Domenica, 05 Luglio 2015 14:42

Mai nati, mai morti. Alle origini del répit

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È difficile, se non impossibile, sostenere che quella forma rituale nota come “répit”, “doppia morte”, “rito della piuma” o “riti delle ombre”, pietosamente amministrata in favore dei fanciulli morti-nati, nel periodo tra il X e XVIII secolo, possa essere esplosa all'improvviso nella storia.

Comunemente si attribuisce l'insorgere della pratica all'estendersi dell'ideologia nichilista sul limbus puerorum e sull'infausto destino dei bambini morti alla nascita, prima di aver potuto ricevere il battesimo. In quei secoli, mentre la disputa teologica chiudeva le porte ad ogni possibilità di redenzione per gli sfortunati bimbi, la pietà popolare veniva consolata dall'intercessione di qualche “santo”, quasi sempre della “Madre delle madri”, che “sospendeva” lo stato mortale del fanciullo deceduto. La momentanea “tregua” dall'abbraccio della morte, quando si verificava, corrispondeva ad uno o più segni di vita, rossori, livori, movimenti, fuoriuscite di liquidi ma soprattutto al rendere del primo e ultimo respiro. Così il fanciullo finalmente giungeva in questo mondo, per poi abbandonarlo immediatamente.

Nelle cronache di questi prodigi, il Battesimo, sempre presentato come il fine ultimo di tutta la pratica, viene invero descritto più come ovvietà, omettendo quasi tutti i dettagli. Veniva per altro impartito nella particolare forma dell'ondoiement ("se sei vivo, io ti battezzo") sviluppata per i parti difficili, in cui la presenza della vita nel nascituro non era facilmente riconoscibile e si doveva procedere a farlo “cristiano” anche se si trovava ancora nel grembo della partoriente. Bastava che sporgesse un braccio, un piede, la sommità della testa...

Le esplosioni di gioia, l'elevarsi dei canti di grazia, corrispondono invece sempre al momento in cui i segni si manifestano. Il prodigio era la sua venuta alla vita, anche se solo per un istante e il rito era un chiamare e celebrare, in quella, tutta la vita infinita. Era la vittoria su una condizione anomala, non sulla morte che, infatti, veniva soltanto “sospesa” ed era accettata come parte dell'esistenza.

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I lunghi ed estenuanti viaggi verso i santuari in cui il prodigio tendeva a verificarsi, certamente consentivano ad entrambi i genitori l'elaborazione dell'infausto accadimento. Ma nei rari resoconti non compare tanto la sofferenza di una madre per la perdita –pur gravissima– di un figlio, quanto piuttosto la sua disperata determinazione ad evitargli, attraverso una breve sospensione, l'eterna afflizione di trovarsi tra “color che stan' sospesi”.

Viene il sospetto che l'atto battesimale sia stato soltanto il veicolo dell'esplosione del fenomeno in tempi medievali, attraverso la fusione di una forma rituale precedente con le rinnovate necessità cristiane. Altrettanto, nell'esteriorità del rito, fatto di semplici preghiere e di un'attenta osservazione dei segni della venuta al mondo, finì per resistere solo un'eco lontana di quel che l'atto doveva essere stato all'inizio. Perciò, dal momento in cui storicamente cominciamo a conoscerlo, esso non fu che un “vestito buono” da indossare per l'occasione, un gesto di pietà verso i genitori, di accondiscendenza verso la loro sventurata sorte.

Arretrando nel tempo, invece e tralasciando la necessità battesimale e teologica in sé, poche, ma sufficientemente chiare tracce, raccontano di una pratica ben diversa. Due secoli prima del comparire del “rito della doppia morte” nei santuari, lo storico gallese Giraldus Cambrensis, nella sua Topographia Hibernica (1188) descrive, in forma “poetica”, quello che è probabilmente l'antenato e l'originale da cui si sarebbe poi sviluppato il répit: “...anche i più giovani che sono stati uccisi da qualche ferita [malanno], questo [animale] è abile a farli rivivere e restituire alla vita, grazie ad una certo fiore rosso di [crocus] zafferano. Come dicono quelli che lo testimoniano, e che hanno messo a morte piccoli cuccioli per il bene di questo esperimento, [la donnola] applica il fiore, che porta in bocca, prima sulla ferita, poi alla bocca e al naso come per soffiarglielo dentro, attraverso le prime fra tutte le aperture del piccolo corpo. Così a lungo, con l'esalazione [spiraculo] di quel fiore tanto quanto quello della bocca, o forse grazie al tocco della pianta più potente di tutte, [la donnola] sollecita al respiro chi sembra esserne ormai privo, ma forse con qualche traccia di vita rimanente, anche se nascosto”.

