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Nel celeberrimo Cantico delle Creature, il grande monaco santo Francesco d'Assisi (1181-1226) scriveva: “Laudato sie, mi' Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole […] Laudato si', mi' Signore, per sora luna e le stelle, in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle”.

Il testo poetico, di impareggiabile bellezza, è certamente anche un piccolo trattato “cosmologico” in cui, accanto ai quattro elementi (aria, acqua, terra, fuoco) declinati secondo animali e cose che a ciascuno appartengono, compaiono molti altri richiami, tra cui quello potente al cielo, nella tripartizione sole-luna-stelle.

Se il sole è quello che da la luce al giorno, la luna e le stelle sono “chiare”, non nel senso di “evidenti” ma di “pure” (contrario di “oscure” e “impure”) e “preziose”, irrinunciabili, necessarie. Sono insomma un vero “dono” divino. È la stessa “chiarezza” delle stelle alla quale pare proprio riferirsi anche il “Portale dello Zodiaco” della Sacra di San Michele, in cui compaiono gli unici elementi marmorei chiari dell'intero complesso abbaziale.

Molto meno velate sono invece le idee di un altro celebre monaco francescano, Ruggero Bacone (1214-1294), coevo del fondatore, che dedicò una parte della sua opera più celebre, l'Opus Major, all'esposizione delle sue teorie astrologiche a lungo studiate, vertenti sopratutto sull'influenza esercitata dai corpi celesti sulla mente e sullo spirito umani.

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La quiete e il raccoglimento dei conventi, separati dalla società ma in essa pienamente immersi, come su un invisibile confine tra spirito e materia, favorì certamente lo studio e la ricerca anche in ambiti poco ortodossi del sapere, affrontati con lucida coerenza e senza i veli prodotti da troppa teologia o troppa ansia politico-religiosa. Uno di questi fu l'astrologia.

Tanto le ore del giorno, quanto le stagioni, i periodi e le mansioni dei confratelli erano rigidamente scanditi dai ritmi naturali. La data mobile della Pasqua e degli altri eventi liturgici ad essa collegati dovevano essere ricalcolate ogni anno e le chiese dovevano sempre essere orientate correttamente su fenomeni astronomici e sui loro corrispondenti significati astrologici. Tutto ciò comportava certamente, anche a detta degli storici, lo studio del moto delle stelle. I complessi abbaziali erano perciò spesso dotati di vere e proprie piattaforme di osservazione, balconate o terrazze dalle quali compiere tutte le necessarie misurazioni. Una è ancora visibile presso l'abbazia cistercense francese di Thoronet, in Provenza. Svetta sul doppio chiostro (due chiostri sovrapposti) come se la scansione delle volte e degli archi dei corridoi coperti fossero i punti di mira di un gigantesco sistema di osservazione.

Nella loro disposizione e orientamento, nella scansione degli ambienti che si aprono su ciascuno (di solito a est la sala capitolare e gli ambienti di studio; a sud refettori e cucine; a ovest dormitori e foresterie; a nord confinante con la chiesa abbaziale gli spazi per la “lectio divina”), nelle iconografie dei capitelli e degli archi e nelle loro geometrie, si ritrovano le indicazioni delle stagioni, dei moti planetari e dello zodiaco.

Già nell'antico Egitto i templi erano sempre dotati di un lago sacro, in genere quadrato che serviva anche per le osservazioni stellari. Il più celebre, quello di Karnak, ancora conserva, al centro di uno dei lati, una grande statua dello scarabeo sacro Khepri. Non solo è una divinità, è anche un segno zodiacale (Cancro) e corrisponde, secondo il computo del grande anno precessionale, al “quarto mese della gestazione”, cioè al 4300 a.C., epoca della prima unificazione del Regno sotto Menes!

Le sue dimensioni sono tali da poterlo chiaramente vedere da ogni punto del lago sacro, nelle cui acque si specchiavano i gruppi stellari e i pianeti.

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Anche il tempio biblico di Salomone era dotato di un simile sistema di osservazione, molto probabilmente di origine egizia, installato proprio davanti all'ingresso. Veniva chiamato “mare di metallo fuso”, “mare di rame” o “mare di Brazen” ed era un gigantesco bacile metallico montato su 12 leoni a gruppi di tre, correttamente orientati (1Re:7 e 2Cronache:4). Si legge poi nel Libro dei Re che il bordo superiore era intervallato da 30 tori, chiara indicazione di un utilizzo astrologico.

Il chiostro monastico, con il pozzo d'acqua al centro nel quale si specchia la stella polare e i corridoi con le scansioni appropriate non è che il suo equivalente medievale, così come i monaci consacrati non furono che gli ultimi eredi di quei sacerdoti dei templi antichi che scrutavano gli astri.

Poiché le stelle e i pianeti erano spesso presenti, con le loro allegorie, nelle sacre scritture, l'analisi dei loro moti e dei cambiamenti che producono sull'essere umano non poteva che portare a riconoscervi la via divina da perseguire con ogni forza. Gli astri potevano fornire indicazioni non tanto sui tempi a venire, quanto su debolezze personali e mancanze caratteristiche che era necessario vincere per sperare in una maggior comunione con il divino.

