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I due re che fecero universi gemelli nella pietra
Questa è la storia di un re decaduto, di una montagna sacra e dalla nascita del più grande impero indocinese. E' la storia di re Devanika, sovrano di Funan, spodestato dalle bellicose tribù venute dal nord.
Nulla gli rimaneva se non le visioni del rishi Vaktrashiva, secondo il quale avrebbe dovuto lasciare la celeste città di My-Son, per cercare la montagna sacra di Shiva Briadeshwara, uno dei 68 lingam naturali di Shiva e qui edificare un nuovo tempio e una nuova città. Allo spuntare della luce dorata di un'alba del V secolo a.C. Devanika partì, dunque, portando con sé il fido Khammata, l'architetto reale.
Stele di Devanika
Camminarono per settimane, forse mesi. Poi un giorno Devanika, mentre rimuginava seduto sulla riva del grande fiume madre-di-tutte-le-acque, finalmente lo vide. Lingaparvata si ergeva dalla pianura, fiero e maestoso proprio davanti a lui. Era giunto nella nuova terra sacra, la novella Kurukshetra, gemella identica della piana in cui si erano combattute le battaglie del Mahabarata.
Costruì un lago in cui i pellegrini che sarebbero giunti potevano immergersi per uscirne benedetti e ordinò a Khammata di erigere un tempio a Shiva sulla montagna. Tra il fiume e la piana sorse presto la capitale del nuovo regno, Shresthapura. La benevolenza del dio avrebbe vegliato su Devanika e sui suoi successori.
Quattrocento anni più tardi, l'ultimo re di Shresthapura e discendente di Devanika, Jayavarman II, al termine dell'unificazione di tutti i piccoli regni indocinesi, avrebbe costruito un nuovo tempio e fondato ufficialmente il grande impero Khmer iniziando la costruzione della nuova grande città sacra di Angkor.
Il passaggio dal mito alla storia è una stele rinvenuta sulle rive del Mekong nell'odierno Laos, in cui il re mitico Devanika racconta di proprio pugno la vicenda di come giunse nel luogo in cui regnava Shiva vivente. Poi, nel 1998, una scoperta tutta italiana ha definitivamente risolto l'enigma. A poca distanza dalla stele, sulla cima del Phu Kao, che domina dall'alto dei suoi 1416 metri la regione di Champassak, nel Laos meridionale e sulle cui pendici Henry Parmentier aveva scoperto un grandioso tempio pre-angkoriano a inizio '900, una spedizione italiana ha trovato la prova dell'esistenza di un sacrario dedicato proprio a Shiva: le fondamenta di un piccolo tempio e poco più in basso, i resti di un altare e di un lingam.
Qui, dunque, dove il corso del Mekong è più largo, nella fertile pianura del Bassac, è nato l'impero Khmer, alle pendici del Lingaparvata, il Ling Kia Po P'o della cinese "Storia dei Sui" (VI secolo d.C.) sulla cui cima si ergeva un tempio dedicato al dio P'o To Li, custodito da mille soldati e dove una volta all'anno durante il plenilunio, il re in persona sacrificava una vittima al signore della montagna.
Della prima capitale e della sua leggendaria gemella Lingapura, acclamata in molte fonti antiche come ricca e prospera città di commercio, solo ora individuata come buona certezza, rimangono soltanto pochi resti. Ma esiste ancora lo splendido complesso templare progettato e costruito forse già da Khammata, sulle pendici del dio montagna.
Wat Phou Champassak è un universo nella pietra. È concepito come una grandiosa via, una strada in leggera salita lunga più di un chilometro e mezzo che punta decisamente a ovest, preceduta da due file, una di di tre e l'altra di due, ciclopici baray (bacini artificiali). L'unico che oggi ancora contiene acqua misura 200 metri di larghezza per 600 di lunghezza. Se il Phu Kao-Lingaparvata simboleggiava il Monte Meru che si levava dalla pianura di Kurukshetra, i bacini riproducevano gli oceani che si estendevano alle sue pendici. Pare che un canale artificiale (non più esistente) deviato dal Mekong consentisse al re di raggiungere il baray centrale a bordo di un'imbarcazione cerimoniale.