La descrizione non sembra essere quella di un mito o di una leggenda, ma di una forma rituale precisa e strutturata, di cui sono state rinvenute tracce in testi anche più antichi. Tra quelle di tanti cantori d'amor cortese, la storia ha conservato le opere di una misteriosa cantrice, una donna, quasi coeva di Girardo del Galles. Solo il suo nome è noto, Maria e come lei stessa precisa nell'epilogo della sua opera, è francese: “Marie ai num, si sui de France”. Si pensa fosse la badessa del convento di Barking, sorella di Tommaso Becket, ma non ci sono certezze. Tra i suoi “lai” e precisamente in quello più lungo (1184 versi), l'ottosillabo Eliduc, si nasconde un riferimento assai prezioso e curioso al répit originale.

Protagonista è Guildeluëc, moglie legittima dell'eroe Eliduc, ammalatosi perché la sua amante/amata Guilliadun è caduta in uno stato di “sospensione” simile alla morte, dopo aver scoperto che egli era sposato. Il corpo catatonico giace in una cappella nascosta nella foresta più fitta. Quando Guildeluëc lo scopre, per amore del marito raggiunge il luogo e imitando due “donnole” cui l'aveva visto fare, riporta in vita Guilliadun, grazie all'uso di certe erbe che pone sulla bocca della “bella addormentata”.

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I temi sono di derivazione arcaica. Se ne trova descrizione già nel Beowulf (apparso nel X secolo, ma composto quasi certamente nel VIII sec.). Nell'Eliduc si arricchiscono di elementi. Qui, più ancora che nelle citazioni di Girardo del Galles, viene sottolineato lo stato indeterminato di “sospensione” tra la vita e la morte. Fondamentale poi è il luogo, un punto preciso in cui il “ritorno in vita” può avvenire, di cui si specifica, appunto, che è una cappella nel folto del bosco, molto simile ai futuri santuari del répit.

Non è difficile poi riconoscere, nelle “erbe” e soprattutto nel fiore misterioso portato alla bocca, la piuma apposta alle labbra dei fanciulli in attesa di “tornare” in vita. Secondo alcuni la descrizione del fiore data da Girardo del Galles potrebbe riferirsi, simbolicamente, alla velenosità del bulbo del “crocus” alpino, meglio noto come “bucaneve” che, primo a fiorire quando giunge la primavera, può ben dirsi “fiore del risveglio”. Più probabilmente “fiore” si riferisce all'essenza stessa della vita, l'acqua, sangue della terra, che vivifica ogni cosa e quindi ad un'acqua particolare e prodigiosa in grado di portare la vita.

Ma qui, ancora, del “paramento” cristiano non c'é traccia. Non sono la preghiera e i suoi officianti a produrre, insieme allo strumento fiore/piuma/erba il prodigio, bensì un “animale” sapiente. È quel “totem”, grazie alla sua conoscenza delle piante “imparata dalla natura”, come sosteneva Alexander Neckham (De naturis rerum, 1190 circa). Secondo Hildegarda di Bingen sono addirittura “la sua urina e il suo respiro” a far diventare quelle erbe così potenti da ristabilire la vita.

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In quel “totem” animale sta un altro legame forte e chiaro con il répit. Nell'antichità si credeva che la donnola concepisse attraverso le orecchie e partorisse dalla bocca. Quale miglior modo per ristabilire la vita, in un bambino che ne era stato privato mentre nasceva, se non quello di infondergliela da bocca a bocca o per meglio dire da utero a bocca, così come nell'Antico Egitto la vita eterna del Faraone passava proprio dalla “apertura” della sua bocca?