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Molti erano i monasteri che, insieme ad opere religiose, della patristica e dei teologi e sapienti, ospitavano nelle loro biblioteche anche trattati di astronomia e astrologia, pazientemente studiati e ricopiati dai meticolosi ammanuensi. Il “portale dello zodiaco” della Sacra di San Michele (Valsusa), ad esempio, fu concepito da “mastro nicholao” (forse il nome collettivo e simbolico della confraternita comacina autrice di quest'opera) prendendo ispirazione, come si racconta, da certi preziosi testi custoditi proprio nell'abbazia. Su due dei quattro lati di ciascun montante il magister non riportò semplicemente una teoria di simboli prelevati dalla tradizione astrologica (i 12 segni) e altrettanti simboli chiaramente identificati come costellazioni (accanto ad ognuna è inciso il suo nome), ma codificò in modo preciso tutta la sapienza che dietro questi segni si nasconde. Questo era uno degli scopi fondamentali del nuovo stile architettonico, conosciuto come “romanico”, sviluppatosi in ambito monastico (il fondatore è tradizionalmente Guglielmo da Volpiano, abate benedettino di Digione): rendere disponibile a chiunque ne fosse meritevole l'accesso alla conoscenza delle leggi divine, inserendola negli elementi scultorei, nei capitelli, nelle forme e nelle proporzioni e più tardi, negli affreschi, soprattutto absidali (innumerevoli sono gli esempi di tetramorfi con evangelisti e teorie dei mesi raffigurate attraverso le mansioni quotidiane e poi sostituite da schiere di apostoli). Il gotico con le grandi cattedrali ne avrebbe proseguita l'opera.

Anche fra le stelle era dunque possibile riconoscere la presenza e gli effetti della Divina Provvidenza e il monachesimo ne aveva fatto tesoro fin dall'inizio. Già nel V secolo tra i più grandi studiosi di astrologia figurava sant'Eucherio, vescovo di Lione e annoverato tra i Padri della Chiesa occidentale.

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La sua formazione trentennale, dopo l'abbandono dei titoli e delle prerogative nobiliari della casata da cui proveniva, si era svolta nell'antico monastero isolano di Lerìns, fondato da un altro grande santo della Chiesa, Onorato. Fu proprio durante questo lungo periodo di raccoglimento che, studiando e scrivendo, Eucherio creò le sue maggiori opere, tra cui il Liber Formularum Spiritualis Intelligentiae, in cui affronta, fin dal liber unus, il tema dell'astrologia, concepito come una tra le “spiegazione di vari termini o modi di parlare della Scrittura”, spiegando il senso allegorico dei riferimenti a pianeti e costellazioni in relazione soprattutto al Libro dell'Apocalisse.

Così fa corrispondere l'ammasso delle Iadi alle anime dei santi predicatori, le stelle di Orione a quele dei martiri e le sette stelle dell'Orsa maggiore alle sette chiese e ai sette candelabri che simboleggiano la Chiesa Universale apocalittica.

In un testo successivo, i Commentarii in Genesim, per altro di dubbia attribuzione, specifica addirittura che le stelle del cielo sono gli Evangelisti e i dottori delle Sacre Scritture, che diffondono la luce divina illuminando la conoscenza umana.

Le idee di Eucherio non erano nuove, anzi, seguivano l'impostazione agostianiana. Il santo d'Ippona si era appassionatamente dedicato all'argomento, imponendosi subito come un suo detrattore. Ma a ben leggere, le sue riserve erano rivolte per lo più agli usi peccaminosi fatti della conoscenza delle stelle e dei pianeti, in particolare come mezzi per svelare e anticipare il futuro. Concepiva infatti gli astri come creazioni divine, nei quali era perciò possibile scorgere la benevolenza e la saggezza di Dio rivolta agli uomini.

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Diversi secoli più tardi, un altro celebre monaco, il domenicano Alberto Magno, anch'egli vescovo e santo, cercando di riunire le posizioni dei suoi predecessori con l'impianto neoplatonico per cui tutto è emanazione di una “causa prima”, era un convinto assertore della dipendenza del mondo dai moti dei pianeti: "Nello studiare la natura non abbiamo a indagare come Dio Creatore può usare le sue creature per compiere miracoli e così manifestare la sua potenza: abbiamo piuttosto a indagare come la Natura con le sue cause immanenti possa esistere".

Il suo pupillo, Tommaso d'Aquino ne avrebbe riprese le idee: “I corpi celesti, come esercitano azioni l'uno sull'altro, così esercitano azioni anche sulla terra, e con l'azione esercitano anche un influsso. Ma poiché l'influsso è sulla materia, potrà essere esercitato sul senso, non sull'intelletto e sulla volontà, che sono essenze spirituali […]” (Summa Theologica, questione 115).

Intanto, nelle regioni europee più lontane, in cui meno l'ingerenza papale si faceva sentire, l'astrologia prosperava nei monasteri, dove veniva sempre più ampiamente studiata. Nel X secolo diventò celebre per il suo interesse verso le stelle, anche a scopo terapeutico, un monaco della comunità abbaziale di Mamelsbury, nel Wiltshire, “la più antica città inglese”: Oliviero (Eilmer), noto anche per essere stato uno dei primi a tentare il volo umano con ali posticce, cinque secoli prima di Leonardo.

