribù yemenite, discendenti della Regina di Saba. Secondo la tradizione africana, invece, la sovrana sarebbe di origini etiopi e ciò potrebbe spiegare perché nel Picatrix si usi la locuzione «nabatei-copti».

Proprio dai territori di Sheba/Saba proviene la più celeste delle piante, l'incenso, l'arbusto «spiritualmente» più elevato. La sua resina è la più pura delle sostanze conosciute e ad essa potrebbe riferirsi il cartiglio del dipinto di casa Gozzano, per indicare che la «celeste pianticella» è un'essenza ancora più pura della più pura tra le essenze conosciute.

L'epigrafe successiva in questa prospettiva, conferma appieno l'ipotesi: «questa pianticella è un giglio di pudore». Il giglio è notoriamente il simbolo stesso della purezza, mentre il «pudore» è ciò che rende «inarrivabile». La pianticella è quindi di «irraggiungibile purezza».

Procedendo leggiamo che la pianticella è «Madre» della salvezza, è colei che genera la salvezza per tutti. Infine, nel più lungo di tutti i testi del dipinto, ritroviamo il termine «Madre» . La pianticella «purissima» e produttrice di salvezza è anche Madre di Dio.

Anagramma puro! Non perché si legga anche al contrario ma, in senso ermetico, perché tutto sta in tale purezza e comunque si cambi l'ordine delle lettere, essa sarà sempre pura... come in alto, così in basso, come in cielo così in terra...

CasaGozzanoL 1Luzzogno: Santuario della Colletta

E l'altro albero del Paradiso? Qui sta la grande prova. Perché, nella Genesi, Adamo ed Eva si accorgono troppo tardi della sua esistenza, perché lo vedono soltanto quando vengono scacciati? Forse perché quell'albero è l'Eden stesso e solo quando ne escono scorgono finalmente, da fuori il su tronco.

Nel dipinto di casa Gozzano l'idea, almeno, sembra essere questa. Il bene e il male, i vizi e le virtù, sono ben rappresentati, quasi fossero radici di un grande albero, insieme a parole che esortano a «conoscerli». A sorvegliare entrambi ci sono gli angeli, come quelli posti all'ingresso dell'Eden, poiché una tale sapienza è sapienza «angelica» o, per dirla come Salomone nel Corano, la «lingua degli uccelli» (esseri del cielo, angeli, appunto): «O uomini! siamo stati istruiti al linguaggio degli uccelli (ullimna mantiqat-tayri) e colmati di ogni cosa».

Il percorso ora è giunto a compimento ed è pronto a ricominciare.

C'è un ultimo dettaglio. Quando l'osservatore si pone davanti al dipinto, inconsapevolmente guarda verso nord-ovest, là dove si trova, secondo le tradizioni mistiche, l'ingresso per l'aldilà...

 

 


BIBLIOGRAFIA

Anonimo, Libro della scala di Maometto, XIII sec.

Arioli, Luigi, La casa Gozzano di Luzzogno, in Lo Strona, nr.1/1976, Magazzeno Storico Verbanese, Verbania, 1976

Berti, Giordano, Dante Alighieri, in I mondi ultraterreni, Mondadori, Milano, 1998

Cerulli, Enrico, Il Libro della Scala e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, Biblioteca Apostolica Vaticana, Città del Vaticano, 1949

Chevalier, Jean e Gheerbrant, Alain, Dictionaire des symboles, Robert Laffront, Paris, 1969

Guénon, René, Symboles de la science Sacrée, Gallimard, París, 1977

Guénon, René, L'ésoterisme de Dante, Charles Bosse, París, 1925

Teruggi, Francesco, Il Graal e La Dea, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2012


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Sabato, 02 Gennaio 2016 15:19

FRÀ RÀTT - Un alchimista in Valstrona

Si racconta che il medico condotto Innocenzo Ratti, vissuto a Massiola, piccolo centro della Valstrona, sul finire dell'800, fosse anche un alchimista. In gioventù frate allievo di padre Appiani, dottore, erborista, botanico, agronomo e geologo di fama, abbandonò l'abito talare per amore della bella Teresa (una delle modelle di Hayez) e finì per stabilirsi a Massiola continuando ad esercitare come medico.

Eletto sindaco e sempre tenuto in gran considerazione per le opere pubbliche a favore del paese e della valle, fu sempre noto con il soprannome di «Frà Ràtt» o «sciùr Padàr».