Rimane solo una domanda: chi o che cosa era quella “bestia”? Nonostante i tentativi di spiegare i riferimenti insistenti e “pericolosi” alla donnola, con l'aver preso l'animale al posto del suo simile, l'ermellino candido, segno di purezza regale, la cui pelle ornava i mantelli dei potenti, è più probabile che non ci sia alcun errore. La donnola è infatti una delle metamorfosi di quelle “vergini guerriere”, grandi conoscitrici delle erbe medicinali e dei segreti di natura, che in tempi lontani abbondavano nei villaggi rurali e si prestavano anche come guaritrici e come levatrici.

Queste “sacerdotesse” o shamane, o strìe, come la donnola “concepivano” con l'orecchio, poiché sapevano ascoltare la natura, Madre delle Madri e Madre della vita stessa, traendone idee, principi. Di conseguenza “partorivano” con la bocca, poiché ciò che si erano “guadagnate” con fatica e sudore, era degno della massima autorità ed era la vita stessa che fluiva attraverso le loro parole. Nel medioevo erano con buona probabilità le ultime depositarie di un sapere antico, che aveva in pietre e radure i suoi centri sacri. Questa loro sapienza era un potere grande e rispettato timorosamente, un potere che la Chiesa, frustrata e pervasa dalla misoginia, avrebbe presto cominciato a temere e combattere.

Ed è proprio allora, quando la lotta alle eresie diventa persecuzione, violenza e sfogo sulle donne, che quell'antico, silenzioso culto di vita misteriosamente cambia abito, trasformandosi nella sua caricatura cristianizzata con il nome di répit.

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Mentre gli inquisitori affilano le armi contro le “donnole”, le cappelle silvestri, le benedette radure e le rocce che prendono e tolgono la vita (ad esempio nelle saghe irlandesi la donnola, la guerriera Ness, ritarda il suo parto indesiderato sedendosi su una pietra) vengono frettolosamente abbandonate. Il rito si sposta nei santuari più antichi e ad esse più simili. Il “fiore della vita”, il “germoglio di fuoco” dell'esistenza, l'acqua prodigiosa che si sveglia e divampando si esprime, pur sempre presente accanto ai nuovi santuari, diventa un'esile piuma senza “forza”, abbandonata all'aria. Le parole di potere pronunciate dalle guaritrici lasciano il posto alle preghiere canoniche.

Il rito, così camuffato, non ha però ancora un scopo cristianamente accettabile. Glielo fornirà quasi subito e forse con il beneplacito di qualche prete impavido, il battesimo “sub condicione”, quello che, per ovvie e pratiche ragioni, erano quasi sempre le levatrici ad impartire.

Proprio dai nuovi luoghi in cui l'antico rito prende a svolgersi sotto mentite spoglie, riemergono altre mute testimonianze delle sue lontane origini. Riaffiorano dalle nebbie del tempo soprattutto nelle vicende e nelle vestigia dei grandi santuari del répit, che non erano solo luoghi prodigiosi, ma anche grandi cimiteri ove i fanciulli, che avessero emesso o meno quell'ultimo respiro, venivano messi a riposare in eterno: Aviòt, in Belgio, il più prolifico in assoluto; Oberburen in Svizzera (XIV-XV sec.), dove sono stati rinvenuti, sotto il pavimento della navata, i corpi di almeno 550 infanti.

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Il più straordinario è però Blandy Les Tours, cappella “senza nome” (poi dedicata a San Maurizio) con cimitero annesso. Settanta e più corpi sono stati trovati nelle adiacenze del piccolo edificio sacro. Risalgono al X-XII secolo e per caratteristiche e posizionamento (sotto-gronda, presso il fonte battesimale e lungo la navata) sono unanimemente riconducibili al fenomeno del répit. Potrebbero addirittura esserne l'antecedente. Incredibilmente, però, non appartengono solo a bambini di circa otto/nove mesi, bensì in buona parte anche a bambini di 30 mesi o addirittura a feti di poche settimane.