Nello stesso periodo, poco più a nord, nel Wolchestershire, godeva di simile fama il priore di Malvern, Walcherio, di origini lotaringe, autore di precise osservazioni sulle eclissi solari e lunari occorse tra il 1091 e il 1092.

Questa è l'epoca della grande riscoperta dell'astrologia, durante la quale essa sembra riemergere dal silenzio del monasteri per diffondersi ovunque, sostenuta da molti pensatori anche laici del tempo e dai nuovi testi provenienti dal medioriente islamico conquistato dai crociati, soprattutto quelli di Avicenna e di Averroè, gli unici musulmani che, a detta di Dante, “possono seder tra filosofica famiglia”.

Protagonista di questi secoli è il beato Jan van Ruusbroec, “doctor admirabilis”, monaco fiammingo fondatore del monastero e della congregazione di Valverde (Groenendael), di ispirazione agostiniana. Grande cultore dell'astrologia, scrive diverse opere mistiche tra cui “I sette gradi dell'amore spirituale” e “L'ornamento delle nozze spirituali” in cui manifesta tutto il suo interesse per le stelle. Create da Dio per l'uomo, esse sono, secondo il beato, capaci di influire sul trionfo del bene o del male. Perciò anche l'anima umana, con i suoi vizi e le sue virtù, ne subisce l'intervento. Pianeti e astri indicano dunque la via della purificazione ascetica in quanto portano i vizi di cui l'uomo deve spogliarsi per rivestirsi della luce divina: "...il nostro padre celeste crea nel più intimo di noi stessi il firmamento interiore, purché noi siamo disposti a seguire la propensione naturale della nostra anima, ovvero la sinderesi inculcata ed impressa in noi da Dio, sempre, per sua natura, desiderosa del bene".

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Nello stesso periodo è tutto un fiorire di opere di astrologia. L'Università del Galles, ad esempio, possiede nella sua collezione almeno una ventina di manoscritti redatti nei monasteri inglesi tra il XIV e il XV secolo, che trattano tutti gli aspetti della scienza medievale tra cui, in prima linea, proprio l'astrologia.

Tra tutti, il più famoso monaco astrologo fu però certamente Giovanni Tritemio (Johannes Tritemius, il cui vero nome era Johannes Heidenberg), abate benedettino di Sponheim e nell'ultima parte della sua vita, di Würzburg. Prolifico autore e studioso, nel fortunato periodo preconciliare in cui l'astrologia era arrivata ad interessare perfino il cardinale-teologo Pierre d'Ally (1350-1420) e addirittura papa Sisto IV (1414-1484) e papa Leone X (1475-1521), aveva avuto fra i suoi discepoli Lucio Cornelio Agrippa e Teofrasto Paracelso. Le sue opere erano intrise di ermetismo, riferimenti cabalistici, neoplatonismo e astrologia. A quest'ultima dedicò in particolare un testo, De septem secundeis id est intelligentiis sive spiritibus orbes post deum moventibus, una precisa trattazione della materia e dei suoi collegamenti con le altre discipline.

Ma era l'ultimo monaco che avrebbe potuto liberamente diffondere la conoscenza degli astri. Poco prima della sua morte già incombeva l'ombra minacciosa del concilio tridentino che presto si sarebbe tenuto e che avrebbe di nuovo gettato su di essa un velo di oscurità, lo stesso che ancora oggi permane e viene continuamente alimentato, talvolta dagli stessi eredi di quei monaci che, per paura ed egoismo, offendono e avviliscono la meravigliosa sapienza e la profonda spiritualità dei loro predecessori.

 


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BIBLIOGRAFIA

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Thorndike, Lynn, History of magic and experimental science, Macmillan, New York, 1923

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Fin dal XVI secolo esisteva in Valstrona una nobile famiglia di conti, detti «Gozzano», la cui residenza dominava l'abitato di Luzzogno. La stirpe diede parroci al paese e vescovi alla cristianità. Nell'edificio, ancora esistente, al piano alto, sulla parete del loggiato nella quale si apre la porta di accesso alla camera da letto patronale, è ancora presente un complesso ed enigmatico dipinto allegorico.

Poche o pressoché nulle sono le informazioni su questo «gioiello», che è tale non tanto per stile e qualità artistica, quanto per la sua profondità sapienziale e la sua vastità simbolica. Se le poche ricerche sull'argomento ne hanno individuato i tratti essenziali, bisogna spingersi in direzioni nuove per riuscire ad afferrarne i preziosi segreti.

CasaGozzanoL 5Luzzogno: Santuario della Colletta

Il dipinto si presenta come una sorta di tabella, di tavola ben spaziata in quattro quadri, separati a coppie in senso verticale da una colonna, avvolta in spire da un drappo e terminante in un «sole» con la Madonna e il Bambino Gesù al centro.

I due riquadri bassi presentano ciascuno una teoria di personaggi femminili, allegorie dei vizi e delle virtù. I due alti presentano invece schiere angeliche con tratti maschili. Una linea di cartigli o forse di tende separa le immagini angeliche da quelle femminili, come a oscurare le une dalla vista degli altri.