FraRatt 5Casa Ratti

La vita ritirata e solitaria che conduceva nella sua grande casa, le voci sussurrate sul suo conto e le frequentazioni illustri quanto strane - Massimo D’Azeglio, noto per il suo interesse verso lo spiritismo, era solito raggiungere da Cannobio, dove trascorreva parte dell'anno, la Valstrona per consultarlo – alimentarono voci su certi «poteri» che si diceva possedesse e sulla sua dedizione all'alchimia.

Non esistono però, almeno per quanto è dato sapere, informazioni esaustive che possano confermare la sua «vocazione». Nulla emerge chiaramente dai pochi documenti rintracciati negli archivi del paese.

Le sue carte, i libri in cui probabilmente aveva raccolto tutte le sue conoscenze, sono andati distrutti nell'incendio che ha coinvolto la sua casa di Massiola nel 1922, una cinquantina di anni circa dopo la sua morte.

FraRatt 2Casa Ratti - fontana sotterranea

Il sopralluogo presso la casa, ancora esistente, ha però permesso di rintracciare alcuni indizi interessanti. L'insieme sorge sul versante scosceso della valle, proprio sotto la strada che attraversa il paese.

È esposta a sud e si trova in un punto «prezioso», protetto e ben soleggiato, tanto che nel giardino crescono all'aria aperta e senza sofferenze, nonostante la generale inadeguatezza del clima della valle, agrumi (limoni) e fiori che richiedono temperature miti.

Il meticoloso terrazzamento del versante in più balze voluto dallo stesso medico, insieme agli investimenti fatti per fornire di acqua corrente il giardino e la casa suggeriscono che il luogo non fu affatto scelto a caso. Fece infatti realizzare la piazza e la fontana pubblica antistante la casa, lungo la via principale, appositamente per poter incanalare la stessa fonte che la alimentava fino alle balze del suo giardino «all'italiana», dove ricavò cascate e fontanili.

Volendo rintracciare in questi lavori esigenze di tipo «alchimistico», si potrebbe ipotizzare che abbia voluto realizzare un vero e proprio «paradiso terrestre» o «giardino delle delizie», ricco di simbolicamente il luogo di tutte le conoscenze naturali che l'alchimista indaga1.

FraRat 10Casa Ratti - planimetria e rilievo generale

Seguendo il tema dell'acqua, quasi fosse il «filo d'Arianna» capace di sciogliere il mistero di «Frà Ràtt», di particolare interesse durante il sopralluogo si è rivelato uno degli ambienti del piano più basso della casa.

In questa grotta artificiale, fu fatta giungere l'acqua della sorgente che alimenta anche le altre fontane in giardino.

Essa è collegata direttamente con l'esterno attraverso un corridoio, usato anche come ingresso di servizio e attiguo al forno per il pane e alla lavanderia. Nel muro di separazione tra il corridoio e la grotta sono «incastonate» due colonne, che cingono i lati del varco rettangolare senza porta.

Se di simbologia alchemica si tratta, non è difficile riconoscere nel grottino l'oscuro crogiolo alchemico, o meglio ancora quelle «Interiora terrae», le profondità interiori della Terra che il celeberrimo motto/acronimo alchemico detto V.I.T.R.I.O.L (Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem) invita a «visitare»2.

Altrettanto la fontana ricavata nella grotta potrebbe alludere alla «fonte della conoscenza» e l'acqua pura che vi sgorga alla sapienza «divina» che «stilla dalla terra».

FraRatt 1Casa Ratti - ingresso con colonne alla fontana sotterranea

Le due colonne che preludono alla grotta, posizionate in modo tale da essere ben visibili quando si entra, ma non quando si esce, potrebbero allora essere le «colonne del tempio»3, Jachim e Boaz, i due «pilastri del cielo», il «maschile» e il «femminile» la cui riunione costituisce l'ottenimento della Pietra Filosofale.

In casa Ratti le due colonne sono identiche, non appartengono, come vorrebbe la tradizione a due diversi ordini (ionico e dorico), ma una delle due è spezzata a circa due terzi dell'altezza partendo dal basso.

Per quanto il dettaglio sia curioso (nel procedimento alchemico il rapporto tra gli ingredienti è sempre 2/3-1/3) non è possibile stabilire se la rottura sia stata voluta o meno.

FraRatt 7Casa Ratti - interno della torre

Qualche indizio impreciso e non esaustivo può poi essere rinvenuto in alcuni rapporti numerici tra i due ambienti contigui (volumi e lunghezze) nelle cui proporzioni si ritrova a volte il «numero aureo» (1,618), che potrebbe indicare una qualità «iniziatica» del luogo.