Una terrazza a gradoni, ancora visibile, posta oltre il bacino, era un tempo il basamento del primo gopuram, l'accesso principale del tempio, oltre il quale iniziava il lungo viale rettilineo delimitato da due lunghe file di pilastrini in forma di lingam.
Il viale termina ai piedi di due complessi gemelli di cortili vagamente simili a chiostri, in cui si aprono portali splendidamente scolpiti. Lo scopo delle due strutture, arbitrariamente definite “casa degli uomini” e “casa delle donne” è tutt'ora oggetto di dibattito.
Da ciascuna, una galleria coperta conduceva all'inizio del percorso in salita. Il numero sette diventa dominante. Sei più la sommità sono i livelli intervallati da quattro scalinate e portali, sette sono le rampe per ogni scalinata e sette i gradini di ogni rampa. Naga dalle infinite spire si snodano sui muri che delimitano il percorso ed elevano le loro sette teste in fondo alle balaustre. Altri serpenti si fronteggiano scolpiti nei gradini e nelle soglie di ogni livello, ai piedi di quelli che, molti secoli fa erano poderosi gopuram.
Oltre la seconda scala si ergevano i due Dvarapala (colui che apre/sorveglia la porta) armati, uno per lato. L'unico esistente, ancora adorato come buddha, sembra sia stato modellato sulle fattezze dell'architetto reale Khammata, ideatore del tempio.
Finalmente il camminamento processionale raggiunge la collina. Sette terrazze che emergono dalla terra come un muro invalicabile sono l'ultimo ostacolo al raggiungimento della sommità del tempio. Bisogna di nuovo affrontare una scalinata a sette rampe di sette ripidi scalini.
E infine, ecco il santuario inaccessibile di Shiva, con il vestibolo che precede il sacrario e le porte aperte su tre lati in direzione dei punti cardinali, sormontate dai Dikpala, i loro rappresentanti e guardiani. Qui nella porta principale si infila il sole dell'equinozio che sorge a Est. Oggi illumina una statua del buddha ma una volta percorreva tutto il vestibolo per raggiungere il lingam sacro e nutrirlo con il miele del cielo.
Intanto, l'acqua prelevata dalla sorgente che si trova 60 metri sud-ovest del complesso e incanalata in un sistema di canalizzazione e distribuzione unico al mondo, passando per numerose fontane e per la sacra Trimurti delle forze del cosmo, irrorava continuamente e il lingam, nutrendolo con il latte della terra.
Poi, il liquido vivificato dalla luce si raccoglieva probabilmente in una vasca, dalla quale solo il re poteva bere. L'essenza della regalità, l'Io impalpabile del sovrano, era infatti posta nel lingam, simbolo della potenza creatrice di Shiva.
Alla stessa fonte di latte e miele si sarebbe abbeverato quattrocento anni più tardi l'ultimo discendente di Devanika, incoronato re da queste acque luminose con il nome di Jayavarman II. Cresciuto alla corte dei sovrani Saliendra di Giava, non si sa se come schiavo o per ricevere adeguata istruzione, vide la costruzione dello spettacolare Borobodur, il primo tempio-montagna eretto per celebrare il culto del deva-raja, re-dio.
Tornato infine in patria come vassallo, ben presto si impose sui signori locali e la sua influenza aumentò. Poi, un giorno, com'era stato per Devanika, una visione lo rese re. Il messaggio giunse in sogno ad un suo figlio, forse lo stesso che gli sarebbe succeduto come Yasovarman I o l'altro che si dice abbia regnato per breve tempo come Jayavarman III. Il luogo che aveva visto nel suo viaggio onirico, un picco circondato da cinque montagne, era quello su cui avrebbe dovuto sorgere un nuovo tempio dedicato a Shiva Nataraja, il danzatore cosmico.
Cercò senza sosta. Finché lo riconobbe. Era là, tra i Monti Dangrek. Era come nel sogno. Lo fece uguale all'antico tempio, più a settentrione, dove i Khmer erano nati, Wat Phou. Stabilì con precisione da dove giungeva il sole dell'equinozio e fece fare una galleria perché il signore del cielo vi si accomodasse.