Nuovi, inquietanti scorci sul nostro passato si spalancano attraverso le orbite vuote di quei corpicini, sepolti mille anni fa in un cimitero a loro riservato, proprio come si faceva presso certe spiagge tre millenni prima, ai tempi dei Fenici e dei Cartaginesi, ma anche delle leggende bibliche. Di questi “tofet” (così li chiamarono gli archeologi) ne sono stati trovati in Italia meridionale e centrale, in Sardegna, nella zona di Cartagine e nell'Africa punica. Quei semplici recinti, stranamente simili ai camposanti attuali, erano “santuari” all'aperto in cui, come molto, molto più tardi a Blandy Les Tours, venivano deposti feti e fanciulli fino a tre anni di età circa, in semplici urne sormontate da cippi o piccoli pilastri. I più antichi hanno la forma di un trono... Gli archeologi, scoprendoli, inizialmente pensarono che ospitassero le vittime sacrificali di cui parla il Deuteronomio, i bambini “fatti passare per il fuoco di Baal” nei pressi di Gerusalemme. Ma non c'é traccia di violenza sui loro resti, anzi, non si può che constatarne la cura e la tenerezza con cui furono “messi a riposare in eterno”.

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Nel 1931 viene ritrovato, presso l'antica Agorà di Atene, un pozzo. Sul fondo ci sono i resti di 450 bambini, morti alla nascita o sopravvissuti per qualche settimana o mese. Di nuovo, ci si accorse che non era stato un atto violento, ma un gesto di pietà verso quegli infelici che, ancora, non erano bambini. Insieme a loro infatti furono ritrovate le ossa di ben 150 cani, psicopompi totemici, accompagnatori verso l'aldilà, portatori di una qualche preghiera per quegli sventurati.

Non può essere casuale. Peculiarità pressoché identiche si ripresentano distanti nello spazio e nel tempo. Soprattutto si ritrovano quei “confini”, feto di poche settimane, morto durante il parto e bambino di tre anni di età, all'interno dei quali si nasconde la realtà di un flusso biologico che chiamiamo “nascita” o, più correttamente “venire al mondo”, a questo mondo.

Già Plinio, Ippocrate e Aristotele si interrogavano sul momento esatto in cui l'anima si incarna nel feto dopo il concepimento. Quaranta giorni per i maschi e novanta per le femmine furono i due termini in qualche modo accettati. Se dunque la gestazione veniva interrotta prima di tale termine, l'anima continuava a vagare in attesa che un concepimento la facesse “ritornare”. Seppellirlo accuratamente era un modo per chiedere alla Madre delle Madri che quell'anima potesse presto essere accolta da un nuovo corpo.

Ma gli antichi sapevano che l'incarnazione non è un momento fermo nel tempo, una scansione definita. È un fluire delicato e paziente che deve essere rispettato, assecondato e protetto in ogni istante. Il parto era ed è considerato il limite oltre il quale l'anima del bimbo non può più “tornare indietro”. Se in quel momento il corpo “non funziona”, rimane “incastrata” tra i mondi, sospesa.

Il limite superiore “naturale” dell'intero processo di incarnazione poi, così sembra, è anch'esso da sempre conosciuto: 3 anni. Solo in quel momento l'anima, incarnata ha finalmente preso contatto con ogni parte del corpo, legandosi indissolubilmente ad esso, passa “per il fuoco del dio Baal” e comincia a manifestarsi come vita indipendente.

Perfino in ambito cristiano, quando si cominciò a discutere dell'età adatta per il battesimo, tale “confine” venne mantenuto. Se già Tertulliano si opponeva al battesimo degli infanti nel III sec. d.C., lo specifica poi più attentamente ad esempio Gregorio Nazianzieno, detto il teologo, (380 d.C.) nella sua orazione nr. 40, accampando la spiegazione che solo a partire dai tre anni di età il bambino può in qualche modo capire e rispondere alle parole del vescovo. Unica eccezione contemplata era per i bambini morenti al di sotto di tale limite (Iscrizione di Aproniano). Ciò si riferisce al fatto che il battesimo, all'epoca, era ancora una “facoltà” individuale. Non c'era in verità nessun obbligo al battesimo. Chi ne era “degno” doveva personalmente recarsi presso il luogo adatto e chiedere espressamente al vescovo di essere battezzato. Solo allora il vescovo si muoveva dalla cattedra e se lo riteneva poteva amministrarlo. Sarebbe rimasto così fino all'epoca carolingia e a Carlo Magno, che l'avrebbe poi trasformato in una pratica coercitiva e obbligatoria.