Le due teorie maschili e femminili sono senz'altro un riferimento alla terra (femminile e umano) e al regno celeste (maschile e angelico). In senso orizzontale, le figure femminili delle due teorie sono le stesse, ma ritratte ciascuna in comportamenti antitetici: lo specchio che induce prudenza, il guardare bene dentro sé stessi è anche lo specchio della vanità che genera superbia. Così, il bene e il male terreni si fronteggiano, ma esistono insieme, sono aspetti di una stessa cosa.

Ma, appunto, bene e male sono soltanto terreni; nel regno celeste non c'é spazio alcuno per il male. Infatti, sono angeli anche quelli che si avvicendano sopra ai vizi e sono precisamente quei 7 vittoriosi, di cui parlano i profeti biblici e l'Apocalisse, ciascuno sopra ogni afflizione. Gli angeli più esterni portano emblemi eloquenti che si rifanno ai Vangeli: il velo della Veronica, che fu «sollecita» nel soccorre Gesù, la croce del Cireneo che fu suo «alleato» nella salita al Golgota, ecc.

Se poi facciamo caso alla scelta di porre i vizi alla sinistra della Madonna e le virtù a destra, otteniamo una precisa direzione di lettura, aiutata anche dagli sguardi reciproci di tutti i personaggi: dai 7 angeli guardiani con gli sguardi verso il basso, l'occhio viene condotto ai vizi, da questi alle virtù e di nuovo in alto verso i 7 «angelici» Doni dello Spirito. Lo sguardo e il corpo del Bambino Gesù sono rivolti a chi «lo segue», quelli della Madre a chi è lontano e ancora deve percorrere il «sentiero irto di ostacoli». Si compie con gli occhi una spirale, discendente e poi ascendente, quella della fallacità umana che, con l'aiuto del cielo può diventare virtù e attraverso questa ci può portare al cielo e ai suoi doni spirituali.

L'albero al centro, rifà lo tesso movimento, di discesa attraverso le spire del drappo, di risalita attraverso l'albero vero e proprio, avvolto all'interno... il sole che alimenta le foglie e il nutrimento delle radici che, grazie alla luce si trasforma e risale fino alle fronde, facendo germogliare nuova vita.

Potremmo definire quindi questa rappresentazione un «viaggio dell'anima» per immagini o una «mappa dello spirito», che trae certamente ispirazione dal genere letterario-artistico-teologico di cui la Divina Commedia dantesca è senz'altro il più elaborato rappresentante occidentale.

CasaGozzanoL 2Luzzogno

Il destino dell'uomo e della sua anima dopo la morte è uno dei quesiti esistenziali fondamentali e ha prodotto in tante culture ed epoche opere che cercano di spiegarlo con mirabile bellezza, dall'Apocalisse di San Paolo ai testi sufi (ad esempio il «Libro della Luce» di Bistami o il «Cammino degli uomini verso il loro ritorno» di Sanai, il «Racconto di Hayy Ibn Yaqzan» di Avicenna, il «Libro del viaggio notturno verso la maestà del Generoso» e «L’Alchimia della felicità» entrambi di Ibn Arabi), dalla «Navigazione di San Brandano» (VII sec.) ai poemetti medievali cui si ispirò con buona probabilità anche Dante («La Gerusalemme Celeste e Babilonia città infernale» di Giacomino da Verona o il «Libro delle tre Scritture» di Bonvesin della Riva), alle «visioni» (quella di Alberico di Settefrati e quella di Tugdalo sono forse le più celebri), fino al trecentesco «Libro dei Vizi e delle Virtù» di Bono Giamboni.

Se quest'ultimo può essere stato di ispirazione per parte del dipinto in casa Gozzano, ce n'é però uno soltanto dal quale l'ignoto pittore può aver tratto l'idea generale della composizione. Ben noto già al tempo di Dante, è il testo islamico, di autore anonimo, noto come «Libro della scala di Mometto», che narra del «miraj», il viaggio nell'aldilà compiuto dal profeta, solo accennato nel Corano.

Nel capitolo VI, Maometto, salendo la scala verso l'altro mondo, guarda in alto e vede ciò che lo attende: «...guardando in alto vidi un grande angelo assiso in trono, il quale reggeva tra le mani una tavola che si stendeva da oriente a occidente. Alla destra di quell'angelo ce n'erano molti altri, coi volti rilucenti come luna piena, per lo splendore della grazia di Dio. E tutti quegli angeli indossavano vesti verdi, più splendenti dello smeraldo, e avevano profumi più soavi del muschio e dell'ambra. E a sinistra c'era una schiera di angeli più neri dell'inchiostro, con gli occhi rosso fuoco, e puzzavano e avevano voci più forti del tuono e il loro aspetto era immensamente spaventoso».

Così si presenta il dipinto di casa Gozzano a Luzzogno: La Madonna che regge la «tavola» della nuova legge, il Bambino Gesù (che ne è il portatore), angeli lucenti alla sua destra e angeli «tenebrosi» alla sinistra.

La composizione stessa è una tavola, coperta di numerose epigrafi che, fingendo di spiegare il contenuto delle immagini, traggono in inganno l'occhio inesperto e spalancano invece nuovi livelli di lettura a chi ne è meritevole.