Il corridoio e la grotta potrebbero infatti essere una sorta di «percorso di conoscenza», come suggerisce l'analisi radioestesica, da compiere anche fisicamente, prestando attenzione al lato da percorrersi in ingresso, a non sostare tra le colonne, a non porsi frontalmente rispetto alla fontana nella grotta e a raggiungerla invece con un ampia curva.

La copertura della grotta è un piccolo cortile, aperto su due lati, su cui si affaccia una terrazza delimitata da una coppia di «absidi» non identiche per dimensioni.

Oltre la terrazza, sul livello stradale si innalza la parte più voluminosa della villa con una curiosa torre ottagonale.

Anche in queste architetture è possibile in qualche modo riconoscere ascendenze «alchemiche».

FraRatt 6Casa Ratti - interno della torre con dettaglio pianta ovale della scala

Se la grotta è l'unità, l'«uno», «salendo la scala» di incontrano le due absidi, a rappresentare il «due» (nonché nella loro differenza volumetrica, di nuovo il «maschile» e il «femminile»).

La torre potrebbe quindi essere l'«otto», inteso come insieme ma anche moltiplicazione e perfezionamento dei precedenti.

Inoltre, la torre, che ha funzione quasi esclusivamente decorativa, ospita al suo interno soltanto una scala di collegamento tra i piani del blocco cui è annessa.

Ma, curiosamente, la scala interna a chiocciola non è perfettamente circolare, bensì ovoidale, nonostante la regolarità dei lati dell'ottagono, perfettamente uguali.

L'uovo alchemico è uno dei massimi simboli dell'intera Opera, è il crogiolo stesso (raffigurato anche come torre ottagonale!) e il luogo di ogni trasformazione. Dalla sua schiusa si rigenera la fenice.

FraRatt 4Casa Ratti - decorazioni sulla facciata

Ancor più insolite sono poi le volute dipinte presso le finestre della facciata della casa volta a mezzogiorno.

Il motivo ad archi ricorda molto certe architetture gotiche e sembra concepito per reggere i davanzali delle finestre.

Il doppio elemento identico richiama, ancora una volta il doppio principio «maschile» e «femminile» ed è identico a quello che cinge la sommità della lapide che chiude la tomba di Innocenzo Ratti nel cimitero di Massiola.

Sulla lapide, tuttavia, il motivo è riportato una sola volta e cinge completamente le parole commemorative scelte dallo stesso «Frà Ràtt», come a voler indicare che il mistero celato dietro quel simbolo «abbracciò» tutta la sua vita, dandole forma compiuta.

FraRatt 8Cimitero di Massiola - lapide di Innocenzo Ratti

Oltre il motivo ad archi la lapide è delimitata da una cornice decorata con cerchi (il cerchio con un punto al centro, antico geroglifico che indica il sole, è anche il noto simbolo astrologico corrispondente) e losanghe, che termina in un frontone triangolare.

Nello spazio libero sotto la cuspide compare un'immagine di difficile decifrazione.

Da un minuscolo esagono chiuso in un cerchio emerge una sorta di goccia al contrario divisa in tre parti «piene» e due «vuote».

FraRatt 9Cimitero di Massiola - lapide di Innocenzo Ratti, dettaglio della cuspide

Dalla goccia si schiudono verso l'alto sette «petali» che paiono quasi raggi proiettati verso il cielo.

Due rami con tre foglie si allargano invece ai lati della goccia, come mani protese: giunto al termine dell'Opera, l'alchimista è un «nuovo nato», è rinato come il sole dopo l'inverno.

Come tale, riluce di luce propria, suddivisa nei suoi sette colori e domina sui tre regni della natura.

FraRatt 3

 

Dedicato a Barbara Piana, Severino e Maria Piana,

che hanno reso possibile la visita a casa Ratti

 


NOTE

1Si vedano ad esempio il XVII emblema dell'Atalanta Fugiens di Mayer («Il giardino alchemico resta chiuso per chi non ha i piedi per camminare e seguire le orme della natura») o il testo «rosacruciano» di Daniel Stolzius von Stolzberg «Il giardino alchemico delle Delizie».

2Ben nota a tal proposito è la leggenda delle tre potenti «grotte alchemiche» nascoste nel sottosuolo di tre città europee, tra cui Torino.