La memoria di questa “manifestazione al mondo” è ancora custodita in qualche modo da ciò che resta degli ancestrali “riti di passaggio”. Si usa indicarli come una “necessità”, atti e gesti senza i quali il “cambiamento di stato” non può avvenire. Sarebbe invece forse più rispettoso riconoscerli come mezzi per facilitarlo rimuovendo ogni ostacolo al suo compimento, come possibilità e aiuto durante il passaggio, che in sé è un fatto naturale e imprescindibile.

Il “passare per il fuoco” dei Fenici non era che questo, un aiuto alla trasformazione, non certo un rito cruento, un'offerta macabra e tremenda a un dio malvagio. Ciò che accade a quell'età sancisce la nostra appartenenza a questa esistenza. Possiamo “fare parte” di questo mondo solo se abbandoniamo completamente e per sempre l'altro, quello da cui veniamo. Così, solo se nulla ci trattiene, se ogni legame è reciso, possiamo immergerci completamente nella nostra esistenza al punto di non poter più tornare indietro.

L'originale greco usato anche per indicare i riti di “manifestazione al mondo” e da cui fu poi tratto il termine “battesimo”, non indicava necessariamente un'abluzione, un'immersione nell'acqua bensì, letteralmente, l'annegarsi volontariamente e da sé in qualcosa. E in che cos'altro se non in questo mondo e in questa realtà con tutta la vita che lo permea?

Alcuni studiosi ritengono che in tal senso, inizialmente, il “baptizein” greco si riferisse non tanto alla forma ritualizzata dal cristianesimo, né alle “abluzioni” propriamente dette, bensì a tutte quelle forme simili di “purificazione” nel senso di “distacco totale da qualcosa”, che coinvolgevano i misteri eleusini e bacchici, le tradizioni mitraiche, ebraiche, quelle egizie e molte altre.

Tali possibilità di “recidere meglio” i legami erano probabilmente estese non solo ai vivi ma anche ai morti e ai “fantasmi”. Allusioni si ritrovano nelle Lettere di Pietro: “Infatti, per questo scopo la buona notizia fu dichiarata anche ai morti” (1 Pietro 4: 6).

indicazioni più chiare si ritrovano poi nelle parole di San Paolo che si riferisce ad una strana pratica in uso fra i Corinzi: “Altrimenti che significherebbe la pratica di coloro che si fanno battezzare per i morti? Se i morti assolutamente non risorgono, perché si fanno battezzare per loro?” (Prima Lettera ai Corinzi).

È probabilmente la stessa forma rituale in atto anche presso i marcionisti, i montanisti e i seguaci di Cerinto, una sorta di “battesimo dei morti” con lo scopo di aiutare il distacco dell'anima dal corpo. Il riferimento paolino, senza dubbio preciso e non simbolico è più precisamente ad una precisa tipologia di morti, quelli per i quali non era possibile disporre del corpo. In questi casi è presumibile che qualcuno si presentasse per “fare le veci” del morto.

Con i grandi concili e in particolare quello di Cartagine (397 d.C.) che proibì definitivamente Battesimo ed Eucarestia ai morti (cfr. cap. 6 degli Atti del Concilio) il rito, cristianizzandosi, avrebbe preso una direzione diversa rivolgendosi ad un nuovo tipo di speranza, necessari alla teologia del peccato originale.

Secondo alcuni, ciò che prima aveva spezzato i legami che impedivano la naturalità della vita, finì per diventare la sua nemesi. Il ciclo naturale della vita, con le sue “sofferenze” e le sue “fatiche” era diventato improvvisamente la causa dell'esistenza del peccato originale. L'unica salvezza era dunque spezzare i legami con il ciclo naturale e diventare cristiani...

Invero, nel “battesimo dei morti” e “dai morti” si nascondeva l'ultima e perduta occasione di mantenere intatto quel gesto di misericordia. Cosa accade infatti se, entrando in questo mondo, qualcosa nel processo si interrompe? E cosa accade se qualcosa non si “spezza” mentre da questo mondo ce ne andiamo? Si rimane legati, sospesi, interrotti, fluttuanti tra due stati ma senza la possibilità di sceglierne uno.