Si legge, in basso sotto i vizi un duro monito: «Ai cattivi non giova avere buone conoscenze, se non onorano il Dio vero e santo». Poiché il bene e il male sono governati dalle stesse leggi (le buone conoscenze), non è cosa buona che esse cadano nelle mani di chi vuol compiere il male. Questo non soltanto perché è un'offesa a Dio, ma anche perché «non giova» a loro stessi. Il male che potrebbero fare, su di loro si ritorcerebbe.

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Queste parole dunque, alludendo a certe «conoscenze» ne indicano la presenza nascosta nel dipinto stesso. L'epigrafe gemella, sul lato opposto, prosegue, seguendo sempre il percorso a spirale, a svelare il mistero: «Se c'é qualcosa che conviene ai bambini, giovani e vecchi, cogli con chiarezza tutta la forza delle virtù». Quelle «buone conoscenze» sono, con una perifrasi sibillina, «la forza delle virtù» ed esse sono invece buona cosa (sono convenienti) per i «bambini», per i puri di cuore, siano essi giovani o anziani. La pratica delle virtù è ciò che li porterà al cielo.

Solo a questo punto l'albero, la palma, al centro ci rivela il successivo livello di comprensione. Volano via, uno dopo l'altro, i veli che coprono la verità. Il primo era già alzato, il secondo si è scostato, ora si solleva il terzo, donando nuovi significati anche al primo e al secondo.

Indubbiamente potremmo identificare la pianta nel dipinto come quella che stava al centro del Paradiso Terrestre. Ma nella Genesi, come più volte è stato fatto notare, gli alberi sono ben due, quello della «Vita» e quello della «Conoscenza del bene e del male». Uno sta, appunto, al centro, l'altre accanto ai cancelli. Da quello della Vita, su cui sta il serpente, Eva coglie il frutto. Soltanto quando lei e Adamo verranno cacciati, invece, s'accorgeranno di quello della Conoscenza e non ne potranno più avere beneficio alcuno!

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Luzzogno: affreschi del Santuario della Colletta

Nel dipinto l'Albero che vediamo e che adesso possiamo riconoscere è quello della Vita, il cui tronco è avvolto dal serpente, non il tentatore, ma la sua antitesi, il «serpente celeste», la parola saettante di Dio che scende verso la terra. Le brevi epigrafi che saltano sul tronco, di nuovo, cercano di trarre in inganno lo sprovveduto, ma regalano altre preziose verità ai più puri di cuore.

«Questa è la celeste pianticella», proclamano. È l'albero che ha in cielo le proprie radici e che «supera le piante sabee». Così, ritroviamo lungo il cammino Dante e la sua Commedia e precisamente il Canto XXXI dell'Inferno in cui è contenuta una sibillina frase attribuita al gigante biblico Nimrod: «Raph el mai amech zabi almi» (Contra chi [vieni] all’acqua del Gigante, al profondo del Zabio?).

«Zabio», sabeo, è l'epiteto con cui il sommo poeta definisce il leggendario primo re di Babilonia. Non è difficile scorgere per questo semplice motivo, nella «pianta sabea» spiraleggiante, simile all'albero del dipinto, la mitica Torre di Babele. Secondo il patriarca alessandrino Eutichio, infatti «...al dire d’alcuni, chi prima aveva istituito la religione degli Zabi, era stato nel numero di coloro che avevano edificato Babele». Ma qui non si indica la sola torre biblica, la perifrasi è infatti utilizzata al plurale. Potrebbe sottintendere che la «celeste pianticella», che di per sé è anche un «tempio mistico» è più alta, cioè elevata (in senso spirituale) di qualunque altro tempio.

In termini di «buona conoscenza», quella da cui è iniziato il percorso nel dipinto, l'epigrafe potrebbe dunque suggerire che la sapienza di cui si parla è la più elevata di tutte, anche di quella dei «Sapienti». A tal proposito, un controverso e oscuro testo arabo-spagnolo del XI secolo, il Ghàyat al-Hakìm (conosciuto anche come Picatrix Latino), contiene un'interessante chiave di lettura, poiché indica i sabei come «servi nabatei (copti) dei Caldei» e li indica come «sottomessi alla luna» e come fabbricatori di amuleti, esperti di magia e dediti al culto dei sette pianeti e dell'Orsa Maggiore. I sabei, a quanto pare erano «sapienti» pagani, come i re Magi. Ma neppure questo risolve il problema del termine «piante», plurale nell'epigrafe.

CasaGozzanoL 4Luzzogno: affreschi del Santuario della Colletta

C'é però anche la possibilità che l'idea di riferirsi a questo popolo leggendario sia di nuovo stata ispirata da testi islamici. Dei «sabei» parla infatti il Corano in ben tre sure, tra cui la II e la V, in cui sono annoverati al terzo posto tra le Grandi Religioni. Il primato ovviamente spetta all'Islam, ma la religione sabea risulta «migliore» di quella ebraica, ma non elevata quanto quella cristiana, sebbene sia ad essa la più prossima.

Sheba o Saba è il mitico regno della sposa di Salomone. Il suo popolo avrebbe dunque ben ragione di essere definito «sabeo». Nel periodo di maggior espansione il popolo Nabateo controllava pressoché tutta la penisola arabica compresi i territori delle tribù yemenite, discendenti della Regina di Saba. Secondo la tradizione africana, invece, la sovrana sarebbe di origini etiopi e ciò potrebbe spiegare perché nel Picatrix si usi la locuzione «nabatei-copti».