3Di tale simbologia si sono impadronite soprattutto le logge massoniche, ma era in uso già tra gli alchimisti.


BIBLIOGRAFIA

Barbara Piana, Innocenzo Ratti: Frà Ràtt, viaggiatoricheignorano.blogspot.com, 2015
Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, Bur, Milano, 1986
Francesco Teruggi, Il Graal e La Dea, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2012
Giorgio Baietti, L'Enigma di Rennes Le Chateau, Ed. Mediterranee, Roma, 2003


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Sabato, 28 Novembre 2015 09:36

Il volto della luce

Chi è la Signora delle Rocce? Così viene chiamato nel 1052 il nume tutelare di un remoto villaggio dell'alta Provenza, la cui dimora sorge tra i bastioni a picco sul minuscolo centro abitato.

Cinque fonti di acqua pura sgorgano da sempre nella stretta valle del ranvin d'Anguire e si gettano in uno dei torrenti che danno vita al meraviglioso spettacolo naturale delle Gorges Du Verdon, non prima però di aver alimentato le fontane e i lavatoi del paese, zampillando qui e là tra le case accarezzate dal sole.

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Il mio nome è Signora dal Bel Viso (incarnato)

il mio nome riespande la luce.

Chi viene verso questa soglia è colui che desidera luce

 

Reperti vecchi di 30.000 anni raccontano che l'uomo già saliva a rendere omaggio e supplica a quell'antica dea in epoche così remote da non esser più ricordate. Millenni più tardi, nel V secolo, ai tempi di San Fausto e di Sidonio Apollinare, esisteva un tempio, tra queste pareti di roccia.

Lì, dove si levava un altare della terra, ne fu alzato uno nuovo alla Vergine e al suo volto, al viso benevolo e scintillante di luce che essa mostra al nobile pellegrino, giunto ad onorarla. La chiesa viene già citata nel 1009, nell'atto di donazione firmato da tale Rostaing. Nel 1052 si insediano a Moustiers alcuni canonici regolari provenienti dall'abbazia di Lerìns. Meno di cinquant'anni più tardi, il signore del borgo, Guillame e la sua sposa Adelais cedono ai monaci la chiesa detta di «Santa Maria dell'Annunciazione sotto il nome di Roca», insieme a tutti i loro averi nel «Castello Monasterii».

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L'intitolazione «in Roca» pare sia stata decisa addirittura da Carlo Magno. Il ritrovamento nei dintorni del paese di una villa di epoca carolingia, sembra avvalorare la leggenda.

Il pellegrinaggio a questo straordinario santuario, così prodigo di miracoli, ben presto diventa uno dei più importanti della Provenza e oltre. Viandanti di ogni rango, ceppo e classe attraversano le foreste dell'entroterra sud-orientale della Francia per recarsi alla prodigiosa cappella. Giunti al paese salgono faticosamente la stretta mulattiera tra le rocce, accompagnati soltanto dallo scrosciare delle acque del ranvìn e infine l'avvistano.

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Austera nelle sue forme romaniche e gotiche insieme, con il suo alto campanile (22 metri) ornato da un grande orologio, la cappella attende nel silenzio i pellegrini e i bisognosi. Hanno sostato brevemente in paese e pregato nella chiesa parrocchiale, hanno chinato umilmente la testa ai piedi di Santa Filomena, «quella dei prodigi impossibili», che custodisce l'accesso al sacro recinto del «Belvolto» e ora sono al cospetto della Vergine luminosa, il cui figlio li attende a braccia aperte sopra l'arco di ingresso.

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La chiesa e la cappella sono parte di un unico disegno vitale. La cappella, lassù tra le rocce, è il frattale energetico del vallone stesso. Come due bastioni, che paiono piedi, uno un po' più avanti ed uno un po' arretrato, ne custodiscono l'ingresso, così due alti cipressi svettano davanti al portale della cappella. La scalinata li avvolge, ma non li tocca, come se fossero lì da sempre, da molto prima che i gradini fossero messi in opera. Diceva Confucio che «gli yin piantavano cipressi presso gli altari della Terra».

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Oltre i 12 gradini, l'ingresso è asimmetrico rispetto alla scalinata e ai due cipressi, così come la vallata procede curvando verso la montagna. Sei archi, con profili alternativamente spigolosi e tondeggianti, in un preciso ritmo di polarizzazione, attraggono il pellegrino verso la porta.