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Così, non rimane che cercare di attirare l'attenzione... come faceva il ka del defunto nell'Egitto faraonico se veniva “disturbato”, i Lari e i Penati nell'antica Roma o gli “antenati” presso le popolazioni tribali di mezzo mondo, se non vengono “soddisfatti”. Occorreva dunque rimettere le cose a posto, come pare avesse fatto lo stesso Gesù: “In questo [stato] andò anche a predicare agli spiriti in prigione, che una volta erano stati disubbidienti” (1 Pietro 3: 19,20).

A maggior ragione ciò era assolutamente importante per i fanciulli mai nati o “sospesi” prima dei tre anni che, non avendo neppur sperimentato la vita, non potevano morire. La loro triste condizione, se non vi si poneva rimedio, non era il famigerato limbus puerorum dietro il quale l'infamia sarebbe stata nascosta. Come le tradizioni ben ricordano, avrebbero continuato a vagare senza sosta, quelle povere anime, tra i boschi e accanto alle rocce come ben ricordano le leggende di folletti, nani, twergi e creature dispettose, sperando che, prima o poi, qualcuno si accorgesse di loro e li liberasse finalmente dalla loro condizione.

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Era necessario “rimettere al loro posto” ciò che non si era comportato secondo natura. Ma neppure questo corrispondeva alla nuova teologia che altrettanto degli “esorcismi” e dei demoni avrebbe fatto cosa ben diversa.

Quanto ai fanciulli infelici, bisognerebbe ricordarsi che il Gesù delle scritture accordò il ritorno alla vita forse solo a bambini. Lazzaro infatti secondo una teoria potrebbe essere niente più che l'errata trascrizione di Eleazar, nome attribuito alla figlia di Giairo, protagonista del più interessante dei due casi di ritorno alla vita di giovani di cui i Vangeli conservano memoria.

In questa narrazione piena di sorprese, quando Gesù entra nella casa dove la fanciulla viene data per morta, la sua esternazione, con evidente riferimento ad uno stato di “sospensione” simile al répit è “Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme”. Dopodiché le ingiunge: “Talithà cum”, letteralmente: “[tu che sei] giovane, alzati”. Non è sfuggito ai commentatori un particolare molto strano in tutta la vicenda. Mentre Gesù si reca nella casa della fanciulla, viene interrotto dal gesto di una donna che soffre di “flussi di sangue” e che guarisce toccandolo. Non può essere un caso che una donna, forse una madre, soffrisse di quel male, come ben tre dei quattro Vangeli puntualizzano, da 12 anni e che 12 anni sia esattamente l'età della figlia di Giairo. Non solo: la bambina è malata ma viva, quando Gesù viene chiamato; tuttavia, non appena l'emorroissa guarisce, la fanciulla viene dichiarata morta. L'emorroissa e la bambina potrebbero dunque essere madre e figlia?

Nella parte finale del racconto c'é ancora un ultimo dettaglio: “Allora […] prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entrò dove era la bambina”. Millenni dopo, nei silenziosi santuari del répit, madri e padri, allo stesso modo, si sarebbero ritrovati, in attesa del sospirato prodigio...

 

 

 


 

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Francesco Teruggi

Scrittore e giornalista pubblicista. Direttore delle collane "Malachite" e "Topazio" presso Giuliano Ladolfi Editore. Autore del saggio divulgativo "Il Graal e La Dea" (2012), del travel book "Deen Thaang - Il viaggiatore" (2014), co-autore del saggio "Mai Vivi Mai Morti" (2015), autore del saggio "La Testa e la Spada. Studi sull'Ordine dei Cavalieri di San Giovanni" (2017), co-autore del saggio storico "Il Filo del Cielo" (2019) pubblicato in edizione italiana e in edizione francese. Presidente dell'Associazione Culturale TRIASUNT. Responsabile Culturale S.O.G.IT. Verbania (Opera di Soccorso dell'Ordine di San Giovanni in Italia).

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