Proprio dai territori di Sheba/Saba proviene la più celeste delle piante, l'incenso, l'arbusto «spiritualmente» più elevato. La sua resina è la più pura delle sostanze conosciute e ad essa potrebbe riferirsi il cartiglio del dipinto di casa Gozzano, per indicare che la «celeste pianticella» è un'essenza ancora più pura della più pura tra le essenze conosciute.

L'epigrafe successiva in questa prospettiva, conferma appieno l'ipotesi: «questa pianticella è un giglio di pudore». Il giglio è notoriamente il simbolo stesso della purezza, mentre il «pudore» è ciò che rende «inarrivabile». La pianticella è quindi di «irraggiungibile purezza».

Procedendo leggiamo che la pianticella è «Madre» della salvezza, è colei che genera la salvezza per tutti. Infine, nel più lungo di tutti i testi del dipinto, ritroviamo il termine «Madre» . La pianticella «purissima» e produttrice di salvezza è anche Madre di Dio.

Anagramma puro! Non perché si legga anche al contrario ma, in senso ermetico, perché tutto sta in tale purezza e comunque si cambi l'ordine delle lettere, essa sarà sempre pura... come in alto, così in basso, come in cielo così in terra...

CasaGozzanoL 1Luzzogno: Santuario della Colletta

E l'altro albero del Paradiso? Qui sta la grande prova. Perché, nella Genesi, Adamo ed Eva si accorgono troppo tardi della sua esistenza, perché lo vedono soltanto quando vengono scacciati? Forse perché quell'albero è l'Eden stesso e solo quando ne escono scorgono finalmente, da fuori il su tronco.

Nel dipinto di casa Gozzano l'idea, almeno, sembra essere questa. Il bene e il male, i vizi e le virtù, sono ben rappresentati, quasi fossero radici di un grande albero, insieme a parole che esortano a «conoscerli». A sorvegliare entrambi ci sono gli angeli, come quelli posti all'ingresso dell'Eden, poiché una tale sapienza è sapienza «angelica» o, per dirla come Salomone nel Corano, la «lingua degli uccelli» (esseri del cielo, angeli, appunto): «O uomini! siamo stati istruiti al linguaggio degli uccelli (ullimna mantiqat-tayri) e colmati di ogni cosa».

Il percorso ora è giunto a compimento ed è pronto a ricominciare.

C'è un ultimo dettaglio. Quando l'osservatore si pone davanti al dipinto, inconsapevolmente guarda verso nord-ovest, là dove si trova, secondo le tradizioni mistiche, l'ingresso per l'aldilà...

 

 


BIBLIOGRAFIA

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Teruggi, Francesco, Il Graal e La Dea, Giuliano Ladolfi Editore, Borgomanero, 2012


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Pubblicato in Italia
Sabato, 22 Agosto 2015 17:51

La mia terra mi insegnò le verità

Dipinse l'acqua sopra il fuoco e accanto il demone dell'aria insieme alla terra nutrice. Non ci si può sbagliare e non può essere casuale. Perché altrimenti raffigurare il Battista lungo il fiume, sulla cappa che copre il focolare?

Aveva seminato come molliche di pane i brandelli delle verità in tante sue opere, nascosti ma visibili all'occhio acuto. Solo quando si era rinchiuso nella prigione dorata della sua nuova casa, al riparo dalle voci e dagli sguardi accusatori, coperto di vergogna per aver perso il titolo notarile, ignorando qualunque prudenza, aveva finalmente dato forma a quelle verità, senza più nasconderle.

Erano sincere ragioni maturate nel tempo con il cuore, non certo eresie! Erano sgorgate nel silenzio dell'animo di un nobile notaio e sensibile artista, nient'affatto risibili fandonie!

Quei primi flebili sospetti erano cresciuti con l'età e sbocciati a vita nuova mentre lavorava con mastro Fermo. Dissetandosi all sorgente di sapienza che prorompeva da quel rinomato pittore, ascoltandone le parole in silenzio, prendendo poco a poco il coraggio di fare qualche timida domanda nelle corte pause, rubando i sussurri forbiti degli architetti e del magister del cantiere, lentamente le verità che la sua terra gli aveva narrato da fanciullo avevano preso forma.

Le figure sante che gli avevano chiesto di tinteggiare nella chiesa grande di Montecrestese (1547) non gli avevano lasciato grandi spazi di manovra. Poi, due anni più tardi, finalmente l'occasione era giunta, quando aveva bussato alla sua porta niente meno che il priore dei Disciplinati di Santa Marta.

La confraternita era appena riuscita nella gravosa impresa di farsi concedere parte della chiesa pievana, per ricavarvi una cappella nella quale i disciplinati potessero radunarsi. Così avevano scelto lui, Giacomo, per decorarla come si conveniva. Il giudizio Universale, il Purgatorio e una grande Crocifissione erano i temi stabiliti, ma gli avrebbero concesso qualunque altra licenza se avesse accettato.