L'interno è grigio e austero, la volta alta e sfuggente, il transetto solo accennato. L'altare - oggi coperto da un paramento barocco rivestito d'oro - è lontano, quasi soffocato nella luce crepuscolare, come un baluginio in fondo a una galleria. Avvicinarsi alla madre «graziosa» è arduo, pesante, come risalire la corrente di un fiume in piena. Poi, finalmente al cospetto della madre antica, è impossibile reggere il suo sguardo e sostare proprio di fronte ad essa. Tale è la sua immane potenza, tale è la vita che da lei sgorga, da essere insostenibile per l'uomo. Solo ai bimbi che nascevano già morti era concesso. Qui, dove ogni cosa accadeva e nulla era impossibile, la luce del volto della Vergine era così forte da ridare la vita perfino agli sventurati che non ne avevano potuto beneficiare. Durava il tempo di un solo respiro, ma era sufficiente ad impartire loro il Battesimo, necessario a sottrarli dalla dannazione eterna del limbo.

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In questa cappella, si svolsero innumerevoli e incredibili fatti legati a questo rito, tra i più interessanti e documentati. Se ne contano ben 336 andati a buon fine in soli 30 anni! Molti di più ne avvennero, ma di intere annate di questo periodo – il 1667, il 1640 e gran parte del 1641- la memoria è andata perduta.

Stupisce e meraviglia che tutti siano stati confermati e controfirmati non soltanto dai sacerdoti e dai presenti ma anche da notai, avvocati, magistrati, personalità in vista, celebri viaggiatori e perfino autorità militari, medici e chirurghi. Molti di essi, dapprima scettici, dovettero ricredersi di fronte a tali prodigi!

Di tutti gli accadimenti occorsi tra il 1659 e il 1673 i curati tennero diligentemente registro negli stati delle anime parrocchiali. Dopo il 1670, tutti gli atti e le testimonianze furono raccolti in un apposito registro, il «Libro dei nati-morti che sono portati alla cappella di Notre-Dame-De-Beauvoir di questo paese di Moustiers, i quali, avendo ricevuto il Battesimo grazie a un miracolo particolare concesso dalla Vergine, sono inumati nel cimitero della parrocchia». Insieme al nome del bambino e alla data di morte e rinascita venivano minuziosamente indicati i nomi di genitori, testimoni, i segni di vita manifestati, i sacerdoti che avevano impartito il Battesimo e le informazioni relative all'inumazione nel cimitero di Moustiers.

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Il libro, purtroppo, andò irrimediabilmente perduto, ad eccezione di qualche foglio. Fu il curato Félix a ricostruire per primo la memoria storica di questi fatti, un secolo più tardi, rintracciando 123 casi. Dalle successive ricerche risultano essersi verificati 2 «ritorni temporanei in vita» nel 1640, almeno 6 nel 1641, 5 nel 1659, 6 nel 1660, 7 nel 1661, 13 nel 1662, 33 nel 1663, 42 nel 1664, 19 nel 1665, 48 nel 1666, 27 nel 1667, 112 nel 1669, 12 nel 1670, 4 tra il 1671 e il 1673.

Il prodigio avveniva soprattutto l'8 di Settembre o nei giorni precedenti e successivi. Emerge inoltre dai documenti che le madri giungevano anche da altre diocesi (Aix, Gap, Digné, Embrun, Frejus, Apt, Glandéves, Marsiglia, Nizza, Senez, Riez) compiendo lunghi viaggi. I loro bambini erano certamente morti da tempo ed erano stati sepolti almeno 24 ore, se non giorni, più giorni, prima di venire riesumati ed essere portati a Moustiers.

Un monaco attendeva quelle madri, ritto all'ingresso della cappella. Prendeva con sé il corpicino, avvolgendolo in un drappo candido e si avviava verso l'altare, tenendo nella mano libera una candela accesa, seguito da tutti coloro che desideravano partecipare. Durante il breve tragitto si recitava un'invocazione: «Ave, Regina coelorum, Mater regis angelorum, O Maria flos virginum, Velut rosa vel lilium, Funde preces ad Filium, Pro salute fidelium». Giunto all'altare, il sacerdote benediceva e baciava il crocifisso. Si recitava il Concede, si leggeva il Vangelo secondo Giovanni e si attendeva il prodigio...

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Ciò che accadeva era senza dubbio un miracolo e i segni erano inequivocabili. Si legge di un caso di un bambino che, portato davanti alla Vergine e grazie alle preghiere dei presenti, ad un certo punto «mosse un piede, aprì la bocca e arrossò alle tempie; il cuore diede un battito e il sangue prese a scorrere nel corpo... mosse una mano, tirò fuori la lingua umettata di saliva; aprì gli occhi, girò la testa; un calore sensibile si manifestò in tutto il corpo; il polso batteva».