Ma ruotò l'asse principale del tempio, chiamato Prasat Preah Vihear, “Castello della dimora Celeste”, quasi esattamente a Nord e su di esso fu posto un lungo viale lastricato con cinque gopuram. Poi, come ricorda una stele trovata nei dintorni, una “pietra” sacra, forse un lingam, fu portata da Wat Phou al nuovo tempio. Così Jayavarman II poté finalmente celebrare "un rito tramite il quale la Cambogia non fosse più dipendente da Giava e che non ci fosse nel regno che un solo re che ne era l' unico sovrano", diventando in questo luogo di potere il sovrano universale, il Chakravatin, “colui le cui ruote si muovono”.
Intanto non molto lontano, nasceva la nuova capitale del regno Khmer, Hariharalaya. Il suo complesso di templi sarebbe poi diventato l'area sacra di Angkor. Ma per lungo tempo le origini non sarebbero state dimenticate. Una strada lunga 240 chilometri continuò a collegare la capitale all'antico tempio di Wat Phou, presso il piccolo santuario del Toro Nandi, passando per Nang sida e Ban Thaat. Ancora oggi i primi 30 km sono ancora disseminati di piccoli templi e santuari. Molti altri sono stati saccheggiati e distrutti dai cercatori di tesori.
In Laos, con la venuta del buddismo theravada, ai lingam di Shiva si sono sostituiti i buddha prabang, ma il sole ancora ne bacia le sommità e l'acqua scorre sulle loro teste ad irrorarli e nutrirli.
Cambogia e Thailandia, intanto, continuano a contendersi la sovranità, contendendosi Preah Vihear, che oggi si trova proprio sul confine tra i due stati e senza il possesso del quale nessuno dei due stati può riaffermare la propria supremazia sull'altro...
BIBLIOGRAFIA:
H. Marchal, Le Temple de Vat Phou, province de Champassak, Éd. du département des Cultes du Gouvernement royal du Laos
H Parmentier, Le temple de Vat Phu, Bulletin de l’École Française d’Extrême-Orient, 14/2, 1914
Projet de Recherches en Archaeologie Lao, Vat Phu: The Ancient City, The Sanctuary, The Spring (pamphlet)
V. Roveda, Preah Vihear, River Books Guides, Bangkok, 2000
C. Higham, The Civilization of Angkor, London, 2001
L. P. Briggs, The Ancient Khmer Empire, American Philosophical Society (Philadelphia) vol. 41, 1951
La gloria della tentazione
La gloria di cui gode colui che si rende partecipe dell'Infinito a ogni strato e livello degli eoni dell'essenza, percorrendo le possibilità del tempo, del modo e della forma, pur se rallentato nelle dimensioni di questa esistenza, può rendersi talvolta manifesta a chi, pur potendo, se ne esclude quanto a chi pur volendo ne è escluso. Si condensa allora visibile quale fuoco increato, puro e primorde, abbacinante nel suo fulgore, sopra il suo amato che lo alimenta, come un faro sulle rocce tra le nebbie.
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Il Taj è ottagonale. La forma ottagonale è importante per l'Islam ma ha un valore speciale sorpattutto per l'induismo nell'architettura. Otto sono le direzioni astronomiche fondamentali e a ognuna presiede una “guardia”. Le altre due direzioni sono rappresentate dal basamento che indica la terra e dal pinnacolo che indica il cielo. Le dieci direzioni sono così sempre presenti nelle architetture induiste, raffigurate con forme ottagonali inserite tra basamenti e pinnacoli.
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Oggi voglio scrivere di una strana faccenda, risalente agli anni Settanta/Ottanta e relativa al celeberrimo e meraviglioso Taj Mahal. Il protagonista della vicenda è uno storico indiano, Shri Purushottam Nagesh Oak, autore, prima in hindi e poi nel 1989 in Inglese, di un controverso libro "Taj Mahal - The true history".
In esso, sosteneva - e continuò a sostenere fino alla morte, avvenuta nel 2007 - che il bianco cenotafio islamico di Agra, sia in realtà un antico tempio hindu dedicato a Shiva, usurpato al tempo dell'impero Moghul (Mughal in lingua persiana).
Oak tentò diverse volte di presentare e far approvare petizioni al governo Indiano affinchè fosse riconosciuta la reale natura del Taj e il suo esempio fu seguito da altri storici. Altrettanti però furono i suoi detrattori e avversari.