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Montecrestese (VB) - Chiesa Parrocchiale

Non aveva esitato un istante e noi, cinque secoli più tardi, ancora ne possiamo ammirare l'opera. La “disciplina”, per i confratelli, era uno strumento di guarigione. La flagellazione che essi si imponevano era il medicamento per i peccati dell'intera comunità. Nel dolore e nel sangue di quel gesto cercavano la redenzione, la trasformazione del peccatore in “figlio d'Iddio” e la sua rinascita nello spirito.

Giacomo si era immedesimato in quell'idea ma, superando l'ipocrisia della punizione corporale, ne aveva voluto restituire la verità profonda e non traviata dalle pulsioni umane. Prendendo a prestito la “lingua” dotta degli alchimisti e dei pensatori illustri di città, che stava imparando a conoscere, aveva fatto in mezzo alla parete un crocifisso bianco, del colore preciso della materia alchemica in trasformazione. Quel corpo martoriato non poteva che essere candido come il “latte” della Madre che, nutrendo i figli, li trasforma in “adulti”mondandoli da ogni peccato.

Accanto a quel gran sole, a ciascun lato aveva posto i due “banditi”, i due “esiliati”: il mansueto Disma a destra con la testa rivolta in alto, al cielo; il ribelle Gesta mentre si contorce come un serpente, volgendo all'indietro la testa, verso il basso, verso la terra, a sinistra.

Poi, tra le mille figure assiepate nervosamente ai piedi dei tre condannati, nascose sotto gli occhi di tutti un piccolo dettaglio, un brandello di colle, un pezzo della sua terra, di quella madre premurosa che fin li l'aveva “accompagnato”. Il declivio è tagliato, a metà c'é una sorta di cengia con una spianata davanti, trattenuta da un muro netto e verticale. Sette “pietre” sono sapientemente disposte sul terrazzamento, tutte diverse per dimensioni, ma organizzate secondo una logica invisibile.

Un solo luogo reale può averlo ispirato, a Montecrestese. È possibile che il sito megalitico di Croppole gli fosse già noto? Con buona probabilità non aveva idea dell'antichità di quelle pietre, ma non si può certo escludere che, in qualche modo, ne fosse rimasto affascinato. Del resto erano -e sono ancora- molto vicine alla frazione di cui Giacomo portava il nome.

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Se così fosse, il “sole di giustizia” esiliato tra gli esiliati, nell'affresco s'innalzerebbe dal centro della valle, in corrispondenza della confluenza tra la Toce e l'Isorno e il “ladrone ribelle”, elevandosi dall'attuale Pontetto-Roldo, “farebbe ombra” alla frazione Cardone, quindi alla casa del pittore e per analogia al pittore stesso!

In quella grandiosa scena ambientata ai suoi giorni, Giacomo già si raffigurava, lui e le verità che stava maturando, il “messo in ombra”, il “bandito”, l'escluso, l'esiliato, l'incompreso, senza immaginare quel che pochi anni dopo gli sarebbe davvero accaduto.

La collocazione del dipinto sulla parete settentrionale della cappella, inoltre, sembra dare una collocazione paesaggistica quasi astronomica all'insieme. Il Cristo Bianco sulla croce lignea, corrispondendo alla direttrice nord-sud, diventa ad ogni livello il vero “asse del mondo”, con le braccia a indicare i due “equinozi”. Dietro di lui, i due ladroni indicherebbero, entrambi a 45° e quindi nelle direzioni Nord-Est e Nord-Ovest, l'alba e il tramonto del Solstizio estivo ma anche, nella direzione dei loro sguardi, l'alba e il tramonto del Solstizio Invernale. Lo scorpione solitario, sul vessillo oltre il ladrone che si contorce sulla sinistra del Cristo, è un richiamo preciso e corretto alla costellazione omonima, contro la quale il sole sorge proprio al Solstizio Estivo se osservato da Montecrestese.

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Montecrestese (VB) - Crocefissione, particolari astronomici

 

Non pago, Giacomo aveva “corso il rischio” fino in fondo. Da quella parete nessuno mai avrebbe cancellato una tale immagine. Sarebbe rimasta intoccata, perenne testimone del dono che la sua terra gli aveva fatto e aveva fatto a tutti attraverso la sua opera.

Perciò i due ladroni-solstizi non sono appesi a croci levigate ma ad alberi nodosi e “antichi”, le cui cime potate sono diventate i patiboli, le braccia trasversali. Il rimando inequivocabile è al mito celtico del “re della quercia”, al taglio dei rami della pianta sacra a Odino e al sacrificio del “re” crocifisso al suo tronco, la cui morte è necessaria alla vita della terra.

Chissà che dipingendo nelle edicole delle frazioni, Giacomo non avesse conosciuto una delle sacerdotesse dette streghe, ultime depositarie del ricordo sbiadito e impreciso di ciò che era stata la raffinata spiritualità delle valli e delle montagne ossolane, legata alla terra, al cielo e ai suoi cicli, che all'epoca sicuramente esistevano ancora. A Montecrestese, non molti anni dopo la morte del pittore, ne saranno inquisite e condannate diverse (1591).

Un altro dettaglio astronomico e rilevante sono le ombre, le uniche ben definite dell'insieme, proiettate dai “megaliti”. Sono molto allungate a indicare un tramonto, quello del Sole quando si trova Nord-Ovest, nei giorni del Solstizio Estivo. Tale periodo è però nella simbologia dei “due san Giovanni” legato non al Giovanni Evangelista (e quindi al Cristo) bensì a Giovanni Battista.