Tra il 1670 e il 1673 l'usanza e il celebre pellegrinaggio subirono un brusco arresto. La mano lunga dell'autorità ecclesiastica si era spinta fino a Moustier proibendo la pratica sconveniente del répit, che pure aveva alleviato le sofferenze di tante madri e altrettanti figli. Ben presto la cappella cadde in rovina. L'attenzione fu nuovamente rivolta alla chiesa parrocchiale del paese che, fin dal 1336, aveva preso su di sé la dedicazione che, in precedenza, era stata di Notre Dame De Beauvoir. Nuovi contrafforti furono elevati per consoladarla e la Chiesa dell'Annunciazione, esistente fin dal XII secolo come oratorio del monastero fondato dai frati di Saint Victoire, tornò ad essere il centro spirituale di Moustiers.

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In verità, la cappella e la parrocchiale sono e sono sempre state un insieme unico, inscindibile. Esse sono la chiara rappresentazione della vita nel suo discendere fino a questo mondo e del suo manifestarsi. La forma stessa, in elevato, della parrocchiale, che somiglia a quella di un vaso aperto verso il basso, con muri e colonne deformati, richiama il profilo del vallone soprastante, come se tutta la potenza contenuta nella cappella del Belviso qui si «svuotasse».

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Qui, tra foreste di querce, che simboleggiano l'«asse del mondo», la vita fluisce e rifluisce. Qui, la terra «mostra il suo volto, lo splendore del suo «sguardo». Qui, dove la stella del leggendario Blacas, tornato vivo dalla crociata, ancora brilla sospesa in cielo tra i bastioni di Moustiers-Sainte-Marie, l'acqua ha il colore dei suoi occhi. Cos'altro, se non proprio l'acqua «di vita» è la Vergine («la più pura») «de Roca», che viene dalla roccia o d'Entremont, che sta dentro alla montagna?

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Forse il gran segreto che si cela dietro le misteriose Vergini delle Rocce dipinte da Leonardo, è proprio questo...

 



BIBLIOGRAFIA

 

Aa. Vv., Les Églises de Moustiers, Alpes de Haute Provence, Beau'Lieu, Lyon, 2013

Casalini, Fabio e Teruggi, Francesco, Mai Vivi Mai Morti, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2015

Gélis, Jacques, Pousser les portes du paradis. Le sanctuaire «à répit» de N.-D. De Beauvoir à Moustiers-Sainte-Marie (1640-1670), in Froeschlé-Chopard, Marie-Hélène (a cura di), Itinéraires pèlerins de l’ancienne Provence. La Sainte-Baume. Notre-Dame de Moustiers. Notre-Dame de Laghet. Notre-Dame du Laus, La Thune, Marseille, 2002

Gélis, Jacques, Les enfants des limbes. Mort-nés et parents dans l’Europe chrétienne, Audibert, Paris, 2006

Hamon, André Jean Marie, Notre-Dame De France Ou Histoire Du Culte De La Sainte Vierge En France, Henri Plon Iimprimeur-éditeur, Paris, 1861


Domenica, 15 Novembre 2015 15:21

Mai Vivi Mai Morti

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Dall'autore di "Il Graal e La Dea"

e "Deen Thaang - il viaggiatore"

Dal fondatore del celebratissimo blog Viaggiatori Ignoranti

 

 

C'era un tempo in cui i bambini nati-morti tornavano alla vita.

Degni al più di qualche sorriso, venivano portati là dove l'acqua guarisce,

nella speranza di un respiro, di un solo respiro...

...un'esile piuma...

 

 

 

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C’era un tempo in cui i bambini nati-morti «tornavano alla vita», mostrando segni inequivocabili e prodigiosi. Superstizione? Eresia? Allucinazioni? Il miracoloso fenomeno aveva un nome cristiano, répit, (ripetere) ma affondava le sue radici nel più remoto e lontano passato.

Mai Vivi Mai Morti è l’esito dell’appassionante indagine umana e storica intrapresa dai due autori, per ricostruire le lontane origini e i risvolti sociali, culturali e personali di questa forma rituale, tra le più diffuse e longeve della cristianità, che si è esaurita solo nel XIX secolo.

«... la vita è il vero prodigio, immensa ed effimera, per breve che sia».


 

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