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Fregio a "grottesche", casa di Giacomo Da Cardone - Montecrestese (VB)

 

E ciò ci riporta alla casa di Giacomo, al nascondiglio in cui si sarebbe rifugiato anni più tardi, affranto dall'infamia dell'accusa di eresia. Qui avrebbe sfogato il suo bisogno di verità e concluso la narrazione. Sulla cappa del camino, grandioso simbolo alchemico dell'elemento fuoco con le sue fiamme, dipinse il preludio a un battesimo, quello del Cristo, che giunge da lontano lungo un fiume Pensandoci bene, il torrente sembra essere il prolungamento serpeggiante delle fiamme che, di certo, si levavano crepitanti dal camino acceso. Il fregio a destra e sinistra richiama da una parte, nei loro profili “totemici”, le creature che popolano la terra e la madre che nutre, dall'altra forme svolazzanti, lievi, leggere, brezze, venti e soffi che escono dalle narici e dalle orecchie.

I quattro elementi del creato, così come li aveva mirabilmente teorizzati il celebre Agrippa, morto quando Giacomo era ancora un apprendista a Crevola, abbracciano quindi in tutta la loro perfezione i presenti che si intrattengono nella sala. Non c'é separazione, fluiscono uno nell'altro in un movimento perpetuo e direzionato.

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Non è un “gabinetto delle curiosità”, un wunderkammer da collezionisti rinascimentali, ma un insieme omogeneo oltre le apparenze, in cui l'artista aveva ambito a sintetizzare la verità unica, così come filosofi e teorici l'avevano sognata, non ultimo l'illustre Giovan Pico Della Mirandola, alla fine del Quattrocento.

Che tutto, ma proprio tutto, nel creato “abbia un sesso”, quindi una “prevalenza”, una direzione e un movimento è senza dubbio una delle verità che Giacomo aveva maturato. Era stato attento a non evidenziarla troppo nelle realizzazioni “religiose” che gli avevano commissionato a Baceno. Ma non aveva potuto trattenersi quando si era trattato di decorare la casa Marini di Crodo, nel 1547. Nei fregi di quella dimora nobiliare perfino gli angeli “hanno un sesso” e accanto ad un “femminile” compare sempre un “maschile”, in un'alternanza studiata e non casuale di opposti che si attraggono, proprio come i mistici di ogni tempo raccontano accada in ogni atto di creazione, ad ogni livello, dal più minuto a quello delle stelle.

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Wunderkammer del XVII sec. (da Wikipedia)

 

Tale è la musica, il canto del creato, la “sinfonia delle sfere”, il suono che crea e vivifica, ossessivamente rappresentato da Giacomo nelle teorie di musicanti, di menestrelli e di quell'Orfeo, della Casa Marini nel quale forse si identificò. C'é una strana similitudine nella posa delle braccia e nello sguardo vacuo, incurante e quasi di sfida, del suonatore mitologico, del soldato in primo piano nella crocefissione di Montecrestese e del Giovanni Battista sul camino della sua casa.

Orfeo canta e suona. Il suo è un canto di verità. La natura soltanto lo comprende e accorre ai suoi piedi. Nei suoi occhi c'é la solitudine ma anche un qualche compiacimento per la prova cui sta sottoponendo qualcuno che, però, non verrà.

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Eppure Orfeo continua a diffondere la sua musica, assiso su quella terra che gli ha insegnato le verità e incurante dei demoni inquisitori che, da lontano, lo osservano. Lo prenderanno, prima o poi, ma la verità sarà preservata.

 

 


BIBLIOGRAFIA

 

Gian Franco Bianchetti, Il pittore Giacomo di Cardone, in Oscellana, 1988

Tullio Bertamini, Le disavventure del pittore Giacomo di Cardone, in Oscellana, 1991

René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Milano, Adelphi, 1962

Henric Cornelius Agrippa, De Occulta Philosophia libri tres, Anversa, 1531

Giovanni Pico della Mirandola, De ente et Uno, 1489

Jean Chevalier e Alain Geerbrant, Dizionario dei simboli, Parigi, 1969

Erich Fromm, Il linguaggio dimenticato, New York, 1951

Robert Graves, La Dea bianca, Faber & Faber, Londra, 1948

Frederic Portal, Des couleurs symbolique, dans l’Antiquité, le Moyen Age et les Temps Moderne, Parigi, 1837


 

Pubblicato in Personaggi
Domenica, 14 Luglio 2013 11:51

La gloria della tentazione

 

La gloria di cui gode colui che si rende partecipe dell'Infinito a ogni strato e livello degli eoni dell'essenza, percorrendo le possibilità del tempo, del modo e della forma, pur se rallentato nelle dimensioni di questa esistenza, può rendersi talvolta manifesta a chi, pur potendo, se ne esclude quanto a chi pur volendo ne è escluso. Si condensa allora visibile quale fuoco increato, puro e primorde, abbacinante nel suo fulgore, sopra il suo amato che lo alimenta, come un faro sulle rocce tra le nebbie.

 

Pubblicato in Riflessioni

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